Un’isola può rappresentare la fuga perfetta, il difficile è tornare lasciandosi alle spalle le sue sicurezze. Un racconto di Alexia Bianchini.
Sono rimasto solo con un cane.
Hog Island mi era sembrata l’ultima spiaggia per evitare il contagio, e invece alla fine è diventata la mia tomba.
Ho deciso di salire sulla torre di controllo con Bruce, il mio Jack Russel, e di restarci fino all’alba.
La struttura è solida grazie a David, l’uomo che mi ha accolto in questo posto, che ha creduto di poter creare una comunità autonoma.
E all’inizio c’era riuscito. Tutti gli davano retta, eseguivano gli ordini senza contraddirlo.
Ma alla morte della figlia, per uno stupidissimo incidente, ogni regola è venuta a mancare, e nessuno si è accorto dell’arrivo di una barca con delle persone infette.
«Ecco la luce» esclamo.
Anche se ormai non c’è più speranza, quando vedo sulla terraferma la luce accendersi mi sento come un bambino.
Abbiamo fatto mille ipotesi sulla sua esistenza in questi mesi. C’era chi affermava che prima dell’epidemia a Shore Park non ci fosse nessuna luce, e che quindi poteva essere un segnale di aiuto, o un segnale per aiutare i superstiti. C’era chi invece ipotizzava che fosse automatizzata, visto che ogni sera si accendeva alla stessa ora. Ed era per diversi motivi che David aveva deciso di mettere in cima alla nostra torre una luce come quella. Si accendeva esattamente dieci minuti dopo.
«Che dici, lasciamo l’isola e andiamo là?» domando al cane.
«Hai ragione, meglio stare qua. Se non siamo stati al sicuro su un’isola, se il contagio ci ha raggiunti, figuriamoci cos’è successo sulla terraferma». Dalla radio non c’erano più informazioni da un pezzo.
All’inizio dell’apocalisse mi ero salvato il culo solo perché ero un agorafobico del cazzo, uno che si faceva mille seghe mentali per uscire con le tipe, uno che preferiva giocare seduto sul proprio divano.
Se non vivevo ancora con la mamma, era solo perché era morta presto.
Essendo perennemente collegato alla rete avevo appreso subito la notizia. Si parlava di panico, centri accoglienza, coprifuoco… solita manfrina da film apocalittico.
Avevo guidato fino al primo lago. Avevo uno zio che aveva vissuto da eremita per anni su un isolotto, e seguire il suo esempio mi era sembrata l’idea più geniale che avessi mai avuto.
Ma non ero l’unico ad avere avuto l’illuminazione.
Ho ucciso un uomo per prendermi la barca. L’avevo vista per primo, ma dal calcio arrivato senza preavviso compresi che non aveva nessuna voglia di condividere.
Non reagii bene.
Chiamiamola legittima difesa, che ne dite?
Se adesso penso alla mia vita mi viene da ridere. Mi ero rinchiuso in casa per quasi trent’anni, e quando finalmente ero riuscito a integrarmi nella società, a farmi degli amici, a portarmi a letto un paio di ragazze, ecco che la morte mi aveva fregato… se li era portati via, uno a uno.
Oltre al cane, mi è rimasta solo quella maledetta luce, che ogni sera, alle nove, si accende.
Forse è davvero automatica, o forse c’è un fottuto idiota come me, rimasto solo, a guardare una luce che si accende dieci minuti dopo la sua.
Io però non ho nessuna voglia di scoprirlo…
Di questi tempi, scrivere qualcosa di originale sul tema post-apocalittico è sempre più difficile. Ho apprezzato la citazione del capolavoro di Matheson, “Io sono leggenda”. Scrittura veloce, visiva. Il racconto soffre della mancanza di un intreccio autentico, ma è interessante il rovesciamento di prospettiva: laddove la maggior parte dei sopravvissuti al cinema e nei romanzi è alla ricerca di altri sopravvissuti, il protagonista preferisce la sicurezza della solitudine.
Il tuo racconto deve molto all’influsso del genere letterario della sceneggiatura. Lo vedrei come un episodio breve di “Ai confini della realtà”. Si presta bene per via delle descrizioni molto essenziali. Il protagonista e il suo cane Bruce sono ben descritti, e anche l’ambiente è reso efficacemente, come pure l’evoluzione del protagonista, da agorafobico, riesce a salvarsi la vita uccidendo l’uomo che voleva tenersi la barca per sé. Buona anche la resa della psicologia del protagonista attraverso il ricordo dello zio altrettanto misantropo. Io ci vedo anche una citazione di Ray Bradbury, il quale immagina un protagonista altrettanto solitario in “Cronache Marziane” (fugge da un’aspirante moglie dispotica).