Katia vola. Sente l’aria sul volto, i capelli che si ribellano e il vestitino che le preme contro il corpo.
È una sensazione meravigliosa. Leggera come una farfalla, veloce come una libellula. Una fata.
Sorride.
«Io non ce la faccio.»
La voce di papà, calda come le sue mani quando le accarezza le guance, sembra diversa dal solito. Lo guarda: ha le lacrime agli occhi, le sopracciglia inarcate e la bocca piegata in una smorfia che non gli ha mai visto. Katia si preoccupa, ha paura che papà stia male.
«Abbassa la voce! Guarda che ti sente!» – gli dice mamma. È poco più di un sussurro, ma Katia ha le orecchie buone.
Papà si passa una mano sulla faccia. Mamma lo abbraccia.
«Sssh, resisti» gli dice.
Katia non capisce. Però sa quello che deve fare. Si alza dal tappeto e va anche lei ad abbracciare papà.
Priva di peso. Lo stomaco in subbuglio, come quando vede il suo compagno di classe Gianni. Sì, la sensazione è la stessa. Volare è come innamorarsi, allora, pensa.
Vorrebbe non smettere mai, non smettere mai di volare e non smettere mai di innamorarsi.
Katia la ricorda, la prima volta in cui ha chiesto a mamma e papà cosa volesse dire “daun”.
Loro le hanno sempre detto che significava “speciale” e che lei, speciale, lo era davvero. Un bacio sulla guancia, una carezza sui capelli. E finiva lì.
Ma quando tornava a scuola c’era sempre qualcuno, sull’autobus o in classe, che le rideva dietro e le gridava quella parola. Katia cercava di ridere anche lei, ma talvolta c’era tanta di quella cattiveria in quelle grida che non le era possibile farlo. Allora si metteva in un angolo, con le braccia conserte, e chiudeva gli occhi aspettando che smettessero.
Non era mai stato un gran problema. Speciale. Un bacio, una carezza.
Poi era stato Gianni a chiamarla “daun”. E quando Katia era tornata a casa in lacrime aveva visto il volto di papà sciogliersi in quella maschera di dolore.
Lo stringe. Ma lui non la bacia e non la accarezza. Lo fa la mamma, però Katia vorrebbe che lo facesse anche papà.
«Scusa» gli dice, convinta di aver fatto lei qualcosa di sbagliato.
Non vuole che mamma e papà siano tristi. Tutti, ma loro no.
Non ha mai provato un’emozione così intensa. E la velocità aumenta, aumenta.
I capelli quasi la frustano, il vestitino sbatacchia.
Dagli occhi le sfuggono lacrime che strisciano sulle tempie e vanno a bagnarle le ciocche.
Le fate non piangono. Perché lei invece lo fa?
Quando la mamma le dice che papà ha avuto un incidente, Katia sta giocando con le bambole: una Barbie e due Winx, le sue preferite. Non capisce cosa sia “un incidente”, la faccia della mamma però non le piace. Lascia cadere i giochi e va ad abbracciarla.
«Scusa» dice.
«Non è colpa tua» risponde la mamma, stringendola. Ma la sua voce non è sincera.
Il viaggio fino all’ospedale è una nuvola grigiastra di silenzio imbarazzato. Dal sedile posteriore della macchina Katia non può vedere se la mamma piange. Sente che tira su col naso, tante volte.
Un odore pungente la assale, nel momento in cui entrano nell’ospedale. Prendono l’ascensore e arrivano in un posto dove le infermiere camminano indaffarate. La stanza di papà è vuota, ma dopo pochi istanti arriva un letto con le rotelle e sopra c’è lui. È coperto di bende e ha una gamba ingessata.
Si precipita da lui insieme alla mamma.
«Scusa» gli fa. Lui non risponde.
La mamma parla con un medico, poi si siede vicino al letto. Katia le si avvicina. Un bacio e una carezza.
«Vado in bagno» annuncia.
«Vuoi che ti accompagni?» chiede la mamma, lo sguardo spento.
«No.»
E le sorride.
L’aria è violenta.
Immagina che le escano le ali, come se fosse una fata. Winx Enchantix. Le piacerebbe essere Flora: ama i fiori, passa pomeriggi interi a cercare di far crescere piante che, però, proprio non ne vogliono sapere di crescere, o anche solo di sopravvivere. Se fosse Flora, non avrebbe problemi e riempirebbe la casa di fiori colorati. Così magari mamma e papà sarebbero più felici.
Nessuno la nota, quando prende l’ascensore. Preme l’ultimo tasto in alto; deve mettersi in punta di piedi per arrivarci, ma ce la fa.
È nervosa, si mangia le unghie. Cerca di non pensare a papà nel letto con la gamba ingessata e le bende in faccia, le verrebbe solo da piangere. E non deve farlo: sa che se incontrasse qualcuno, desterebbe sospetti. Non vuole tornare giù, non così.
Le porte scorrevoli si aprono.
Il corridoio è luminoso, il pavimento ancora umido e nell’aria c’è un odore di fiori che la rende allegra.
Davanti a lei c’è una balconata: due infermiere stanno prendendo una boccata d’aria. Si affaccia, guarda sotto. È una giornata splendida.
«Cerchi qualcuno?» le fa una delle due.
Katia la ignora e scavalca la balaustra.
«No! Cosa fai?»
Le urla si sovrappongono le une alle altre. Ma lei ormai ha saltato.
Leggera come una farfalla, veloce come una libellula. Una fata.
Mamma e papà non soffriranno più.
La strada si avvicina. Katia sorride.
