Conosciamo i gremlins come i mostriciattoli dei film di Joe Dante, ma in verità le loro origini sono più antiche e la loro presenza potrebbe perseguitarci nei secoli a venire…
Li sento. Sono nell’impianto d’aerazione della Exodus. Sotto lo scafo. Nelle intercapedini.
Tickle-tickle-tickle.
Riesco a sentirli, oltre le urla. Oltre la sirena. Oltre la voce di Julie, il comandante, che mi rimbomba nell’auricolare in dotazione.
«Cole, rapporto!»
Poverina, svegliata forse proprio nel mezzo di uno di quei bei sogni erotici di cui amava tanto raccontarmi. Il sistema d’allarme generale deve averla espulsa a forza dalla capsula criogenica e fatta correre in plancia. Uno dopo l’altro, anche il resto dell’equipaggio l’ha seguita.
«Danni su tutto lo scafo! Forse uno sciame di asteroidi, ma l’autoriparazione ha funzionato a dovere!»
«E allora perché stiamo cadendo?»
«La rotta è stata riprogrammata! Siamo attirati dalla gravità di un pianeta! Collisione prevista in dodici minuti!»
«Retrorazzi d’emergenza!»
«Il sistema non risponde! Tutto è bloccato, anche sul manuale!»
«Alan, dove CAZZO sei?! Alan! ALAN!»
Sento Julie gridare il mio nome. Spera nel mio intervento, spera che il suo adorato ingegnere di bordo emerga come un deus ex machina e intervenga, che sblocchi tutto e li salvi.
Ma non voglio.
Loro non vogliono.
Tickle-tickle-tickle.
Dovevo dormire come gli altri. Ma qualcosa è andato storto.
La Exodus era la summa delle nuove tecnologie, il meglio per il balzo interstellare. Eppure è successo lo stesso. Un guasto, un fottuto guasto nell’impianto criogenico di una capsula, la mia.
E siccome le sfighe vanno sempre in coppia: un’anomalia sul sistema d’espulsione d’emergenza ha impedito che venissi sputato fuori.
Ed è lì che arriva la vera mazzata. Quando capisci che la tua mente non è ibernata come il corpo. Quando capisci che stai ascoltando il silenzio, quel fottuto silenzio che cristosantobenedetto durerà ANNI. Che quel cesso di capsula diventerà la tua bara. Allora sì che c’è da piangere. Piangere da solo, nel silenzio assoluto, chiedendoti perché, perché proprio a te.
Io l’ho fatto.
Finché non ho iniziato a sentirli.
So che è colpa loro. Quei piccoli bastardi infestavano i trabiccoli alati già nella prima Guerra Mondiale, non potevano resistere a un’intera astronave da sabotare, unici e indiscussi clandestini della nuova era.
Perché loro esistono. Devono esistere. Quel guasto così assurdo DEVE avere un motivo…
Tickle-tickle-tickle.
Gli altri avrebbero scambiato questi suoni per urti sullo scafo dovuti ai detriti, cigolii d’assestamento, rumori fantasma generati dall’immaginazione… o dalla pazzia dovuta alla solitudine e al silenzio assoluto,.
Ma io non sono pazzo. Non lo sono. Non lo sono…
Erano dappertutto. Li sentivo correre
(ting-ting)
sulle pareti, e poi sul soffitto
(tick-tick-tick-tick)
come ragnetti forsennati. Ogni tanto andavano a ritmo, quasi una ninna nanna. Altre volte, era invece un linguaggio Morse, forte e chiaro.
Vieni!
Perché mi chiamavano? Cosa volevano?
Vieni!
Non posso. Avevo le labbra ancora congelate e potevo soltanto pensare. Loro, però, sembravano capirmi comunque.
Vieni!
Siete stati voi a provocare il guasto! Avete manomesso la mia capsula! Perché?
Troppo tempo, troppo tempo! sussurravano. Ci annoiamo
Perché io?!
Quella domanda è sempre rimasta senza risposta.
Fino a oggi.
Poche ore fa, il sistema d’espulsione s’è sbloccato all’improvviso, senza una ragione. Con un bip e un concerto di luci rosse, finalmente la capsula mi ha rigettato.
Anche questo per opera loro. Ne ero più che certo.
Vieni!
Li ho seguiti fino alla plancia, senza esitazione.
Tickle-tickle-tickle!
Ho disattivato gli scudi e, oltre il vetro, ho osservato l’immobilità delle galassie e i detriti che sfrecciavano accanto alla fusoliera.
Sotto i miei occhi, un monitor a scandire il countdown.
155 anni, 62 giorni, 19 ore alla meta.
Ho capito ogni cosa. Ho capito perché avevano sabotato la mia capsula la prima volta, ho capito perché mi hanno liberato solo quest’oggi. Perché comprendessi cosa significasse davvero la parola noia. Perché provassi… empatia, l’avrebbe chiamata Dave, lo psicologo di bordo, se fosse stato lì con me.
Ma Dave dormiva. Io no.
155 anni, 62 giorni, 19 ore.
Troppo, troppo, troppo tempo. Basta viaggiare.
Come dar loro torto?
Tickle-tickle-tickle.
Nell’auricolare, le urla dell’equipaggio si confondono.
Sorrido.
L’attesa non sarà lunga. Non più. Per nessuno.
Non mi troveranno mai prima che la Exodus impatti. Mi nascondo, proprio come loro.
E anche se riuscissero a trovarmi, non cambierebbe nulla. Non è colpa mia. Lo dirò, finché non mi crederanno. Non è colpa mia. Non è colpa mia…
Tickle-tickle-tickle.
Sono stati loro.