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26 giugno 2015 alle 15:42 in risposta a: Gruppo MORTICIA: Lista racconti ammessi e vostre classifiche #8726
1. Il faro, di Aronica Serena
Un brano che mi ha catturato per la tecnica di scrittura, in qualche passaggio addirittura eccessiva (tipo “un cupo e basso rumore”, dove forse bastava ‘cupo’ associato a un sostantivo più descrittivo rispetto a ‘rumore’).
Comunque è stato un vero piacere lasciar scorrere sotto gli occhi il flusso di parole misurato, ben ritmato e lessicalmente appagante. L’appunto che muovo al racconto riguarda la struttura narrativa, dove secondo me c’è un’eccessiva sproporzione tra i due personaggi, purtroppo a sfavore del padre, figura che dal punto di vista emotivo invece, in forza del dolore della perdita col quale sarebbe più plausibile una potenziale immedesimazione del lettore, dovrebbe esserne il fulcro.
2. Il centotredicesimo piano, di Andrea Viscusi
L’idea alla base della storia, il movente opposto dei due esploratori che viene svelato solo nel finale, l’intrigo del tradimento premeditato mi sono piaciute, però nel brano trovo anche delle incoerenze che fatico a metabolizzare: perché costoro vivono in accampamenti esterni, quando esistono costruzioni spaziose, integre e soprattutto non infestate da esseri letali del tipo ‘io sono leggenda’? Insomma, scoprono che i grattacieli li riparano dal vento stando fuori… ma capire che standoci dentro è anche meglio?
La questione della cordata mi sfugge: viene enfatizzato l’aspetto che l’essere secondo comporterebbe il fatto che se l’apripista – Kurt – dovesse perdere la presa, Egon che segue dovrebbe sostenerne il peso, ma se fosse invece Egon a perdere la presa, Kurt mica sarebbe esente dal sostenerlo…
E allora cosa cambia l’essere primo o secondo da questo punto di vista?
Rimane ovviamente in sospeso l’argomento di non poco conto – se riferito all’ambientazione creata nel brano – riguardante da dove provenga l’energia che alimenta la lampadina.
Il finale: “poi nel buio lo alzA alcora”, sicuramente un refuso.
3. Era d’estate, di Tina Caramanico
Un racconto che catapulta efficacemente il lettore nella spensieratezza delle vacanze estive trascorse in campagna da piccoli, in quelle atmosfere dove una grotta del fiume celava tesori e ingressi a mondi segreti e in cui ogni tronco di castagno, ritorto e spaccato da secoli di vento, sole e piogge, era sicuramente la dimora di una strega. La lettura scorre rapida nella prima metà del brano in cui la suspense aumenta, poi, nel momento topico della storia, ho sentito la mancanza di un più opportuno cambio di ritmo. La soluzione a mio parere è ‘troppo’ rivelata. Luminescenze e ombre che lascino intravvedere figure inquietanti, sussurri e fruscii che sembrino parole, cigolii che giungano alle orecchie come lamenti e singhiozzi, insomma, lasciare tutto ammantato nell’ambiguità del mistero che sta negli occhi dei bambini, avrebbe esaltato – per me – l’impronta del racconto.
4. L’ultima spiaggia, di Alexia
Ambientazione narrativamente ormai un po’ abusata, ma del resto si chiarisce proseguendo nella lettura, come essa sia utilizzata solo quale espediente per ‘canzonare’ il destino del protagonista, condannato per scelta o per forza alla propria natura solinga. È anche vero che questa caratterizzazione del personaggio risulta altrettanto inflazionata, per cui nell’insieme mi è rimasta, come dire, l’attesa di un’accelerazione da parte della trama, l’evento di un colpo di scena attraverso il quale rivalutare in modo originale questa struttura fatta un po’ di deja vu letterari.
L’immobilismo del finale, che pur rispecchia e sottolinea l’amara ironia delle scelte/non scelte del ragazzo, in realtà frena un incedere già lento. Diverso sarebbe stato il suo effetto se il racconto avesse riguardato i preparativi frenetici per raggiungere quella luce lontana quali la costruzione di una zattera, la raccolta e lo stoccaggio dei viveri, il rincorrersi nella testa delle aspettative, i progetti, le speranze ecc.
5. La prima stella della notte, di Francesco Nucera
Ho trovato il brano piuttosto sbilanciato, con una parte introduttiva molto articolata, ma che stenta comunque a rivelare dettagli sufficienti per contestualizzare la vicenda. L’immagine circa la location, per esempio, resta parecchio evanescente e con essa quindi anche la portata del torturatore, che potrebbe essere un terrorista, un demone o un angelo vendicatore allo stesso modo. Quando si arriva a un’idea un po’ più dettagliata attraverso il monologo del personaggio, la trama precipita improvvisamente verso una conclusione che coinvolge altre ‘forze’, che però rimangono oscure per natura (Angelo alza gli occhi al cielo e ‘delle mani’ portano via il prigioniero… di chi sono quelle mani, visto che un momento prima sembravano esserci solo loro due?) e motivazioni. Il finale quindi lascia un enorme punto interrogativo: chi è Angelo e per conto di chi agisce?
6. Dannato, di Francesca Nozzolillo
Una scena da ottavo girone dantesco, con la voce moralizzatrice in aggiunta. Mi è parsa una rappresentazione un po’ troppo artefatta, insomma un misto tra un interrogatorio estrapolato da un film poliziesco degli anni ’70 e ‘L’inferno può attendere’ – era il Paradiso, lo so… ;).
La trama è scarna e il punto d’interesse viene svelato immediatamente, quando il ‘giudice’ sbatte in faccia all’imputato la descrizione della sua colpa. Da lì i poi è solo un’agonizzante attesa della confessione, pienamente consci che ci sarà. Meglio secondo me sarebbe stato mantenere celato il motivo per cui il protagonista era tenuto prigioniero, travestendolo addirittura da vittima innocente degli eventi, in modo da portare il lettore dalla sua parte, per poi rivelare l’orrenda verità – che sarebbe arrivata come un pugno nello stomaco – solo sul finale
Ferma la buona idea del loop punitivo, il resto mi sembra sia stato un po’ sprecato.
7. Un ultimo regalo, di ophelia
L’argomento ovviamente è ponderoso ed emotivamente impegnativo. Io però ci vedo più un eccesso di disinvoltura a dispetto dell’opportunità o meno di utilizzare una facile arma di coinvolgimento. Difatti ciò che davvero è sfidante nell’affrontare questo tipo di contenuti è la parte in cui il brano reclama una spiegazione, cerca la propria soluzione, propone la chiave di lettura di una vicenda per la quale ogni tipo di retorica risulta inadeguata e spesso troppo inflazionata.
Non so, ma il finale che proponi non mi convince, per quanto poi nella realtà delle cose, i finali di tragedie analoghe non debbano convincere nessun altro fuorché chi li vive. Praticamente sulla soglia di una morte prematura e intempestiva, che trancia di netto le potenzialità di realizzazione dei propri progetti, la protagonista investe tutta sé stessa in un aforisma (suo?), che per quanto significativo e sgargiante, mi lascia più perplesso che partecipe.
8. Il giorno sbagliato, di Rossella Stocco
Ciao Rossella, devo essere sincero nel dire che ho trovato il brano narrativamente piacevole, ma stilisticamente un po’ ingenuo.
Non sono un fan sfegatato del racconto in prima persona, non per una mera questione di gusti letterari, bensì perché ritengo che sia un punto di vista difficile da padroneggiare senza il forte rischio di scadere in banalità e strutture inverosimili. Diciamo che il taglio umoristico del tuo brano lo esime da una valutazione rigorosa in questo senso, però se di ‘umorismo’ vogliamo parlare, il pezzo non mi pare decollare mai veramente e anche il finale, seppur ben studiato come tempismo e forma – la telefonata del protagonista -, a mio parere non ha la necessaria sproporzione con l’immaginario costruito in precedenza, tale da innescare l’effetto comico. Insomma, non sarà l’incontro con un mostro da incubo, ma anche quello con un cinghiale è inquietante assai…
L’impressione è che il taglio drammatico dell’incipit non c’entri nulla con quello che poi segue.
9. La Porta, di Gabriele Macchiarella
Personalmente considero la narrazione in prima persona una via comoda per l’immediatezza descrittiva cui sembra dare accesso, ma che a mio parere cela al suo interno non pochi trabocchetti, primo fra tutti il rischio di essere afflitta da scarsa verosimiglianza sia delle considerazioni, ma soprattutto della rappresentazione del modo in cui esse scorrono nella mente. Il racconto ha un incipit che crea molta suspense relativamente all’oggetto del brano, invogliando il lettore a immedesimarsi con l’attrazione che esercita sul personaggio, ma poi l’erogazione di questa carica viene interrotta bruscamente, per catapultare il protagonista in un albergo della Romagna, in una situazione del tutto avulsa dalla premessa e anche dalla soluzione finale.
Ecco, il finale: forse non l’ho compreso bene, ma a me pare che denunci una certa mancanza di mordente rispetto alle aspettative create, soprattutto quelle dell’inizio del pezzo.
10. L’amore brucia, di Leonardo Marconi
Al di là degli aspetti tecnici, il brano non mi ha coinvolto. Stilisticamente ho apprezzato il primo paragrafo, dove le percezioni del protagonista, le immagini che lo investono e le sensazioni che prova rappresentano il personaggio stesso e facilitano quindi l’immedesimazione del lettore con la situazione. Il secondo paragrafo invece mi pare per buona parte un racconto di ‘situazioni’, una descrizione necessaria a contestualizzare la nuova ambientazione onirica, mentre il terzo da cui mi attendevo, se non proprio una soluzione, almeno una rappresentazione condivisibile di ciò che per il protagonista vale la pena inseguire attraverso incubi e sogni, in realtà offre solo una sbirciata su uno spaccato anche piuttosto triste e problematico. Insomma, nel complesso ho vagato e questo va bene, ma ho patito l’apparente – e voluta? – assenza di una meta concreta del racconto.
11. Gli altri, di Simone Rapizzi
Mi pare che manchi un mondo intero da qualche parte, o nella mia capacità di comprendere quello che leggo, oppure nel brano che appare più simile a un coriandolo di un libro di 300 pagine fatto esplodere con un petardo, che a un racconto a sé stante.
L’incipit potrebbe anche essere un incipit, lo svolgimento manca certamente di informazioni fondamentali che aiutino a contestualizzare quel minimo le vicenda, almeno per evitare il totale disorientamento al lettore, il finale, be’… come finisce? Lo conquista l’Universo alla fine?
12. Il sentiero della vita, di Gloomy97
Dal punto di vista stilistico, la scelta di questa tipologia di narrazione ha – a mio parere – un coefficiente di difficoltà certamente basso. Nonostante ciò, il risultato mi pare sia piuttosto deludente. Passi l’assenza di intreccio, di avvenimenti e personaggi, però l’assenza della condivisione esperienziale, in un brano di questo tipo la ritengo un’omissione letale. La protagonista dice di essere stata al centro di una serie di eventi, di fronte ai quali addirittura non ha perso la forza, né abbassato la testa. Stiamo quindi parlando di qualcosa di particolarmente probante e drammatico… Cos’è? La morte di una persona cara, la perdita del lavoro, una malattia grave, un’unghia spezzata…? Su cosa mi sto confrontando ‘io lettore’? Non sarà certo la frenesia della vita o i casini al lavoro ciò che ha spinto questa ragazza a tali tormentate meditazioni.
Di fronte all’assenza dei dati del ‘problema’, purtroppo la soluzione proposta perde totalmente di senso…-
Questa risposta è stata modificata 9 anni, 10 mesi fa da
Marco Fronzoni.
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Marco Fronzoni.
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Marco Fronzoni.
Una scena da ottavo girone dantesco, con la voce moralizzatrice in aggiunta. Mi è parsa una rappresentazione un po’ troppo artefatta, insomma un misto tra un interrogatorio estrapolato da un film poliziesco degli anni ’70 e ‘L’inferno può attendere’ – era il Paradiso, lo so… ;).
La trama è scarna e il punto d’interesse viene svelato immediatamente, quando il ‘giudice’ sbatte in faccia all’imputato la descrizione della sua colpa. Da lì i poi è solo un’agonizzante attesa della confessione, pienamente consci che ci sarà. Meglio secondo me sarebbe stato mantenere celato il motivo per cui il protagonista era tenuto prigioniero, travestendolo addirittura da vittima innocente degli eventi, in modo da portare il lettore dalla sua parte, per poi rivelare l’orrenda verità – che sarebbe arrivata come un pugno nello stomaco – solo sul finale.
Ferma la buona idea del loop punitivo, il resto mi sembra sia stato un po’ sprecato.Al di là degli aspetti tecnici, il brano non mi ha coinvolto. Stilisticamente ho apprezzato il primo paragrafo, dove le percezioni del protagonista, le immagini che lo investono e le sensazioni che prova rappresentano il personaggio stesso e facilitano quindi l’immedesimazione del lettore con la situazione. Il secondo paragrafo invece mi pare per buona parte un racconto di ‘situazioni’, una descrizione necessaria a contestualizzare la nuova ambientazione onirica, mentre il terzo, da cui mi attendevo se non proprio una soluzione, almeno una rappresentazione condivisibile di ciò che per il protagonista vale la pena inseguire attraverso incubi e sogni, in realtà offre solo una sbirciata su uno spaccato anche piuttosto triste e problematico. Insomma, nel complesso ho vagato e questo va bene, ma ho patito oltremodo l’apparente – e voluta? – assenza di una meta concreta del racconto.
Dal punto di vista stilistico, la scelta di questa tipologia di narrazione ha – a mio parere – un coefficiente di difficoltà certamente basso. Nonostante ciò, il risultato mi pare sia piuttosto deludente. Passi l’assenza di intreccio, di avvenimenti e personaggi, però l’assenza della condivisione esperienziale, in un brano di questo tipo la ritengo un’omissione letale. La protagonista dice di essere stata al centro di una serie di eventi, di fronte ai quali addirittura non ha perso la forza, né abbassato la testa. Stiamo quindi parlando di qualcosa di particolarmente probante e drammatico… Cos’è? La morte di una persona cara, la perdita del lavoro, una malattia grave, un’unghia spezzata…? Su cosa mi sto confrontando ‘io lettore’? Non sarà certo la frenesia della vita o i casini al lavoro ciò che ha spinto questa ragazza a tali tormentate meditazioni. Di fronte all’assenza dei dati del ‘problema’, purtroppo la soluzione proposta perde totalmente di senso…
Sì, in effetti la faccenda della lampadina nel finale è proprio rimasta nella mia testa.
Muovendomi per immagini, sono cascato nel più classico degli errori: quello di dare per scontato un passaggio che io ‘vedevo’ bene, mentre voi… no!;)
Ho trovato il brano piuttosto sbilanciato, con una parte introduttiva molto articolata, ma che stenta comunque a rivelare dettagli sufficienti per contestualizzare la vicenda. L’immagine circa la location, per esempio, resta parecchio evanescente e con essa quindi anche la portata del torturatore, che potrebbe essere un terrorista, un demone o un angelo vendicatore allo stesso modo. Quando si arriva a un’idea un po’ più dettagliata attraverso il monologo del personaggio, la trama precipita improvvisamente verso una conclusione che coinvolge altre ‘forze’, che però rimangono oscure per natura (Angelo alza gli occhi al cielo e ‘delle mani’ portano via il prigioniero… di chi sono quelle mani, visto che un momento prima sembravano esserci solo loro due?) e motivazioni. Il finale quindi lascia un enorme punto interrogativo: chi è Angelo e per conto di chi agisce?
Mi pare che manchi un mondo intero da qualche parte, o nella mia capacità di comprendere quello che leggo, oppure nel brano, che sembra più simile a un coriandolo di un libro di 300 pagine fatto esplodere con un petardo, che a un racconto a sé stante. L’incipit potrebbe anche essere un incipit, lo svolgimento manca certamente di informazioni fondamentali che aiutino a contestualizzare quel minimo le vicenda, almeno per evitare il totale disorientamento al lettore, il finale, be’… come finisce? Lo conquista l’Universo alla fine?
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Questa risposta è stata modificata 9 anni, 10 mesi fa da
Marco Fronzoni.
L’argomento ovviamente è ponderoso ed emotivamente impegnativo. Io però ci vedo più un eccesso di disinvoltura che l’opportunità o meno di utilizzare una facile arma narrativa di coinvolgimento. Difatti ciò che davvero è sfidante nell’affrontare questo tipo di contenuti è la parte in cui il brano reclama una spiegazione, cerca la propria soluzione, propone la chiave di lettura di una vicenda per la quale ogni tipo di retorica risulta inadeguata e spesso troppo inflazionata.
Non so, ma il finale che proponi non mi convince, per quanto poi nella realtà delle cose, i finali di tragedie analoghe non debbano convincere nessun altro, fuorché chi li vive. Praticamente sulla soglia di una morte prematura e intempestiva, che trancia di netto le potenzialità di realizzazione dei propri progetti, la protagonista investe tutta sé stessa in un aforisma (suo?), che per quanto significativo e sgargiante, mi lascia più perplesso che partecipe.Un brano che mi ha catturato per la tecnica di scrittura, in qualche passaggio addirittura eccessiva (tipo “un cupo e basso rumore”, dove forse bastava ‘cupo’ associato a un sostantivo più descrittivo rispetto a ‘rumore’).Comunque è stato un vero piacere lasciar scorrere sotto gli occhi il flusso di parole misurato, ben ritmato e lessicalmente appagante. L’appunto che muovo al racconto riguarda la struttura narrativa, dove secondo me c’è un’eccessiva sproporzione tra i due personaggi, purtroppo a sfavore del padre, figura che dal punto di vista emotivo invece, in forza del dolore della perdita col quale sarebbe più plausibile una potenziale immedesimazione del lettore, dovrebbe esserne il fulcro.
Un racconto che catapulta efficacemente il lettore nella spensieratezza delle vacanze estive trascorse in campagna da piccoli, in quelle atmosfere dove una grotta del fiume celava tesori e ingressi a mondi segreti e in cui ogni tronco di castagno, ritorto e spaccato da secoli di vento, sole e piogge, era sicuramente la dimora di una strega. La lettura scorre rapida nella prima metà del brano in cui la suspense aumenta, poi, nel momento topico della storia, ho sentito la mancanza di un più opportuno cambio di ritmo. La soluzione a mio parere è ‘troppo’ rivelata. Luminescenze e ombre che lascino intravvedere figure inquietanti, sussurri e fruscii che sembrino parole, cigolii che giungano alle orecchie come lamenti e singhiozzi, insomma, lasciare tutto ammantato nell’ambiguità del mistero che sta negli occhi dei bambini, avrebbe meglio esaltato – per me – l’impronta del racconto
Appunto. Che non ci fossero mostri/vampiri/zombie si capiva, ma proprio per questa motivo, il perché non si rifugiassero all’interno degli edifici non mi era chiaro. La superstizione o la diffidenza derivanti dai trascorsi catastrofici quali deterrenti ad utilizzare l’interno degli edifici, non mi risultano proprio immediate, anche perché l’oggetto del contendere su cui i personaggi si confrontano inizialmente, tra l’altro senza particolari ‘scongiuri’ o tabù, riguarda proprio l’elettricità; Kurt addirittura ne parla con rimpianto e la spedizione parte con l’intento e l’ipotesi (almeno per uno dei due) di riconquistare l’uso dell’energia. Comunque nulla di male, può tranquillamente essere che sia io in difetto nell’interpretazione del brano.
Ambientazione narrativamente ormai un po’ abusata, ma del resto si chiarisce proseguendo nella lettura, come essa sia utilizzata solo quale espediente per ‘canzonare’ il destino del protagonista, condannato per scelta o per forza alla propria natura solinga. È anche vero che questa caratterizzazione del personaggio risulta altrettanto inflazionata, per cui nell’insieme mi è rimasta, come dire, l’attesa di un’accelerazione da parte della trama, l’evento di un colpo di scena attraverso il quale rivalutare in modo originale questa struttura fatta un po’ di déjà vu letterari.
L’immobilismo del finale, che pur rispecchia e sottolinea l’amara ironia delle scelte/non scelte del ragazzo, in realtà frena un incedere già lento. Secondo me diverso sarebbe stato il suo effetto, se il racconto avesse riguardato i preparativi frenetici per raggiungere quella luce lontana, quali la costruzione di una zattera, la raccolta e lo stoccaggio dei viveri, il rincorrersi nella testa delle aspettative, i progetti, le speranze ecc.Ciao Rossella, devo essere sincero nel dire che ho trovato il brano narrativamente piacevole, ma stilisticamente un po’ ingenuo.
Non sono un fan sfegatato del racconto in prima persona, perché ritengo che sia un punto di vista difficile da padroneggiare senza il forte rischio di scadere in banalità e strutture inverosimili. Diciamo che il taglio umoristico del tuo brano lo esime da una valutazione rigorosa in questo senso, però se di ‘umorismo’ vogliamo parlare, il pezzo non mi pare decollare mai veramente e anche il finale, seppur ben studiato come tempismo e pretesto – la telefonata del protagonista -, a mio parere non ha la necessaria sproporzione con l’immaginario costruito in precedenza, tale da innescare l’effetto comico. Insomma, non sarà l’incontro con un mostro da incubo, ma anche quello con un cinghiale è inquietante assai…L’impressione infine, è che il taglio drammatico dell’incipit non c’entri nulla con quello che poi segue.L’idea alla base della storia, il movente opposto dei due esploratori che viene svelato solo nel finale, l’intrigo del tradimento premeditato mi sono piaciuti, però nel brano trovo anche delle incoerenze che fatico a metabolizzare: perché costoro vivono in accampamenti esterni, quando esistono costruzioni spaziose, integre e soprattutto non infestate da esseri letali del tipo ‘io sono leggenda’? Insomma, scoprono che i grattacieli li riparano dal vento stando fuori… ma capire che standoci dentro è anche meglio?
La questione della cordata mi sfugge: viene enfatizzato l’aspetto che l’essere secondo comporterebbe il fatto che se l’apripista – Kurt – dovesse perdere la presa, Egon che segue dovrebbe sostenerne il peso, ma se fosse invece Egon a perdere la presa, Kurt mica sarebbe esente dal sostenerlo…
E allora cosa cambia l’essere primo o secondo da questo punto di vista?
Rimane ovviamente in sospeso l’argomento di non poco conto – se riferito alla ambientazione creata nel brano – riguardante da dove provenga l’energia che alimenta la lampadina.
Il finale: “poi nel buio lo alzA ancora”, sicuramente un refuso.-
Questa risposta è stata modificata 9 anni, 10 mesi fa da
Marco Fronzoni.
Ha in mano la lampadina che ha svitato, perché evidentemente non si era spenta neanche al secondo tentativo del suo collega.
Ciao Gabriele, personalmente considero la narrazione in prima persona una via comoda, che però cela al suo interno non pochi trabocchetti, primo fra tutti il rischio di essere afflitta da una certa mancanza verosimiglianza sia delle considerazioni trascritte, ma soprattutto della rappresentazione del modo in cui esse scorrono nella mente. Il racconto ha un incipit che crea molta suspense relativamente all’oggetto del brano, che invoglia il lettore a immedesimarsi con l’attrazione che esercita sul personaggio, ma poi l’erogazione di questa carica viene interrotta bruscamente, catapultando il protagonista in un albergo della Romagna, in una situazione del tutto avulsa dalla premessa e anche dalla soluzione finale. Disorienta. Ecco, il finale: forse non l’ho compreso bene, ma a me pare che denunci una certa mancanza di mordente rispetto alle aspettative create, soprattutto quelle dell’inizio del pezzo.
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Marco Fronzoni.
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Marco Fronzoni.
Ciao Ceranu, grazie per il ‘benriapparso’!
Vengo alle tue osservazioni: in realtà le ristrutturazioni moderne – e per ‘moderne’ intendo da 40 anni a questa parte – hanno ben pochi limiti tecnici. Il palazzo che fu sede di una importante Compagnia d’Assicurazione a Milano fino al 2008, era stata in origine un carcere femminile realizzato nei primi del ‘900, la cui planimetria era addirittura stata ideata per disorientare potenziali fuggitivi, quindi pensa il lavoro che fu fatto SOLO per riadattare tale ‘natura contenitiva’ ai criteri moderni di sicurezza in caso di incendio.
Senza contare le trasformazioni cui vanno soggette le case di ringhiera, sempre a Milano…
Una volta che hai selezionato le strutture portanti atte allo scopo, il resto è solo questione di ‘investimenti’.
Alla bimba infatti non viene concesso di rimanere accanto alla madre, ma, in mancanza anche del papà, viene invitata ad unirsi con gli altri bambini, probabilmente in una struttura di supporto strapiena di assistenti sociali.
Spero di aver fugato i tuoi dubbi.
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