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    Silver
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    Ciao a tutti! Ecco la mia classifica e di seguito i commenti in ordine sparso. È stato un piacere!

    Classifica:
    1. Solo tu puoi prenderlo
    2. Aida
    3. Tutto torna
    4. L’assurda colpa di esistere
    5. Se solo sapessero…
    6. Non cambia mai
    7. Perfection

    Commenti in ordine sparso:

    Perfection, di Eleonora Rossetti
    Lettura molto scorrevole, merito dello stile fluido dell’autrice, che per la maggior parte scivola senza intoppi. Il racconto mi è piaciuto, anche se non l’ho trovato originalissimo: il gestire i ricordi tramite macchinari collegati alla persona non è nuovo. Mi ha sorpresa, invece, la parte in cui si crea un consulente, anche se la frase con cui è spiegato come funziona mi è sembrata un po’ complessa e ha rallentato la lettura, ritrovandomi a dover rileggerla per capire cosa intendesse l’autrice. Tra l’altro credo che proprio in quella frase sia sfuggito un “potesse” al posto di un “possa”.
    La frase “In caso di indecisione sulla rimozione”, messa lì dove sta, in un primo momento disorienta: quale indecisione? Rimozione? Non era archiviare? Per me rimuovere significa eliminare, non “salvare” da qualche parte. E fino a quel momento avevamo il protagonista che voleva semplicemente mettere da parte i suoi ricordi brutti. Lui non è indeciso (al massimo è la macchina che non sa se archiviarli o meno, fino a portare il suo possessore a creare un consulente).
    Comunque un buon racconto, anche se sicuramente da sistemare.

    Ombre, di Carolina Pelosi
    Il racconto parte con un numero ripetuto più volte, il che incuriosisce di sicuro il lettore. Devo dire che come ambientazione (la casa, il fiume, il bosco, il crollo della casa e il risveglio nello studio dello psichiatra) mi è abbastanza piaciuto. Però a fine lettura restano in sospeso dei punti. Ti faccio un esempio:
    “È solo, è sempre stato solo in quella casa nascosta tra gli alberi di una fitta foresta. Va, come ogni giorno, a controllare il canale, a pochi metri da casa sua, per assicurarsi che non ci siano topi a sporcare le acque. Cammina tra le foglie e gli alberi dalla forte corteccia e dai forti rami, scalzo. Si fida di quella terra, la sua terra.”
    Qui parli di un canale da controllare, poche righe più sotto lo rinomini e così facendo, quindi, dai importanza a questo passaggio. Il punto è che questo canale, in realtà, non serve a niente. Alla fine dei conti ci ritroviamo nella mente di Julian e, se da una parte potrei pensare che lui abbia ucciso la madre affogandola e quindi ne stia rielaborando l’accaduto nei sogni, dall’altra (cosa che è successa, in effetti) a fine lettura ci si deve render conto che l’uccisione della madre non aveva niente a che fare con un canale né con l’acqua, visto che è morta soffocata. Oltretutto se uno vuole salvare una persona dall’annegare, non la trasporta fino a casa sua, ma la poggia sulla riva e inizia a rianimarla.
    Altro punto in sospeso: la ferita al piede. Sembra importante e invece poi sparisce nel nulla.
    O ancora la frase del dottore al risveglio. Perché chiede di uomini ragno e non del canale, o del bosco? Se Julian è da lui e sta raccontando una storia o è addormentato, al massimo racconterà quella che sta vivendo nella sua testa al momento.
    Trovo, inoltre, che non si sia dato abbastanza peso al problema di Julian, a ciò che lo ha spinto a uccidere sua madre.
    Racconto che, secondo me, va rivisto in più parti.

    L’assurda colpa di esistere, di Jacqueline Nieder

    Un bel racconto che, seppure si intoppa su qualche frase, riesce a mantenere alta l’attenzione del lettore che vuole scoprire di più su questa madre e questa figlia. Si capisce sin da subito che sono straniere in Italia, ci si chiede però da dove vengano. Quando ci viene svelato, non è difficile arrivare al resto. Ma non è questo lo scopo del racconto, non è sorprendere il lettore, ma portarlo a riflettere sull’amore di una madre verso la figlia, nonostante il modo in cui è stata concepita (almeno io l’ho percepito così). Apprezzo che la protagonista, che è anche la voce narrante, si rivolga alla figlia direttamente con la seconda persona, nonostante si tratti solo dei pensieri che tali sono e tali resteranno fino alla fine del racconto. C’è stato un punto, però, in cui l’autrice mi ha scaraventatoa fuori da questo ritmo a cui mi stavo pian piano abituando, ossia nel momento in cui dice:
    “Damir, mio marito, lo hanno ucciso nell’agosto del ’92. Era andato a cercare qualcosa da mangiare.”
    Qui la madre racconta a noi, lettori, cosa è successo al marito. Ma noi eravamo solo “spettatori” dei suoi pensieri e, proprio perché questi sono rivolti alla figlia, il passaggio risulta poco realistico visto che comunque lei ha venticinque anni e qualcosa della madre l’avrà pure saputa.
    Un racconto che, sistemato, risulterebbe davvero molto toccante.

    Buried Town, di Viviana Spagnolo
    Questo racconto parte non bene, ma benissimo. L’ho letto tutto d’un fiato, almeno per la prima parte e l’inizio della seconda, poi mi sono accorta che invece di arrivare al punto, si continuava sullo stesso tono, sulle stesse frasi (scrivere la storia, dire o non dire la verità, tanto la si può inventare ecc.) e quindi inizia, almeno secondo me, a perdere l’attenzione del lettore. Si arriva a un finale che non soddisfa le aspettative create e ciò è molto triste perché davvero l’autrice ha usato uno stile che scorre bene e ha saputo gestire il dire e non dire in modo da catturare e mantenere alta la curiosità del lettore, almeno nella prima parte, appunto. Questo racconto mi lascia perplessa. Ho una doppia sensazione, nel rileggerlo: o l’autrice non ha avuto spazio per finirlo, o non ha saputo gestire quello che aveva a disposizione. Manca qualcosa, ecco.

    Se solo sapessero…, di Viviana Tenga
    Questo racconto ha un bell’intreccio, un zig-zag fra passato e presente, uno sconosciuto che pian piano assume un volto e una storia che nel frattempo si sviluppa. Mi piace l’attaccamento del nipote al nonno, tanto da portarlo a trovare il modo di realizzare il desiderio del vecchio. Mi piace come l’autrice ha creato curiosità nel lettore grazie al gruppetto di tre ragazzi, di cui uno seduto a terra a piangere. Aggiungo che la scrittura è pulita e scorre bene.
    C’è un solo e unico punto che secondo me non va. Solo che è così importante che toglie molto a tutto il racconto. Sto parlando del finale. Si tratta di soddisfare le aspettative create nel lettore, ossia il nonno vuole che la gente di oggi non dimentichi quanto sia fortunata. La frase chiave, che è anche il titolo, è “se solo sapessero…”. Ma cosa? Si parla di lager, quindi ci si può fare un’idea, ma finché resta idea, non sveglia emozioni nel lettore. Il momento in cui queste emozioni si sarebbero dovute scatenare su di lui, il momento in cui il lettore sa che sta per “vedere” quello che si nasconde dietro a quel “se solo sapessero…” è il finale. Ma…
    “L’oggetto che Dario tiene in mano inizia a vibrare, la testa comincia a girargli…

    Quando si riprende, Dario è seduto per terra, appoggiato al muro di un palazzo”

    Tutto ciò che ci si aspettava finisce in quella riga bianca tra i due paragrafi.

    “la sua mente è stata altrove, ha vissuto in prima persona gli orrori dell’Olocausto.”

    Quali? Certo, sappiamo di cosa si parla, ma in un racconto così, almeno qualcosa bisognava sbatterlo in faccia al lettore per sconvolgerlo e per far arrivare il messaggio dietro al testo.

    Incenso, di Cristina Danini

    Come tutti i racconti che ho letto finora, anche questo parte bene. Abbiamo un punto d’inizio, ci caliamo in una situazione. La storia inizia a svilupparsi, più che altro riflessioni sul suo stato d’animo, sulla sofferenza, sulla bestia che la divora da dentro, sulla farfalla che torna a essere una larva. Sono tutte immagini molto carine ed espressive, bastano a far capire cosa vuole trasmettere l’autrice. Il problema, per me, sorge quando continuando a leggere ci si accorge che anche tutto il resto è così. In pratica? Non succede nulla. Il punto più interessante della storia è quando arriva l’amica, ma dopo poche righe sono già a dormire. Certo, non era l’azione ciò che doveva caratterizzare questo racconto, ma la riflessione sul dolore della protagonista, questo mi è chiaro, ma anche così non rende come avrebbe potuto. Secondo me il racconto necessita di un bel taglio e di una sistematina per risultare più apprezzabile. Così com’è, sempre secondo il mio personalissimo parere, dopo un po’ fa perdere interesse.

    Non cambia mai, di Marco Roncaccia

    Non amo gli zombie. Mi fanno ribrezzo e per questo non mi sono mai piaciuti, ma ultimamente ho ripreso a leggere di loro perciò quando ho iniziato la lettura del tuo pezzo mi sono detta: vediamo se propone qualcosa di nuovo. Ecco che appare ciò che cerco quando lo zombie prende la bicicletta. Mi hai quasi convinta che in effetti lo zombie si fosse evoluto in qualche modo, che uno zombie fosse diverso dagli altri. Forse il virus che aveva causato l’epidemia stava cambiando o forse, se si trattava di un esperimento, qualcosa in quello zombie non era andato come dovuto. Quindi la storia mi prende e voglio arrivare al finale, per capire come mai questo zombie vuole riprendere a pedalare, come mai questa reminescenza del passato stia durando così tanto e in maniera così intensa da fargli dimenticare perfino la fame quando arrivano gli umani! E poi… niente. Muore. Muoiono gli umani. Tutto nella norma, insomma. Devo ammettere che il finale mi ha delusa, forse mi aspettavo qualcosa in più, ecco. Però bello sviluppo, bravo. Domanda: ma ho interpretato bene il fatto che i due nella Hummer (credo si scriva così, non con la “a”) fossero militari? In questo caso, io avrei dato qualche accenno già nei paragrafi precedenti, giusto per rendere più concreta l’ambientazione e le condizioni di vita postapocalittiche. Ma questo è gusto personale.

    Rimpianto, di Enrico Nottoli
    Il racconto non mi ha convinta, devo dire. La prima frase la troverei più d’impatto se invece della virgola ci fosse un punto. Per il resto, tutto il primo paragrafo mi sembra piuttosto confuso, poco chiaro. Bisogna rileggerlo per capirlo davvero.
    Qui:
    “Eppure, tutto quello che deve ancora venire, dipende da ciò che è già stato fatto.”
    va tolta la virgola dopo “venire”, perché l’intera frase (tutto quello che deve venire) è soggetto e quindi non va separato da “dipende”.
    La frase che segue si riattacca a questa, in particolare a “è già stato fatto”, ma è troppo lunga e alla fine non ha un effetto forte sul lettore.
    Poi, sempre nell’incipit, trovo che le ripetizioni (volute, immagino) siano comunque un po’ troppe. Così se una volta le si usa e svolgono la loro funzione e la seconda volta anche, la terza, però, iniziano a perdere di importanza.
    Abbiamo: sono sempre meno – sono sempre meno; un’altra volta – un’altra volta – un’altra volta; priva – priva; ad aspettare – ad aspettare; tutto quello – tutto quello. Solo nel primo paragrafo.
    Altra cosa che mi è saltata all’occhio è che dopo l’incipit al presente, passi al passato per raccontare la storia di Sebastiano e va bene. Ciò che mi lascia perplessa è che a fine racconto non torni al presente, ma termini con un “sarei morto trentadue anni più tardi”. E io mi chiedo come fa a saperlo chi racconta la storia, visto che coincide con cui muore? Se è già morto, non quadra l’incipit, a meno che non si tratti di un fantasma, ma non ci sono cenni a questo particolare (o non li ho visti io), se invece non è morto nemmeno al presente (quindi i trentadue anni ancora non sono passati), come fa a sapere quando sarebbe morto?
    È un vero peccato, perché l’idea che prende forma nella parte centrale, con Sebastiano uomo e fantasma cinghiale che lo segue fino a casa, mi era piaciuta.

    Aida, di Nicola Lozito
    Di tutti i racconti letti finora, devo dire che questo è quello che mi è piaciuto di più. Ha una storia intera raccontata in pochi caratteri, mi sembra anche meno di tutti (sempre finora letti). Se con una prima lettura alcune cose mi erano sfuggite, con la seconda ho colto i particolari. Ci sono diverse sviste (“affianco”, “insegnava” – credo sia meglio usare “ha insegnato”, visto l’uso del presente – “ha iniziato imparato”). E in più non condivido del tutto la scelta di raccontare il passato al presente. È qualcosa che porta il lettore a fermarsi un attimo e a rileggere per capire dove, o meglio quando, si trova. Insomma, la forma va sicuramente sistemata, ma il tema che hai scelto e l’idea per lo sviluppo mi sono piaciuti. Bravo.

    Le radici del futuro, di Patty Barale
    Bel racconto e scritto bene. Non ho capito bene la suddivisione in capitoli, visto che a me sembra che la storia si svolga in modo lineare. Io avrei fatto uno stacco solo prima del quarto pezzo, dove ormai lei è sparita. E qui arriviamo a quella che secondo me è un’incongruenza:
    “Lui morirà e io, che all’epoca di questo fatto non sono ancora nata, potrò avere quella vita che mi è stata rubata.”
    Questa frase crea un po’ di confusione e solo rileggendo più volte il pezzo ho capito che in realtà non è sbagliata, ma che un’altra frase, nel secondo pezzo, non resta impressa come dovrebbe:
    “Mia mamma ha sempre detto di averla scattata il giorno in cui, pochi minuti prima che mio padre lasciasse Roma, nel bagno di un bar mi ha concepita! Poi non l’ha più visto e non ha mai voluto dirmi chi fosse.”
    Qui a una prima lettura, si pensa che la madre l’abbia concepita e poi non abbia mai più visto Paolo, se così fosse, non avrebbe senso incontrarla poi con lui alla fermata dei bus. Forse sarebbe meglio farne due frasi, per mettere in risalto che la madre era con lui, quando lui prese il bus per lasciare Roma (senza sapere che lui poi non sarebbe più tornato). Così vorrebbe dire che Michela era già stata concepita e la frase finale assumerebbe di nuovo un significato.
    Per il resto, mi è piaciuto.

    Tutto torna, di Diego Ducoli
    Sarò sincera, come sempre: ho iniziato a capirci qualcosa solo da “Nella mente si agitavano ricordi confusi, i suoi e quelli di sua madre”. E se prima tutto sembrava poco chiaro e ho addirittura pensato che tu avessi fatto confusione con i personaggi, poi ho capito. Aldo è il carnefice, colui che compie i torti. Aldo è morto. Aldo scappa dalle bestie feroci che sono le sue azioni cattive fatte da vivo. O i familiari a cui le ha fatte. Quando entriamo nei ricordi, Aldo a volte si ritrova nelle persone che hanno subito i torti, prova il loro dolore e le loro sensazioni. Si muove, quindi, all’interno delle loro coscienze e della sua. Credo che questo spostamento debba essere reso più chiaro nella prima parte, per evitare di lasciare perplesso il lettore che non sa più chi è chi. L’idea mi piace molto, così come il mettere in scena anche Cerbero, il guardiano dell’Ade.

    Radioman, di Sharon Galano
    Mi piace molto lo stile di questa autrice. Ma questo è uno dei racconti che credo di non aver capito fino in fondo. All’inizio ho creduto che il vecchio fosse un ex-militare alcolizzato che va alle sedute degli alcolisti anonimi. E fin qui tutto bene, immagino. Poi lui che cerca di sintonizzarsi su un canale radio in attesa di ordini mi è sembrato un po’ strano, ma soprattutto ho iniziato a pensare che il tipo non avesse tutte le rotelle a posto. Però, di nuovo, quello che i militari gli hanno detto la sera prima è descritto così bene che sembra essere reale. E qui inizio a sentirmi confusa. Il finale, con la moderatrice che vuole vendere il suo libro e il barbone sulla strada sembrano cose staccate del tutto dal resto del racconto. Insomma, mi piace lo stile, ma… cosa hai voluto dire? Anche tutta questa attesa per le dieci poi si rivela inutile: non succede niente alle dieci! Così com’è il racconto non mi convince.

    La bestia di Gévaudan, di Francesco D’Amore

    A fine lettura mi sono chiesta: cosa voleva comunicarci l’autore? Mi piace molto l’idea della bestia, il fatto che si rifaccia a una leggenda, le vittime, la sfida. Ma trovo che siano stati introdotti alcuni argomenti e poi non siano stati approfonditi a dovere. A che serve il fratello? Lui e sua moglie sono personaggi del tutto inutili alla storia. Perché la gabbia? Cosa rappresenta la gabbia per il protagonista, dove si tengono gli incontri? E il protagonista non mostra paura, non mostra rabbia, non mostra pietà. Sembra voler essere il duro della situazione, va e si scontra contro Creolina, vince; va e si scontra con la bestia, vince; insomma a me non sembra reale come personaggio. Non mi è piaciuto nemmeno come hai descritto la lotta fra la bestia e l’uomo, mi mancava l’azione, mi mancava sentirmi in ansia e coinvolta per il protagonista ma soprattutto mi è sembrata frettolosa. Ti faccio un esempio banalissimo:
    “Arrivai al fiume, vidi la bestia dissetarsi. Rimasi immobile ad ammirare il suo colore rosso come la rabbia, la stessa che ho soffocato per anni.
    La bestia sentì il mio sguardo su di lei, si voltò; non mi lascerà andare, ha subito capito quali fossero le mie intenzioni.
    Lei mi azzannò alla gamba, sentii le sue sciabole entrare ferocemente nella mia carne, ma lasciai perdere. Non c’era tempo per il dolore.”
    Prima la besta si sta dissetando al fiume, poi lo nota (attenzione al pdv, “sentì il mio sguardo su di lei” – non siamo nella testa delle bestia), si volta e… gli sta già azzannando la gamba. Manca suspense. Manca l’avvicinamento della bestia: arriva correndo? Si studiano prima? Si avvicina lentamente ringhiando? No, gli sta già azzannando la gamba e io penso: ma… se stava giusto bevendo? Non mi dai il tempo di entrare nel racconto, di temere per il protagonista.
    Mi dispiace, ma il tuo racconto non mi ha convinta.

    Solo tu puoi prenderlo, di Filippo Santaniello

    Bel racconto, buon racconto. Storia che fila dal principio alla fine. C’è un attimo di smarrimento tra la prima parte (in cui Luca è bambino) e la seconda (in cui Luca è padre), che sarebbe risolvibile in un modo veramente semplice: ossia nominando più spesso Luca nella prima parte, in modo che il nome resti impresso e quando appare Nicola, si capisca che ci si è spostati dalla storia iniziale. In generale, mi è piaciuto.

    La bestia di fuoco, di Giulio Lepri
    Bel racconto, mi piace l’impostazione che gli hai dato, la struttura scelta e anche la storia in sé. Ma qualcosa non va. La storia ci riporta a quando Daniele aveva 11 anni e la madre iniziava a trattarlo male. Siccome non ci è dato sapere chi fosse il vero padre e come Daniele fosse stato concepito (dalla foto sembra che la madre amasse il padre di Daniele, ma per tutto il racconto lei lo tratta così male che ormai si crede quasi che il ragazzo sia il risultato di un rapporto violento) non si spiegano le violenze della madre e l’odio per i suoi occhi diversi e per quello che il bambino rappresenta. Non si spiega nemmeno perché inizi a essere violenta quando il ragazzo ha 11 anni e non prima. Anche il padre (l’uomo che abita con loro), che per tutto il racconto sembra una persona normalissima, ma molto impegnata (è stato rimarcato così spesso che quasi si pensa che lui abbia un’amante), alla fine torna sempre a casa. Nell’ultima parte non ho capito se lui abbia ucciso lei e poi messo fuoco alla casa senza pensare al ragazzo o se sia stata lei a fare fuori lui e a mettere fuoco alla casa. Per un po’ ho anche pensato che l’uomo avesse rapito la donna tenendola prigioniera in qualche posto isolato, ma poi appunto stava via una settimana e loro due uscivano a prendersi cura deglli animali, quindi anche questa ipotesi è stata scartata.
    Insomma, ci sono cose che andrebbero riscritte in modo da risultare più comprensibili.

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