Essere diversi, ma per chi? Venire giudicati, ma da chi? Subirne le conseguenze, ma perché? Un racconto di Marco Roncaccia.
Il bambino mangia un ghiacciolo.
Occhi chiusi, ogni contatto con il mondo è sospeso.
Il ghiacciolo è il mondo. Uno di quelli al limone, da pochi centesimi, ma per lui è il migliore ghiacciolo possibile. Il bambino e il ghiacciolo, il bambino è il ghiacciolo.
Io sono come quel ghiacciolo che non vale un cazzo e Gino è il mio bambino.
Mi succhia come se fossi unico, qualcuno davvero importante, come se per lui contassi solo io.
Io, un frocio di merda, come dicono a scuola.
«Meglio un figlio ladro che un figlio frocio» è stata la risposta al mio “Coming out”.
Caro papà ti ha detto sfiga.
ti ho svuotato il portafogli e sono scappato.
Con Gino.
Mamma, ho smesso di imbarazzarti.
Sono fuori dalla vostra casa. Non ero più il benvenuto.
Fuori. Come la scritta sul mio zaino: Gay Raus!
A questo è servita la scuola. A farmi predire il futuro con un pennarello indelebile.
Gino sta aspettando sotto casa. Sgasa come un matto su una Alfetta 1800 Gialla.
Vetro del finestrino rotto e fili sotto il cruscotto uniti.
Un altro frocio e ladro e un’altra coppia di genitori sfortunati.
«Dove l’hai preso ‘sto catorcio?»
«Senti che musica» ha risposto portando il motore su di giri.
L’ho baciato sulla bocca ed è partito con una sgommata.
«Dove andiamo?»
«Ho voglia di colori, musica e gente viva. Chauffeur, al Colosseo»
«Chauffeur ‘sto cazzo» ha detto portando la mia mano sul suo pacco.
«C’è vita qui dentro». Gli ho stretto forte la patta dei jeans!»
Siamo in piedi al centro della strada e ci stiamo baciando. Le mie mani sono sotto la sua camicia quando con una spinta mi stacca da lui.
«In macchina, presto!» farfuglia indicando qualcosa alle mie spalle.
Da una Mini vedo uscire quattro tipi incappucciati. Sciarpe sul volto.
«Froci di merda!» risuona nel mio orecchio, poi l’impatto con una bottiglia lanciata.
Gino muove la bocca ma non sento la sua voce. Mi afferra per un braccio e mi spinge nell’auto. La mia maglia si impregna di sangue. Gino armeggia con i fili nel cruscotto. Il motorino gira a vuoto. Scorgo i fari della Mini. Un incappucciato è arrivato al finestrino rotto brandendo un manico di piccone. L’Alfetta si mette in moto. Gino sta rialzandosi e il bastone gli rovina sulla testa. Un rumore secco di qualcosa che si rompe. Gino preme con il piede e l’Alfetta balza in avanti. Il sangue gli cola da una tempia, lo vedo barcollare. La Mini ci tallona. Gino cerca di seminarla zigzagando tra strade strette e trafficate ma la sua lucidità vacilla. Arriviamo al Lungotevere con la Mini che a destra ci sta per tagliare la strada. Gino sterza a sinistra, contromano. Gli inseguitori si arrestano.
«Ce l’abbiamo fatta, Gino!»
Mi volto e lo vedo accasciato sul volante. Il piede preme l’acceleratore, l’auto è fuori controllo. Stiamo per schiantarci contro un palazzo.
L’Alfetta punta un bambino con un ghiacciolo. Occhi chiusi, una cosa sola con il suo gelato. Come Gino con me. Afferro il volante e con una mossa disperata sterzo verso la strada, un autobus a due piani arriva veloce.
L’inizio è davvero convincente, incisivo. La scena del bambino che mangia il ghiacciolo si aggancia alla mente e diventa una sorta di nenia. Buono l’uso della punteggiatura e la formattazione del testo. Il ritmo della narrazione è incalzante, ma a tratti è necessaria una rilettura per seguire l’azione. La tematica è molto forte. Per questo motivo, avrei preferito un finale che riprendesse in qualche modo la magia evocativa del paragrafo iniziale.