Era la prima volta che ne trovavo uno senza l’aiuto di mio padre. A lui bastavano cinque minuti. Si tuffava di testa dal molo dell’Hotel Ritz, sputava nella maschera, si allontanava di qualche bracciata e dopo un po’ mi chiamava forte con quel sorriso da ragazzino. Allora lo raggiungevo mentre l’acqua fredda di Alghero mi mordeva la pelle. A quel punto bastava che guardassi sotto i piedi di mio padre per trovarmi davanti a una tana circondata da gusci di ricci di mare. Era quello il segreto. Dare la caccia ai gusci per trovare il polipo, e quel giorno d’agosto, col sole che colorava il fondale d’un verde smeraldo, ne vidi tre: due interi e uno a pezzi.
Il polipo rintanato tra due rocce piatte aveva gli occhi piccoli e neri. Se ci fosse stato mio padre l’avrebbe preso a mani nude strappandolo dal fondale come un’erbaccia da un’aiuola, me l’avrebbe dato facendo schioccare le ventose attaccate al braccio, e io l’avrei lanciato in mezzo al mare perché mi divertiva nuotare sott’acqua e afferrarlo prima che toccasse il fondo cercando un’altra tana. Solo che in acqua c’ero solo io. Dopo pranzo a mio padre piaceva accendere l’aria condizionata e starsene nel letto al fresco.
Tesi il braccio e sfiorai il polipo che si ritrasse sputando una nuvola d’inchiostro. Presi fiato e tornai giù. L’inchiostro s’era diradato, eppure non riuscivo a ritrovare la tana perché la corrente mi aveva spinto verso la boa rossa oltre la quale il mare si faceva scuro ed era vietato nuotare. Ci misi un po’ a ritrovare il polipo. S’era rintanato più in fondo tra le rocce. Sporgevano solo i tentacoli.
Sapevo che l’avrebbe avuta vinta se avessi avvicinato la mano e lui si fosse ritratto ancora. Non potevo rischiare, così nuotai fino al molo, uscii dall’acqua e senza asciugarmi superai l’ombrellone verso l’albergo.
«Luca, dove vai?»
Guardai mia madre che aveva un libro in mano mentre mia sorella esaminava affascinata le conchiglie che avevo preso quella mattina.
«Da papà» dissi.
«Sta dormendo.»
«Devo dirgli una cosa.»
La porta era chiusa dall’interno. Bussai. Mio padre non rispondeva. Bussai più forte finché non mormorò qualcosa. Quando aprì, sentii il fresco della camera, il ronzio dell’aria condizionata, e vidi che era in slip bianchi e aveva gli occhi gonfi di sonno.
«L’ho trovato!» dissi eccitato sgocciolando davanti alla stanza.
«Che cosa?»
«Un polipo!»
Mi guardò serio. «Davvero?»
«Sì.»
«E perché non l’hai preso?»
«C’ho provato. S’è rintanato. Solo tu puoi prenderlo.»
Non aveva fatto altre domande perché sapeva che per me era importante, s’era messo il costume e mi aveva seguito fuori dall’albergo. Appena mia sorella ci vide passare lasciò perdere le conchiglie e venne con noi sul molo da cui mio padre si tuffò in bello stile.
Si girò, si scostò i capelli dalla fronte con un colpo di testa come se qualcuno avesse crossato un pallone e mi fece cenno di saltare. Io però avevo freddo, l’acqua mi si era asciugata addosso ed ero scosso dai brividi.
«Come faccio a trovarlo?» urlò dal mare.
«È vicino alla boa.»
Arrivò anche mia madre.
«Che è successo?»
«Ho trovato un polipo. Papà adesso lo prende.»
Mio padre aveva raggiunto la boa in poche bracciate. Lo guardammo immergersi e tornare in superficie, prese una boccata d’aria, s’immerse di nuovo e restò sott’acqua un minuto intero. Immaginavo la sua mano tra le rocce strattonare il polipo, lasciarselo sfuggire, acciuffarlo di nuovo, i tentacoli guizzanti come fruste. Una lotta che mio padre avrebbe vinto perché nessun polipo riusciva a sfuggirgli. Quando riemerse boccheggiava. Si teneva a galla muovendo le gambe.
Disse qualcosa che non capimmo, allora urlò più forte: «Non ci riesco!»
Poi mia madre mi affondò le unghie nella carne della spalla e urlò a mio padre di spostarsi.
«Papà!»
Nicola si è avvinghiato al mio corpo. Le sue gambe magre mi stringono i fianchi. Da quant’è che stiamo in acqua?
Dal vetro della maschera guardo gli ombrelloni sotto il sole rovente. Mia moglie ci osserva sul bagnasciuga riparandosi gli occhi con una mano.
«Ce la fai a prenderlo?»
Scosto i capelli bagnati dalla fronte di mio figlio.
«Certo.»
E vado giù.
L’inchiostro si sta disperdendo. Il polipo mi fissa iroso nella tana circondata da resti di ricci. Lo agguanto con una mano e stringo, è molle, stringo forte, non lo lascio andare. Ruoto il polso e le ventose mi si attaccano alla pelle. Lo strappo con cattiveria dalla roccia.
Quando emergo, il motoscafo mi assorda. E lo rivedo. La prua appuntita, la fiancata bianca e le eliche che lasciano una scia rossa come la boa mentre mia madre mi ferisce con le unghie e urla a mio padre di spostarsi.
Mi volto terrorizzato. Non ho fiato per gridare.
Il mare è calmo.
All’orizzonte un pedalò.
Nicola schiaffeggia l’acqua. «Dammelo, papà!»
Strappo il polipo dal braccio e lo do a mio figlio, che se lo rigira tra le mani e lo lancia lontano come una palla per riprenderlo sott’acqua prima che trovi un’altra tana. Non gli ho mai parlato di quel gioco.

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