Trovarsi a combattere un nemico reso tale per la scelta del fato al momento del concepimento. Un racconto di Cristina Danini.
Mirina strinse le ginocchia al cavallo. Quello sarebbe stato il suo giorno, ma aveva paura.
La notte in cui era venuta al mondo sua madre era stata felice di scoprire che fosse femmina. Per nove mesi aveva temuto di doverla abbandonare come il primo nato. I maschi sono allontanati dalle Amazzoni dal momento in cui vedono la luce. Ma Mirina era nata femmina, era stata addestrata per combattere. Aveva imparato a cavalcare, a sopportare il dolore delle abrasioni lasciate dal pelo del cavallo, il freddo sulla pelle unta di olio mentre correva negli altopiani, il seno amputato per non ostacolare il tiro con l’arco, i combattimenti con le ragazze più grandi per battere i più forti. Ma per allontanare la paura non esiste allenamento.
Il vento le buttò i ricci neri davanti agli occhi e li spostò per vedere a cosa sarebbe andata incontro. A qualche centinaio di metri una schiera di soldati aspettava, come lei e le sue compagne. Si sarebbero detti due schieramenti identici; ma erano uomini quelli dall’altra parte del campo, Achei che volevano strappare la terra alle donne guerriere. I tamburi iniziarono a scandire il tempo.
“Stupidi uomini” pensò impugnando l’arco “Non riescono neppure a coordinarsi senza che qualcuno tenga il ritmo.”
Quando suonarono i corni gli avversari caricarono. Le donne rimasero ferme. Tesero l’arco e al segnale lasciarono scivolare la freccia fra le dita. I primi nemici crollarono. Altre frecce, altri morti. A distanza azzerata gli Achei sfoderarono le lance, facendo cadere le prime donne. Al combattimento corpo a corpo Mirina non sentì più paura. Spade, pugnali, pugni, calci, era abituata. I tamburi lasciarono spazio a tuoni e pioggia scrosciante. L’odore della terra bagnata si mischiò a quello del sangue, del sudore, del ferro, della paura. Un grido fece impennare il cavallo di Mirina e lei si trovò a terra, la spada di un ragazzo poco più grande di lei puntata al petto. A quattordici anni, era il giorno della sua prima battaglia, aspettava di sentire la lama trapassarle il cuore. Mirina si accorse di quanto fossero simili. Stessa paura. Stessi capelli. Stessi occhi e tratti del viso.
«Chi è tuo padre?» chiese lei.
«Sono nato dalla foresta quindici anni fa.»
Suo fratello stava per ucciderla. Ma abbassò la spada e le tese la mano. Anche lui sapeva.
«Nasconditi, tornerò a prenderti. Nessuno ti costringerà più a combattere.»
Mirina guardò la mano, le Amazzoni battere in ritirata dopo aver lasciato troppe compagne nel fango.
Vide una vita in palazzi di marmo, lontana dal rumore della battaglia, dal sangue, dal pianto dei neonati maschi abbandonati a morire nel bosco. Vide una vita da donna, da moglie, da madre. Si alzò e guardò il ragazzo, parlandogli con la voce rotta.
«Perdonami se un giorno in battaglia dovrò ucciderti.»
Prima che lui potesse colpirla si voltò e corse tra gli alberi. Le avevano sempre detto che avrebbe potuto correre più veloce di un uomo se l’avesse voluto.
L’idea è originale e il personaggio principale viene sviluppato molto bene. Nella seconda parte manca quella tensione psicologica che invece avrebbe contribuito a rendere il racconto ancora più solido. Un po’ affrettato, quanto a stile, il finale, che altrimenti sarebbe il vero punto di forza della storia.