Una distopia, un incubo. Un mondo dominato da droni, un infinito campo di battaglia senza speranza. Un racconto di Linda De Santi.
Fermo sulla soglia della capanna, Gian corruga leggermente la fronte.
Dal mio mucchio di stracci guardo mio marito tendere l’orecchio al rumore del vento che striscia tra le macerie.
«Che stai facendo?»
«La torre di controllo è guasta» risponde.
Mi alzo. «Sei sicuro?»
«Ascolta.»
Mi avvicino alla porta e tendo l’orecchio. Tra le macerie non si sentono più ronzii metallici.
«Non ci sono i droni.»
«Esatto.»
Mi volto a guardarlo. Nei suoi occhi si mescolano ansia ed euforia.
Sappiamo quello che dobbiamo fare. Gian raggiunge l’armadio e tira fuori il pacchetto che custodiamo gelosamente da settimane.
«Andiamo.»
Sono terrorizzata all’idea di uscire, ma devo farmi coraggio. Non possiamo sprecare quest’occasione, sono passati mesi dall’ultimo guasto alla torre di controllo. Non so più neanche chi sia rimasto degli altri, è difficile restare in contatto se non puoi neanche mettere il naso fuori di casa.
«Andros» propone Gian.
Annuisco.
«Spero che lui e la sua gallina siano ancora vivi.»
Mi sta bene fare il baratto con Andros, non ne posso più di mangiare insetti e radici. Possiamo sperare che ci dia delle uova in cambio del prezioso pacchetto che abbiamo tenuto da parte.
Usciamo. Gian aveva ragione: l’allarme non scatta, i droni non arrivano. Spero con tutto il cuore che quelle maledette macchine ci mettano un bel po’ a riparare il guasto.
Avanziamo tra le case distrutte, evitando carcasse d’auto, fasci di cavi elettrici, vecchi frigoriferi invasi dalla vegetazione. E’ una nebbiosa mattina di primavera, con il cielo di un giallo delicato. L’aria brucia, acida sul palato.
Quando scorgo l’ospedale, sento il cuore martellarmi per l’emozione.
Troviamo Andros disteso su un logoro materasso dietro alla reception. Ci vede arrivare.
«Che diavolo volete?»
«Qualche uovo in cambio di questo» dice Gian, e poggia il pacchetto sul bancone.
Andros toglie l’involucro con aria famelica e ne scopre il prezioso contenuto: un fascio di riviste porno che io e Gian abbiamo trovato sotto le rovine.
Gli occhi di Andros brillano. «Ve ne do quattro.»
Ci passa le uova avvolte in un giornale. Gian le prende e io leggo la contentezza nei suoi occhi: è andata alla grande. Ce ne andiamo subito.
Percorriamo la strada a ritroso, muovendoci in fretta tra le macerie luccicanti nel calore. C’è un silenzio irreale intorno a noi, una monotonia scintillante e silenziosa da cui i ricordi si alzano come fantasmi.
Rammento tante cose di questa città distrutta, ma il motivo per cui è scoppiata la guerra non riesco a ricordarlo. Me ne rendo conto solo adesso. Com’è possibile che l’abbia dimenticato?
«Che importanza ha?» dice Gian.
Senza accorgermene devo aver pensato ad alta voce.
Serra la presa intorno alla mia mano, mentre con l’altra si stringe il nostro tesoro al petto. «E’ tardi.»
Sta per aggiungere qualcos’altro. Mi fermo e gli poggio un dito sulle labbra. Non voglio ascoltare. Per oggi siamo stati fortunati: stasera metteremo nello stomaco del cibo buono.
Di colpo, come una lugubre esplosione, riparte la sirena dell’allarme.
Corriamo. Corriamo come anime in fuga dall’inferno, sento già i sibili dei droni alle nostre spalle.
Siamo quasi arrivati alla capanna quando Gian rotola a terra. Le uova sono perdute. Non possiamo fermarci. Pochi metri alla capanna, ma abbiamo perso secondi preziosi. I droni sono qui.
Inciampo sulla soglia e cado dentro alla capanna, fuori dal loro campo visivo. Mi volto, cerco Gian con lo sguardo. Lui non c’è.
Mi alzo in piedi. Tremo quando scosto la tenda della capanna e guardo fuori. Non c’è traccia né di lui né dei droni. Ci sono solo due fili di fumo che si levano dal terreno, a poca distanza dalle uova rotte.
I ronzii metallici sono tornati a risuonare implacabili tra le macerie.
Resto a guardare il fumo che si attorciglia nell’aria stagnante e lentamente svanisce. Prendo la mia decisione.
Non ci sarà un’altra ora di libertà.
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