Il paziente era un ometto magro e compito.
Entrò nello studio guardandosi attorno nervoso e si appollaiò sulla punta della sedia, stringendo a sé un vecchio borsello.
«Dottore, oggi compio cinquantotto anni.»
Il dottor Lanza sorrise bonario.
«Auguri allora, signor…»
«Raschi, Paolo Raschi. Forse ricorda mia moglie Lucia.»
Lanza aggrottò la fronte e frugò nella memoria. Aveva curato Lucia Raschi una decina di anni prima, una brava donna colpita da un tumore devastante. Non aveva riconosciuto subito il marito poiché all’epoca era stato un bell’uomo prestante: ora il tempo e il dolore l’avevano rattrappito, conferendogli l’aspetto di un corvo magro.
«Sì signor Raschi, ricordo sua moglie Lucia. Una signora dolce e gentile. Avevate un figlio, se non erro…»
«Sì, Michele. Ha ventidue anni, ora.» Uno sprazzo di luce illuminò lo sguardo spento dell’uomo. «Quando morì la mia Lucia era poco più di un bambino»
«Deve essere stata dura, per voi» osservò partecipe il medico.
«Sì, molto. Eravamo soli, senza amici né parenti. Lei fu molto umano, il nostro unico appoggio nei momenti peggiori. Gliene siamo ancora grati.»
«Dovere» si schermì Lanza. «Come posso esservi utile, ora?»
«Vede dottore, Lucia morì quando avevo quarantanove anni: nove più quattro fa tredici. Ora la combinazione funesta si ripete: cinque e otto tredici. Quest’anno è destino che perda una persona cara.» L’uomo cominciò a frugare nel borsello. Aveva gli occhi pieni di lacrime e gli colava il naso, forse cercava un fazzoletto.
«Ma Raschi, non sia irrazionale. La sua paura si chiama triscaidecafobia, è una superstizione diffusa ma assolutamente irragionevole.»
“Può darsi, ma Michele è l’unico affetto che mi resta e non voglio rischiare di perderlo. Così ho pensato di sacrificare qualcuno per il quale ho stima e riconoscenza. Dottor Lanza, io non ho amici né parenti. Spero non ne abbia a male, se ho pensato a lei.»
Estrasse dalla borsello una rivoltella e, piangendo, fece fuoco.