Alicudi

Amare, comprendere, andare oltre, accettare, vivere, essere, Alicudi e il mondo intero. Secondo classificato nella Novantanovesima Edizione di Minuti Contati con Franco Forte come guest star, un racconto di Canadria.

 
Dal centoventesimo scalino Calò ammirava lo Scirocco. Vento di sud-est come lui, che aveva volto arabo.
Quando lo vidi per la prima volta, in città, sentii subito odore di salsedine e sole nonostante fosse novembre. Mi colpì perché guardava la bocca di chi parlava, e invece lui non parlava mai.
Ascoltava il suono delle parole.
Ci misi del tempo per capire che cosa intendeva quando diceva che in città vestiamo abiti borghesi mentre nella sua isola si indossano maglie di cotone o giacche di lana.
Cotone. Mi sembrò che lo dicesse soffiando.
 
Quando nasci su un’isola piccola come la sua hai dei capisaldi: il mare, l’inverno, la solitudine.
Per questo, io credo, non mi perdonò mai.
 
Aveva vissuto per vent’anni ai bordi del mare alicudiano e ne conosceva le rive e gli abissi e le forme a seconda del vento.
Io non mi avvicinavo al porto se pioveva e maledicevo il mare perché ritenevo che fosse un ostacolo tra noi.
 
Un giorno Calò mi prese per mano, al porto di Milazzo – era inverno ed era freddo – e mi portò sulla riva del mare in tempesta. Le barche arenate dormivano dieci passi più su del bagnasciuga, le superammo e arrivammo al confine della sabbia bagnata.
«Il mare ti insegue e tu scappi. Il mare ti chiama, ma tu hai paura.» e corse sulla riva, e ad ogni onda tornava indietro perché le sue scarpe non si bagnassero.
«Prova!» e provai. Corsi avanti e indietro come diceva, ma avevo così freddo che lo facevo solo perché sapevo di non potermi tirare indietro: mi stava presentando la sua famiglia.
Calò si fermò a dieci metri da me.
Anch’io mi fermai e lo guardai, così un’onda arrivò e travolse le mie caviglie.
«Questo è il mio mondo, Gisella.»
Ricordo il freddo e le scarpe e le calze bagnate, la macchina a quattro chilometri, il vento dell’inverno sul mare e la mia voglia borghese di non essere lì.
 
Calò prese la nave e tornò ad Alicudi, io rientrai in città.
Non potevo sentirlo perché sull’isola d’inverno non c’è connessione col mondo. Era lui che voleva così: amava l’inverno di Alicudi e ne era geloso. Diceva che nessuno di noi avrebbe potuto comprenderlo e io, in effetti, non lo compresi mai.
Un giorno ad Alicudi arrivò la neve e Calò non scattò nessuna foto.
La disegnò su un cartoncino ruvido col carboncino.
«Calò,» gli dissi quando lo rividi «perché non l’hai fotografata? Avrei voluto vederla con te.»
Lui mi guardò e disse soltanto «Non l’avremmo guardata con gli stessi occhi.»
Allora pensai che non avesse senso, eppure adesso capisco che aveva ragione.
 
Lo amai per trent’anni e per trent’anni, io credo, provò ad amarmi anche lui.
Ma io non ebbi mai il coraggio d’amare la sua terra e lui mai la forza di perdonarmi per questo.
 
Così, ora che, a sessantadue anni, per la prima volta, vedo Alicudi d’inverno, cerco il centoventesimo scalino e attendo Scirocco.
E, mentre attendo, disegno su una tela la neve di Alicudi.
Il mare è azzurro, il sole è tiepido e la neve di Alicudi, in realtà, io non l’ho vista mai.
 
Quindici gradini più su, qualcuno si è seduto a guardare il vento.
Ma quindici gradini e quindici anni sono troppi perché Calò scenda accanto a me, sul suo scalino di vedetta.
Eppure, qui seduta, sento in me il coraggio dell’attesa.
Attenderò che nevichi sui gradoni e su queste case basse e, quando farà neve, e se sarà Scirocco, lo chiamerò “Calò!” e poi gli scatterò una fotografia.