Banshee

Battaglia, proiettili, sangue, disperazione, futuro perduto, per tutti. Vincitore del Capitolo del Camaleonte dedicato alla memoria di Alan D. Altieri, un racconto di Eleonora Rossetti.

 
La pioggia è implacabile.
Pianto incessante, attraverso il tetto squarciato della chiesa. Chiodi celesti che trafiggono i tre cadaveri divorati dai proiettili, relitti tra le panche marce.
La donna li contempla stando al riparo della fonte battesimale, reclinata a scudo. Nessun rimorso. Lo Stigma nelle sue vene è cancrena che dilaga.
E le parla.
«Insegui la preda, Banshee.»
Banshee.
Le donne dall’oltretomba. Anime bruciate dall’inferno.
«Annuncia la fine.»
Il loro urlo è il tuono sincopato delle detonazioni. Il loro lamento è latore di morte.
Banshee.
«Reclama il sangue.»
Spinge il nuovo caricatore nell’alloggiamento.
Kriss Vector 40S&W, proiettili con incamiciatura di rame, ad alta capacità di perforazione.
«Celebra la morte.»
Chiude gli occhi. Lo Stigma la guida. Nuovi sensi tracciano la realtà con tinte cangianti, distorte. Sfrecciano verso l’abside, da dove erano giunti gli ultimi spari.
Pulsazione. Scia di vita. Le rimbalza nelle tempie.
Lo Stigma rende predatori.
Per questo li sente arrivare. Prima ancora dei passi, delle sicure sbloccate.
I morti sentono i vivi.
Si schiaccia contro il marmo sbrecciato. Colpi di pistola nel tuono; doppia linea di fuoco.
Le ultime due guardie del corpo.
«Celebra la morte.»
Attende la fine della prima salva prima di sporgersi, Vector spianata. Eccoli, al riparo dei cancelli divisori del transetto. Uno è più esposto, imprudente.
La Vector non ha pietà, come la pioggia. Il grilletto è morbido, invoglia al fuoco.
«Annuncia la fine.»
Crack-crack-crack!
Il lamento di morte echeggia in quel luogo orfano di Dio.
Fiotti di sangue e schegge sprizzano nell’acqua. Tre pallottole a spezzare la colonna vertebrale, due a maciullare i quadricipiti, tranciando le arterie femorali. Il corpo dell’uomo sussulta e s’accartoccia al suolo.
«Niente donne, niente bambine.»
Solo uomini, a cadere sotto i colpi di una Banshee.
«Reclama il sangue.»
Crepitio di ricarica dal secondo nascondiglio.
Esce allo scoperto, correndo verso la navata est. Fuoco di copertura, falciata ad arco di venticinque gradi e ritorno. Crivella il riparo fino a metà caricatore. Lo Stigma palpita, traccia il movimento della pistola avversaria. Inizia a contare.
Crack! Uno.
Schivata, spostamento d’aria accanto all’orecchio.
Crack! Due.
Colonna sfregiata davanti a sé. Accelera.
Crack! Tre.
Il proiettile si conficca nel muro alla sua destra.
Crack! Quattro.
Deviazione fortuita della Vector.
Crack! Cinque.
Una strinata al polpaccio. È quasi arrivata.
Crack! Sei.
Tuffo oltre le barricate del transetto, capriola, peso su un ginocchio, torsione a sinistra. Faccia a faccia col nemico.
Kriss Vector, alzo zero, lullaby per l’oblio.
Crack-crack-crack!
L’urlo di una Banshee è pestilenza. Contagia gli esseri umani con feroci tarli di piombo.
Il tuono gioisce dello sprizzare di budella e frammenti d’osso. Perforazione da spalla a inguine, fine sopraggiunta ancor prima del crollo finale sul muschio.
Di nuovo in piedi, la donna rilascia il caricatore vuoto. Tre passi allo scoperto, a colmarsi gli occhi dello scempio.
«Celebra la morte.»
Lo Stigma brucia, vuole espandersi. Deve espandersi. Per una persona. Una…
Crack!
Sette…?
Si guarda il petto. Scorge il buco osceno che lo deforma, lo spruzzo vermiglio sulla canotta scura e sui pantaloni inzuppati.
Costola andata, foro d’uscita grande come un occhio.
Crolla, più che tuffarsi, al riparo di una colonna laterale. Due detonazioni, ruggiti di sfida feroce.
Lo Stigma si protende, in caccia.
Eccolo. In alto. Sul pulpito dell’organo, proprio sopra il portico.
«Ciao, Leena.»
Voce opaca, spenta, un sudario sul mondo.
Leena. Quella parola è aria torbida. Sfiora d’istinto la piastrina d’acciaio al collo, istoriata con un codice numerico.
Non ci sono nomi, all’inferno.
«‘Finché morte non ci separi’. Te la ricordi, la promessa?»
Vuoto. Nella mente e nelle carni. Sangue che scorre, freddo come pioggia.
«Ma non sei tornata per me.»
Lo Stigma corre allo squarcio, sopperendo al respiro. Processo di cura attivo, ossigenazione ripristinata.
«Tu sei qui per Cassie.»
Crack! Nuovo nome, nuovo proiettile. Schegge da impatto le graffiano la guancia.
«Lo sai almeno cosa ti hanno fatto, i tuoi cari padroni? Eri in ospedale per un intervento. Ti hanno iniettato a tradimento quella merda di Stigma, e ti hanno aspettato all’obitorio. Chissà chi ho fatto cremare, Cristo santo.»
Una risata che trasuda isteria. Lei non risponde. Lascia che le parole fluiscano come il sangue. Lascia che il tempo scorra, perché lo Stigma risani ciò che i viventi hanno violato.
«Non eri altro che una nuova cavia per il loro fantomatico “siero del predatore”. Chissà perché cazzo funziona solo sulle femmine. Solo su alcune
Solo donne, solo bambine, sussurra lo Stigma al posto suo, e un nuovo sparo le percuote i timpani. Il proiettile mutila l’intonaco, sfiorandole la spalla, niente più di un’abrasione.
«A quanto pare, il tuo DNA era compatibile. Quindi, tale madre…»
Crack! Il tuono fa concorrenza allo sparo. Mentre si concentra per guarire, lei si accorge. La voce dell’arma. Revolver, come le altre.
«È questo che vuoi, per Cassie?»
Rimbalzi multipli, metallici. Bossoli a terra. Ha visto giusto. Sei colpi alla volta.
«È per questo che ti hanno sguinzagliato a inseguirci, da una città all’altra? Portland, Phoenix, Sacramento… Tutto per lei?»
Il nemico è al riparo. Ma deve esporsi per mirare. E anche lei.
«Fanculo…»
Il click del tamburo nell’alloggiamento.
«Non te la cederò, Leena.»
Cane armato.
«Fottuta zombie del cazzo!»
La sequela di spari trafigge la tempesta. Una pallottola le strina l’anfibio sinistro. La colonna, già mutilata, si sta sbriciolando. La linea di fuoco cambia leggermente. Lei si scansa per non assecondarla, rannicchiandosi.
Lo Stigma le ulula nelle viscere. La frattura si ricompone, il torace si gonfia di nuovo.
«Mai!»
La sua mano insanguinata vola alla cintura. Ultimo caricatore. Proiettili a punta cava. Boccioli da schiudere in corpi altrui. Caricamento. Colpo in canna. Clack.
«MAI, hai capito?»
Bossoli, rimbalzi, nuovo giro nel tamburo.
«Ti ci rimando io…»
Una, due, tre deflagrazioni. Lapilli di granito dal pavimento, in rapida successione. Lei flette i muscoli per lo scatto. Ultima goccia di sangue dal petto.
«…all’inferno!»
Quattro… cinque.
Scarta in piena vista, rotola, termina in posizione eretta. Ora lo scorge, l’uomo, anche senza Stigma, anche attraverso la pioggia. Occhi negli occhi.
Lampi ritmici, tuoni cacofonici tra quelle mura scarnificate.
Kriss Vector, traiettoria ascendente, ultimo canto.
La raffica spacca le gocce, fende l’aria, trapassa la carne. Metallo che implode, si espande, squarta organi, scivola oltre attraverso fori pulsanti.
L’uomo viene sbalzato indietro dalla violenza degli impatti. Sbatte contro l’organo, rincula, si sbilancia oltre il parapetto. Un ultimo guizzo con cui si aggrappa alla balaustra per frenare la caduta, poi s’arrende all’abbraccio marcio delle panche, tre metri più in basso.
Lei si piega in due. Centro in mezzo al ventre. Scava nelle sue stesse viscere in ricomposizione, estrae la pallottola, la stringe nel pugno. Niente dolore, come sempre, solo il formicolio dello Stigma che rigenera i tessuti. Pochi secondi perché possa risollevarsi, anche se ancora malferma, ed espandere i sensi.
Barlumi di vita, dove dovrebbe esserci solo un corpo crivellato.
«Reclama il sangue.»
Sorpassa pozze cremisi a passo lento e lo raggiunge. Punta la Vector.
«Non… l’avrai.»
Parole affogate nel sangue. Singulti liquidi, barbigli scarlatti dalla bocca, slavati dalla pioggia.
Lei esita, per la prima volta. Lo sguardo dell’uomo moribondo è troppo vivo e senza terrore. Occhi lividi di vittoria, divisi dalla tacca del suo mirino.
«Non… puoi. T-tardi.»
Il sospetto brucia più dello Stigma. Lei gli balza addosso, bramosa di verità. La Vector schiaffeggia il fianco, trattenuta dalla cinghia.
Un lampo metallico dalla cintura.
Zero-Tolerance Combat Knife, lama in titanio, cinque pollici e mezzo. Sfiora il pomo d’Adamo come il vento con l’erba. Niente domande, niente conferme: solo lo sguardo.
«È… tardi…»
Consapevolezza. Improvvisa e venefica. L’azzanna nel profondo e lo Stigma non può respingerla.
Tardi.
Anche lui stava guadagnando tempo. Parole per ogni secondo prezioso.
Ma non per guarire.
Non per la vita.
«Se… d-dev’esse… re… che sia…»
Solleva lo sguardo ed espande ovunque.
Nulla.
Troppo nulla.
La pallottola le sfugge dalle dita. Rotola tra grumi viscerali e scompare.
Nocche che sbiancano, cuoio intrecciato che cigola sotto la sua presa.
Tardi.
«…per… sem… pre…»
Zero-Tolerance, lama in titanio, taglio netto. La voce si spegne in un gorgoglio. Vita risucchiata assieme al sangue, fino all’abisso.
L’ultima vita.
 
Sale i pochi gradini che portano all’abside.
L’altare sfida la decadenza, monolite solitario nel crepuscolo tempestoso. Gelido e oscuro, anche per i sensi dello Stigma.
Disteso sul marmo nero, un corpo minuto avvolto in un drappo lercio. Una siringa usata ai suoi piedi, fiore artificiale per l’ultimo omaggio, bacio al veleno dall’unica spina.
Dolce morte. Per sempre.
Cassie.
Solleva la bambina in spalla senza scoprirla, un fardello senza peso. Torna nella navata centrale, una marcia solenne, a capo chino. Ogni passo, un tintinnio nel silenzio.
Piastrine metalliche, penzolanti dalla cintura, identiche alla sua.
14821-12. Portland.
24511-58. Phoenix.
31786-98. Sacramento.
Le sue vere prede. Banshee che avevano seguito la scia di Cassie. Intercettate. Terminate.
«-Tutto per lei?-»
Per lei.
Cassie.
S’inginocchia nella melma vermiglia, attorniata dai cadaveri. Lo Stigma è silente. L’inferno non ha voce per il lutto.
Cassie.
I morti sentono i vivi.
Non Cassie. Non le è concesso sentirla. Non più.
«Celebra la morte.»
Non questa.
Banshee.
Stringe il corpo tra le braccia insensibili. Cuori inerti e freddi a contatto.
La voleva con sé. Per sé.
Finché morte non ci separi.
Banshee.
Tornata dall’inferno, per morire di nuovo. Morire dentro. Morire davvero.
Nella pioggia implacabile, come lacrime.