Dalla E alla Z

Secondo classificato nel Capitolo del Camaleonte dedicato a Stefano Benni, un racconto di Maria Rosaria Del Ciello che ci mostra come, pur nell’abbondanza, sia un duro compito quello di decidere cosa mangiare.

 
Ci deliziamo della farfalla, ma raramente ammettiamo i cambiamenti a cui ha dovuto sottostare per raggiungere quella bellezza
Maya Angelou
 
 
In principio fu una E.
Non una A, come verrebbe da pensare, visto che è la prima lettera dell’alfabeto.
No, proprio una E. Per la precisione una lettera E seguita da alcuni numeri: una tripla di numeri. Poteva essere 105, 106 o 128, in alcuni casi addirittura 637.
La E seguita da queste terne identificava il nuovo mostro diffuso attraverso i canali televisivi e gli altri mezzi di comunicazione allora esistenti: radio e giornali. Si trattava del terribile mostro dei coloranti alimentari frequenti nei prodotti confezionati e, in alcuni casi, accusati di provocare il cancro.
All’epoca avevo più o meno dieci anni e con i miei compagni di scuola e di giochi ingaggiammo delle vere e proprie caccie al tesoro. Studiavamo con cura le etichette dei prodotti preferiti per scovare tra gli ingredienti le famigerate E qualcosa. Gomme da masticare, caramelle, merendine confezionate, nulla sfuggiva al nostro occhio indagatore lanciato in agguerrite gare a chi trovava per primo il colorante cancerogeno.
Per noi ragazzini la cosa fu all’inizio divertente, ma ben presto la faccenda trasformò la nostra tenera età in un periodo tristissimo in cui le mamme smisero di comprare i nostri dolciumi preferiti. Uno fra tutti, quelle deliziose gomme da masticare rosa fucsia con cui riuscivamo a fare palloni giganteschi che poi ci facevamo esplodere in faccia.
Mio padre approfittò della situazione e si diede al gioco del lotto. I numeri che seguivano la E erano per lui un’occasione da non perdere se, come affermò più volte, li avessimo usati nel modo giusto per dare una sistematina alla nostra situazione finanziaria. Purtroppo per lui, e per noi, la dea bendata non fu dalla sua parte e fu così che un paio di centinaia di migliaia di lire andarono ad arricchire la ricevitoria del lotto sotto casa.
 
La mania del gioco di mio padre fu, fortunosamente, interrotta poco tempo dopo grazie all’irruzione nella nostra vita della lettera H.
H5NI era la sigla di una brutta influenza che alla televisione chiamavano “aviaria”. In un primo momento immaginai che fosse un tipo di raffreddore che colpiva i piloti degli aeroplani. Poi mia madre smise di comprare polli e galline spiegandoci che temeva di contrarre quella brutta malattia. Compresi allora che non erano solo i piloti le vittime probabili di quella malattia mortale.
Diedi l’addio a cosce di pollo al forno con patate e anche alle adorate fettine di petto di pollo panate. Mia madre abolì il pollame dalla nostra dieta, comprese le uova, perché l’OMS (all’epoca una sigla a me sconosciuta) aveva predetto il rischio di una “pandemia” e bisognava fare di tutto per impedirla.
Stiamo per essere attaccati da un gruppo di panda e noi per difenderci evitiamo di mangiare pollo e uova. Non riuscivo a trovare in tutto questo una logica.
 
C’eravamo quasi abituati a quella tortura (rimanere senza fettine panate e cosce di pollo al forno con patate) quando un altro cataclisma alimentare si abbatté su di noi.
Questa volta era colpa della lettera B: BSE che, spiegò la maestra, stava per Bovine Spongiform Encephalopathy. Non ero molto ferrato in inglese e compresi il significato e la portata del pericolo quando alla televisione, semplificando parecchio, la chiamarono “mucca pazza” e anche in questo caso parlarono di rischio pandemia. Pensai che gli adulti prendono delle grosse cantonate forse perché da bambini non hanno studiato abbastanza le scienze: come si fa a scambiare un’invasione di panda con delle mucche impazzite?
Mia madre era sull’orlo del collasso nervoso. Gran parte della nostra dieta spazzata da una notizia del telegiornale.
Fu la volta dell’addio a hamburger succose e bistecche di manzo senz’osso.
Temetti che mio padre non riuscisse a sopravvivere.
Con grande sangue freddo mia madre decise che era ora di dare una svolta alla nostra vita se volevamo che durasse il più a lungo possibile.
Bisognava cambiare dieta.
Bisognava diventare vegetariani.
Mio padre, che aveva smesso di fumare quando aveva raggiunto la maggiore età, si accese una sigaretta. Era il suo modo per dimostrare disappunto.
Mamma faticò un po’ a convincerlo che una bistecca poteva essere sostituita tranquillamente da un piatto di lenticchie o fagioli, ma alla fine ci riuscì.
Confesso che gli strani rumori che sentivo la notte in cucina e la carta oleata che la mattina trovavo nella spazzatura mi indussero a pensare che mio padre comprasse di nascosto e si abbuffasse furtivamente di mortadella e salame di Milano. Mia madre, credo, fece sempre finta di non sapere.
 
Passarono mesi e la nostra dieta era ora composta di pasta, riso, latticini e verdure varie.
La catastrofe si abbatté su di noi quando mia madre, sempre alla televisione, apprese che le famose mozzarelle di cui ci nutrivamo un giorno sì e un giorno no, e le verdure del nostro mercato di fiducia provenivano in realtà da una terra da tempo, all’insaputa dei più, utilizzata per il sotterramento di rifiuti tossici.
La mamma si chiuse in camera e pianse per una settimana intera, forse anche qualcosa di più, durante la quale mio padre imparò a fare le fettine panate e comperò salumi e hamburger in quantità.
«Fottuta TV» disse una sera. «Ci volete affamare con le vostre cazzate ma io non mi lascio intimidire.»
Poi, una sera d’inverno, mia madre uscì dalla stanza consumata dalle lacrime e dalla fame. Vidi sul suo volto una strana determinazione che aveva i connotati di una incipiente follia.
«Ragazzi!» esclamò con una forza che non le avevo mai sentito nella voce. «Ho deciso! Si passa al biologico.»
Io avevo sentito parlare spesso, negli ultimi tempi, di questo biologico e all’inizio avevo pensato si trattasse di una nuova professione in campo medico. Scoprii presto che, invece, era un modo per definire il cibo “sano”, almeno fino al momento in cui non si fosse scoperto che era tossico.
Mio padre si accese un’altra sigaretta. Poi, forse stufo di passare le giornate tra i fornelli, si sottomise a questa nuova filosofia alimentare. Dovette però trovarsi un secondo lavoro e anche un terzo per riuscire a sostenere le spese che questo nuovo tipo di dieta imponeva.
Oltre che denutriti, stavamo diventando anche poveri.
Ci trasferimmo in campagna perché mia madre sosteneva che solo producendo da soli i nostri cibi potevamo avere la certezza che fossero sani.
Interruppi gli studi e mi misi a lavorare anch’io nei campi con loro finché un giorno la mucca che avevamo allevato con cura e amore diede un calcio a mio padre mentre la mungeva. Morì sul colpo e mia madre per il dolore si ritirò di nuovo a piangere nella sua stanza per un mese e forse più.
Quando ne uscì, rividi quella strana luce negli occhi di tanto tempo fa. Con voce ferma, un po’ bassa a dire il vero, disse: «È tempo di nutrire le nostre anime! Ci alzeremo al levar del sole e ci coricheremo al suo tramonto. Quando l’oscurità si abbatte su di noi dobbiamo imparare a leggere i segnali del cielo se vogliamo che le nostre teste siano illuminate dalla luce…»
Improvvisamente si alzò un vento gelido e cominciò a cadere una pioggia fitta.
 
Lasciai mia madre e la fattoria, emigrai in Inghilterra e lì provai ad alleviare il dolore per la perdita di mio padre cercando di dimenticare le follie di mia madre.
Ripresi a studiare e l’università fu una distrazione molto grande. Finché incontrai quella che sarebbe diventata mia moglie: una moretta insignificante conosciuta durante un corso di inglese per italiani. Non era nulla di speciale ma mi si incollò dietro quasi come quelle gomme da masticare piene di coloranti tanto amate quando ero bambino. Non riuscii più a scollarmela di dosso tanto che oggi abbiamo due figli: Edoardo ed Elettra, in onore di quella E che colorava le amate gomme della mia infanzia.
Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata da mia madre. Ha deciso di sposare un vecchio guru vegano conosciuto durante una cerimonia di adorazione del Sole. Le ho detto che non importava da quale pianeta provenisse il guru, l’importante era la sua felicità e lei mi ha risposto che quello a cui lei ora veramente tiene non è tanto essere felice quanto acquisire una nuova consapevolezza di sé.
La sera stessa ho scoperto mia moglie rapita da alcune immagini trasmesse alla televisione e il ricordo dei mostri che si erano impossessati di mia madre è affiorato nella mia mente.
«Va tutto bene?» le ho chiesto.
«Ma lo sapevi, tu, che lo zucchero bianco è veleno?» mi ha fatto lei con una strana luce negli occhi.
Io l’ho guardata con dolcezza, le ho accarezzato i capelli e mi è venuto in mente che la Z di zucchero era l’ultima lettera dell’alfabeto. Forse era arrivato il momento in cui tutta quella brutta storia si sarebbe conclusa. Con buona pace dei panda. Una speranza, non una consapevolezza.
«Certo che lo sapevo» le ho risposto, sicuro. «Ma ho sempre desiderato una morte dolce.»