Der Schreiber

La mia Greta se n’è andata. Le infermiere mi sorridono ma si vede che sono in difficoltà. Devo sembrare proprio ridicolo con questo papillon. Ma io non vado agli appuntamenti importanti con Greta senza il mio papillon giallo. Un vecchio ridicolo. Ecco quello che quei giovani occhi stanno guardando adesso.
L’odore di corsia mi riporta indietro di settant’anni e le bocche rosse di queste ragazze assomigliano così tanto a quella di mia moglie. Anche Greta sorrideva quel giorno ma in quella baracca non c’erano le pareti bianche di questi corridoi. L’odore però era questo. E gli occhi spaventati che ogni giorno mi si presentavano davanti erano tutt’altra cosa rispetto a tutte queste persone che aspettano di entrare.
Alcuni sono tristi, altri, grazie a Dio, sono felici per una nuova nascita. Molti hanno paura. Quel terrore però non ce l’hanno. Non l’ho più visto su nessun volto, mai più.
«Professore, venga, si metta a sedere». La bella Carolina mi sorride ancora e mi prende per il braccio con una delicatezza che mi dà la conferma di quello che sento nel petto: la mia Greta non c’è più.
«Potete portarmi da lei per favore? So già che se n’è andata».
Quando ci si innamora all’inferno, quando la paura e il terrore sono gli unici testimoni di una storia d’amore, si crea un legame così forte che quando si spezza si sente.
Le gambe sono di piombo mentre i miei passi mi portano davanti alla porta di Greta.
«Professore, mi dispiace così tanto. Mi raccomando, non esiti a chiamarci. Ha tutto il tempo che vuole».
Le sorrido e spingo la porta. Il tempo. Che valore può avere il mio tempo adesso, senza di lei?
La stanza è immersa nel buio e per un attimo torno a quel giorno, il momento in cui lei mi sorrise per la prima volta.
Era tutto buio, umido e quell’infame in uniforme sorrideva mentre, uno dopo l’altro, i prigionieri passavano da me, un foglietto di carta in mano, completamente rasati e terrorizzati, come se io fossi il nemico. Credo sia quello che mi ha fatto innamorare di Greta. Lei mi guardava come uno di loro. Ma penso sia anche la mia più grande condanna: sono stato scelto e non ero più in fila con loro ma seduto su quel maledetto sgabello di legno, con le pinze in mano.
Il mio respiro si fa pesante. Mi gira la testa. La guardo inerme in questo anonimo letto e la rivedo mentre, con mano tremante ma col sorriso sulle labbra, mi passa il suo foglietto.
A34568. Cercai di essere più delicato possibile. E lo fui, eccome se lo fui. Si vedeva appena e l’ufficiale, quel bastardo di Hans, me la fece pagare il giorno dopo. Ne pago il prezzo a ogni cambio stagione, quando la spalla decide di ricordarsi di quel bastardo e di ciò che successe.
Mi avvicino a Greta e le sfioro il braccio. I numeri sono ormai sbiaditi, quasi illeggibili. La pelle delicata e grinzosa li nasconde, come se fosse davvero arrivato il momento di coprire ogni vergogna, ogni crudeltà.
Le sposto i capelli e me la godo un’ultima volta. La mia Greta, l’unica persona che mi ha sorriso quel giorno e che ha reso bello, anche solo per un attimo, il posto peggiore del mondo, il luogo che ha fatto vergognare anche l’inferno. Neanche il diavolo avrebbe mai pensato di mettermi in mano quegli strumenti. Neanche lui mi avrebbe mai chiesto di tatuare i miei fratelli.
Mi guardo il braccio sinistro e inizio a sbottonare la camicia. Le dita tremano e mi fanno male, molto male. Ma non voglio fermarmi e arrotolo la manica. Si riconosce ancora il cinque e forse il sette ma gli altri sono confusi sotto i peli e le pieghe della pelle.
Il mio primo tatuaggio.
Mein schreiber, mi chiamava così Greta.
Mi avvicino alla sua bocca e chiudo gli occhi. Voglio l’ultimo bacio, voglio sentirla ancora dentro di me.
Ero uno scrittore, è vero, e lo sono stato per tutta la vita. Ho raccontato quell’orrore per anni e ho dato finalmente una voce e un nome a quei numeri che ho inciso su quelle pelli.
Ma nessuno ha mai ricordato il mio di nome, solo Greta.
Per gli altri io ero solo Der Schreiber.
Il tatuatore di Auschwitz.