Elia Ubertis

Mi affaccio alla finestra. Ho udito una richiesta di aiuto. Tendo le orecchie ma non c’è altro, oltre il brusio urbano. Forse il vento mi ha ingannato. Abbasso lo sguardo, due piani più in basso, sul fatiscente villino all’altro lato della strada.
Torno a deprimermi sui conteggi di fine mese e maledico il giorno in cui ho scelto questa vita di merda.
Mi volto verso la finestra, stavolta sento chiaramente un lamento.
Proviene proprio da lì. Ma non era disabitato?
Resto in ascolto. Qualcuno è in pericolo, a quanto pare. Non so che fare. Chiamo la polizia? Un’ambulanza? Prendo il cellulare e digito il numero dei carabinieri. Pronto? Prego, dichiari qual è l’emergenza. C’è qualcuno che chiede aiuto e… Fornisco l’indirizzo e aspetto riscontro. Al momento tutte le nostre pattuglie sono impegnate. Invieremo qualcuno appena possibile. Riappendo. Forse tocca a me andare a controllare.
Scendo in strada. Che strano: quell’edificio è lì da tanti anni e io l’ho sempre ignorato, come tutti, del resto.
Attraverso la strada, supero il cancelletto scardinato e mi avvicino alla porta. Il tramonto conferisce all’abitazione un aspetto inquietante. Un brivido mi percorre la schiena.
Un altro lamento, più prolungato e triste degli altri, mi vibra nella testa.
Signore? Sta bene?
Aiuto! supplica qualcuno dall’interno. Mi coglie l’impulso di fuggire, ma giro lo stesso la maniglia e spingo. Do solo un’occhiata e me ne vado, giuro. Un’anemica lampadina illumina l’ambiente disadorno. Pochi mobili antichi, un tavolinetto di vetro e al centro della stanza una poltrona di pelle marrone su cui giace un uomo. Le pareti ingiallite sono cosparse di maschere di legno appese. Maschere orribili. Sembrano volti mummificati. L’uomo è vestito solo di una tunica grigia lisa e macchiata. Non è vecchio ma ha il viso olivastro solcato da profonde rughe ed è emaciato. Impossibile definirne l’età.
Aiutami, mi dice. Ha le braccia adagiate sui braccioli, la testa inclinata di lato. Boccheggia.
Signore, che succede?
Avvicinati; la voce è poco più che un soffio modulato.
Due, tre passi e mi fermo. Le chiamo un’ambulanza, gli dico.
Avvicinati, insiste.
Ancora due passi. Mi fermo.
Sono solo, dice. Sto per morire.
Quasi me la faccio sotto.
Solleva la destra e compare un oggetto. Un libricino dalla copertina intarsiata di simboli bizzarri. Prendilo, mi dice. Voglio che sia tuo, prima della fine.
Di cosa sta parlando?
Mi accosto alla poltrona. È un cimelio misterioso, segnato dal tempo.
Allungo il braccio, il cuore a mille, e sfioro con le dita la costina rugosa.
Con uno scatto, l’uomo mi afferra il polso con l’altra mano e me lo stringe.
Lasciami!
Mi attira a sé a pochi centimetri dalla faccia. Ha una forza incredibile. L’aria attorno alla sua testa è gelida, puzza di polvere bagnata.
Guardami, mi dice. Guardami bene. Non dimenticarmi.
I suoi occhi strabuzzati mi inoculano terrore.
Mi lasci! Cerco di liberarmi.
Io sono Elia Ubertis, rantola. Io sono Elia Ubertis.
Strattono forte la sua mano e finalmente mi molla. ‘Fanculo, vecchio! Indietreggio.
Lui ha uno spasimo in tutto il corpo. Tira indietro la testa, emette un verso acuto, poi esala l’ultimo respiro.
Sono paralizzato. Lo fisso per qualche secondo: non si muove più. Il libro antico è caduto a terra. Lo raccolgo guardingo e corro fuori dal villino.
Salgo a casa. Sono sconvolto. Chi è quel pazzo? Perché nessuno si è mai accorto di lui? Perché è morto?
Poso il libro sulla scrivania. Mi tengo la testa fra le mani. Non scorderò quegli occhi finché campo.
Respiro a fondo. Abbasso lo sguardo sulla copertina. Teschi in rilievo. Croci. Segni indecifrabili. Lo sfoglio.
Alcune pagine sono cosparse di frasi in latino, altre sono incomprensibili.
Passo le dita sulle righe.
Qualcosa fluisce dentro di me attraverso i polpastrelli. Immagini. Ricordi che non mi appartengono.
Un’intera vita mi si srotola davanti agli occhi.
Quello che vedo è agghiacciante.
Non voglio restare solo.
Pagina dopo pagina, imparo a interpretare i simboli sconosciuti. E capisco.
Tutto questo sapere non deve andare sprecato.
Ora so chi sono.
Questo potere consuma, ma può essere trasmesso.
Devo sbrigarmi. Continuo a leggere. Adesso non ho più dubbi.
Io sono Elia Ubertis.
 
Noi moriamo soltanto quando non riusciamo a mettere radici in altri. (Lev Tolstoj)