Errori di gioventù

A volte la fantasia riesce ad affiancarsi alla realtà fino anche a superarla… Un racconto di Manuel Piredda.

 
La mano di Sara era stretta in un pugno, lo sguardo di fuoco fisso al centro delle mie pupille, come se avesse potuto cavarmi gli occhi con la forza della sua rabbia.
All’uscita da scuola mi ero affiancato a lei, avevamo camminato uno accanto all’altra da quella che ormai mi sembrava un’eternità fatta di silenzio e di sguardi affilati come coltelli.
«Ti vuoi decidere a parlare? Sputa fuori tutto il veleno che stai serbando per me, è da stamattina che mi fissi come fossi…»
Mi colpì sul viso prima che potessi chiudere la bocca e scoppiò in lacrime.
«Non mi sembri niente, Giacomo, abbiamo fatto un errore. Non eravamo pronti e non lo saremo mai, io non provo più niente per te se non disprezzo e pena, se non fosse stato per il piccolo non staremmo nemmeno parlando.»
Era vero, lo leggevo chiaramente nei suoi occhi insieme al risentimento e al senso di colpa.
«Questo era chiaro fin da subito, ma pensavo che dopo di lui qualcosa sarebbe cambiato, pensavo che ci avrebbe avvicinati.»
Sapevo che fare leva sul pargoletto era sempre una pessima idea, ma certe lezioni sono difficili da imparare.
«Lui non c’è più, non c’è più perché sei un incapace e irresponsabile! Hai ignorato le sue richieste per ore, l’hai abbandonato a se stesso mentre ti divertivi con i tuoi amici e i tuoi videogiochi, e ora lui…»
Singhiozzava di fronte a me, le mani a coprire gli occhi mentre la schiena sobbalzava a ritmo con i suoi lamenti.
«Non dirlo, Sara. Possiamo farlo di nuovo, non dobbiamo perdere tutto per l’errore di una sera, dammi un’altra possibilità. Riproviamoci.»
Le strinsi la testa contro il mio petto, l’avevo visto fare in tv e mi sembrava il modo migliore per sentirmi davvero un adulto responsabile; un’altra manata in faccia e uno spintone mi ricordarono che alla fine non siamo in un film.
«Vuoi ammazzarne un altro? Vuoi davvero sederti di nuovo di fronte a uno schermo del cazzo mentre si ripete tutto? Sei un bambino, Giacomo, un bambino incapace di pensare a qualsiasi cosa al di fuori di se stesso!»
L’aveva urlato, in mezzo al marciapiede, mentre i passanti ci fissavano inorriditi; sguardi severi e accusatori si fissarono su di me.
«Il cicalino era bassissimo Sara, non puoi dare tutte le colpe a me, se tu ti fossi decisa a cambiare quella maledetta batteria adesso sarebbe ancora qui.»
La disperazione lasciò il posto alla furia, gli occhi sbarrati su di me lasciavano presagire la crisi di nervi imminente.
«Adesso la colpa sarebbe la mia? Io l’ho cresciuto dal duemila, ero una bambina io stessa quando è nato, e mi sono presa cura di lui anche senza cicalino, anche senza retroilluminazione, per quattordici anni! E tu lo fai fuori in mezza giornata! Sai cosa ti dico? Tieniti il cadavere, testa di cazzo!»
Con le mani ancora strette in due pugni mi diede le spalle, guardai con rimpianto il sedere di Sara sculettare via mentre ancora stringevo in mano il suo prezioso Tamagotchi, sul vecchio schermo graffiato un angioletto rimbalzava su e giù con la faccia triste.

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