IL VUOTO

Quando mi decisi per la corda, non avevo altro pensiero.
Era un pomeriggio come tanti e i ragazzi mi aspettavano in saletta. Ci vedevamo lì, ogni giorno, dopo la scuola.
Non mi preoccupai di avvisare nessuno, non sarebbe cambiato niente. Non pensai nemmeno per un istante a Marco, Luca e Pino, che mi aspettavano per strimpellare il nostro solito repertorio punk. Avrebbero trovato un nuovo bassista. Nessuno è indispensabile, rimpiazzarmi sarebbe stato facile.
Pensai alla mamma, questo sì. E a Federico, che da poco aveva imparato ad andare in bicicletta. Presi carta e penna e lasciai loro due righe:
 
Non sentitevi in colpa, non avreste potuto fare niente.
Fede, la mia bici ora è tua: cresci bene e sii felice.
Vi amo ancora, ma non basta.
Carlo

 
Non lo rilessi. Pensavo solo alla corda. Tenevo stretto il mio proposito come la cosa più preziosa.
Scesi nel garage sotto casa, sapevo che il nonno aveva lasciato lì tutti i suoi arnesi. L’avevo vista poco tempo prima, la corda. Entrai e chiusi la porta.
Mentre facevo il nodo, sentivo quel vuoto che mi abitava da mesi attraversarmi tutto. Avrei voluto piangere, quello forse mi avrebbe distratto. Sarebbe stato il segno che c’era ancora qualcosa da salvare. Ma non piansi. C’era solo quel senso di vuoto che si espandeva dalla testa in ogni cellula del mio corpo e la corda era lì: la soluzione.
La legai ad una trave di poco distanziata dal soffitto. Mi ero documentato su come fare, quando mi ero deciso per la corda. Spostai nel punto giusto lo sgabello che il nonno usava quando si metteva al suo tavolo da lavoro. Da quando era morto, le cose erano peggiorate: lui era sempre stato il mio punto di riferimento e la sua assenza aveva nutrito quel nulla che già sentivo crescere dentro di me, prendendosi il gusto di ogni cosa.
Salii sullo sgabello e infilai la testa nel cappio. Non diedi il tempo a nessun pensiero di ostacolare il mio intento e, con un veloce movimento del piede, lo spostai lontano. Cadde.
Il vuoto si prese piano piano anche lo spazio dell’aria nella mia gola. Sbattevo le gambe convulsamente. Era orrendo, ma sarebbe finalmente finito tutto.
“Carlo!”. La voce di Pino mi arrivò ovattata. Era nel cortile davanti al garage. “Carlo, ma è possibile che bisogna venirti a prendere a casa? Come facciamo a suonare senza il bassista?”. Le sue parole mi raggiungevano lente, dilatate.
Poi una luce abbacinante mi arrivò come una sberla in faccia, seguita dal rumore della porta del garage che si apriva. “Carlo, ma che cazzo fai? Carlo!”. Pino urlava come non lo avevo mai sentito.
La mia testa era pesante come un sacco di cemento quando sentii il mio corpo alleggerirsi e i miei piedi poggiare sulle magre spalle di Pino. “Aiuto! Qualcuno mi aiuti!”. Pino gridava, piangeva e, tremando, mi teneva i piedi ben saldi sulle sue spalle. Mi sentivo mancare, quando un’immagine, come in un sogno, si fece largo nella mia mente, forse anche a causa del nome del mio amico (il cervello, talvolta, fa brutti scherzi!): un albero si innalzava nel mio garage. Io ero la chioma mollemente abbandonata su Pino, un tronco esile, malfermo, ma con i piedi infilati nelle sue Converse rosse sbrindellate, radici aggrappate al centro della Terra, contro il furore del mio vuoto.
“Aiutateci! Qualcuno ci aiuti!”. Continuava a urlare, interrotto dai singhiozzi. “Poi me la paghi, razza di idiota!”. Questo mi disse, stringendomi i piedi con entrambe le mani. “Non si lasciano così, gli amici!”. Fu questa l’ultima frase che gli sentii dire prima di perdere i sensi. Le lacrime mi scivolavano lente sulle guance.
Oggi non ricordo nemmeno come arrivai a decidermi per la corda.
L’ombra di quel vuoto non mi ha mai lasciato, ma ogni volta che si riaffaccia ripenso alle Converse rosse sbrindellate di Pino, il mio amico, che non valevano due lire, ma alle quali devo tutto.