
Schegge di vetro incastonate nelle finestre come denti cariati ululavano sotto la sferza del vento. Il cielo è un’immensa lastra di piombo fuso, senza sole, senza stelle. Tutto è immobile, eppure nulla è mai silenzioso.
Attorno al bunker, il terreno è arido e spento, coperto di detriti: spuntoni di cemento armato che emergevano come ossa rotte, frammenti di metallo corrosi dal tempo e qualche osso sbiancato dal sole. Nessuna foglia, nessuna traccia di muschio, nemmeno la più tenace delle erbacce. La vita si era ritirata sotto terra, lasciando la superficie a noi.
– Noi restiamo fuori, bambina mia. Non possiamo entrare. Non ci hanno voluto lì dentro. – Sfioro il tuo viso, con delicatezza. Le dita, spoglie e contorte, tracciano i contorni familiari della tua pelle, attente a non farti del male.
Da dentro arrivano passi. Un suono ritmato, accompagnato da cantilene gutturali. È già tempo di offerte? Nessun urlo, nessuna supplica, solo quel lamento monotono che evocava antichi rituali dimenticati. Che peccato. Un tempo lo facevano con onore, con la fierezza di chi offre un sacrificio agli dei. Ripetevo loro che il dono deve essere sveglio, consapevole, ma le mie parole sono echi dimenticati.
Mi trascino per lo spiazzo sabbioso che si estende davanti all’ingresso del bunker antiatomico. Questo posto è un albero morto: le radici si snodano sotto terra, nascoste, mentre noi siamo i rami secchi, spezzati.
Mi afferro alla panchina, l’unico trono che questa terra possa offrire. Arrugginita, deformata, rossa come sangue coagulato. Ma è ancora qui, come me.
Dal tunnel escono in processione. Le torce tremolano contro le pareti di cemento e illuminano il carrello della spesa che spingono a fatica nella cenere. Sopra, incatenata, c’è una giovane donna, inanimata. I capelli rossi spiccano come una ferita aperta nel buio. Non vedevo un colore così vivo da tanto, troppo tempo. La pelle pallida, consunta dalla loro vita sotterranea, è insignificante. Ma quei capelli!
Non riesco a staccare gli occhi da quel ramato. Un uomo, in un sudario di plastica arancione, si avvicina a tentoni. Si inginocchia, il volto rivolto a terra: – Sette mesi, ti prego. Solo sette.
Mi alzo, lentamente. Le ossa protestano, scricchiolano, si piegano. Ho bisogno di due mani per mostrare cinque dita. Lo faccio senza parlare. Non serve. Lui china la testa ancora più in basso e si prostra tre volte. E si ritira nel buio del tunnel; striscia come un verme nel suo buco.
Cinque mesi per coltivare e sparire; è tutto ciò che avranno. Cinque mesi senza che i ghul li caccino fin nei loro corridoi bui, senza che li divorino. È un buon accordo, per chi ci ha lasciati fuori.
Mi appoggio al carrello, il peso del dono è enorme rispetto al mio corpo marcio. Ogni passo è una lotta. Sono debole, fragile. Non posso permettermi un movimento sbagliato. Non ora.
Il carrello cigola mentre vengo da te: – Guarda, piccola mia. Anche lei è fuori, come noi. E ha i capelli rossi, proprio come i tuoi.
Mi accuccio accanto a te e ti sistemo una ciocca ribelle. La tua presenza è la mia ancora, le radici che mi impediscono di unirmi al vento. Sei tutto ciò che ho. Noi due, sempre insieme.
Ti sfioro appena il viso, attento a non cancellare la tua ombra dal muro. A non perderti nel vento.
Mi siedo e aspetto. Il dono si sveglierà presto. Allora strapperò quei capelli rossi, uno alla volta. E starò attento a non sporcarli di sangue quando mangerò. Li terrò con cura. Per te, per me, per la nostra famiglia.
Sono il signore della superficie. E mi prendo cura di chi è rimasto fuori: noi siamo ciò che resta, le radici spezzate del tempo, la memoria che l’umanità ha lasciato marcire.
(Immagine di copertina generata con chatGPT)