Pausa pranzo

Sei di corsa. Come sempre.
Una pausa pranzo dove avresti voluto andare a Pilates, sudare, rilassarti per almeno tre quarti d’ora.
Invece Allegra, la mamma di Massimo, ti ha chiamato.
Tu, Sara e Ilaria non la sopportate: difende quel minus di suo figlio a ogni occasione, anche contro l’evidenza. Sai che metà della classe, inclusa tua figlia, lo trova uno sfigato. Quando hai accettato di vederla, controvoglia, hai pregustato il taglia e cuci che ne sarebbe venuto fuori.
Parcheggi lo scooter e la vedi da sola al tavolino del bar, rigida, la borsa stretta in mano. Tipico per una instabile come te, pensi. Chissà che diavolo vuoi.
Quando ti vede ti fa un cenno, non si alza.
«Ciao Marta. Grazie per essere venuta, scusa la fretta. Avevo davvero bisogno di parlarti: sei la sola che mi ha sempre sostenuto, fra le mamme della classe.» Sollevi un sopracciglio: piuttosto sei una delle poche con cui non ha litigato.
Ha il tono spento che non sopporti, quello che riconosci subito quando ti chiama. Sceglie sempre i momenti peggiori: una riunione importante, l’ora di cena quando stai per mettere a tavola i bambini.
«Figurati. Ma ho poco tempo, oggi pomeriggio ho quattro riunioni. Perché tutta questa urgenza?» La fissi, notando solo ora che porta gli occhiali da sole, nonostante la giornata grigia. È tesa, aggrappata alla borsetta appoggiata sulle sue ginocchia.
«Ecco, si tratta di Pietro.» Lo dice con un tono imbarazzato, insolito. «Mi ha mandato via di casa.» Pronuncia le ultime parole in fretta, come se non volesse sentirne il sapore.
Spalanchi gli occhi, un sorriso che fai fatica a dissimulare. La cosa si fa interessante. La stronza non mostra mai un momento di debolezza, non fa errori. Altrimenti tu e le tue amiche ne avreste già approfittato.
«In che senso? Non andate più d’accordo? L’ultima volta che vi ho visto alla festa della scuola eravate tutti sorridenti.»
«È complicato, Marta. Non so se te ne ho mai parlato, ma a casa nostra è lui che decide certe cose. Io sono molto, ehm, tradizionale. I miei genitori mi hanno sempre dato dei principi piuttosto rigidi.» Tiene lo sguardo basso, il tono monocorde.
«E Massimo, starà con te o con lui?» Ti penti subito di averlo chiesto. Troppo ovvio: in questi casi i ragazzi rimangono con le madri, mentre gli uomini di solito si trovano la ventenne di turno.
Alza lo sguardo dietro alle lenti scure, una lacrima scivola lungo la guancia. «Ma con lui, è ovvio. Non mi permetterebbe mai di portarlo con me.»
Qualcosa non torna, pensi: devi essere davvero in difficoltà.
Adesso ha tutta la tua attenzione.
«Sono tornata a vivere da mia madre. Massimo non l’ho più visto, non me lo ha neanche passato al telefono. Ma stamattina ho dovuto cercare Pietro, non ce la facevo più. Sono tornata a casa.» C’è qualcosa fuori posto, che ti dà fastidio ma non riesci a individuare.
«Abbiamo parlato, poi lui si è innervosito. Mi ha detto che era finita, di lasciarlo andare. Ma io lo amo ancora, lo so che sembra assurdo, ma se mi dicesse che ci vuole riprovare lo riprenderei.» Sta parlando a macchinetta. Guardi meglio il suo viso, intuisci qualcosa.
«Allegra.» Non ti ascolta, continua come se non ci fossi.
«Continuava a ripeterlo, vattene, lasciami andare. Io ascoltavo in silenzio, alla fine sembrava che parlasse da solo, ma lo so che non era vero. Non lo pensava.»
«Allegra aspetta, fai vedere.» Ti avvicini, le togli gli occhiali senza che si muova. Come avevi immaginato, il suo occhio destro è tumefatto, livido, un po’ sporco di sangue.
«Cosa ti ha fatto quel bastardo? Adesso andiamo subito alla polizia, vieni.» Cerchi di afferrale una mano, ma resiste. La borsa cade a terra.
«Non era vero. Non potevo lasciarlo andare. Pietro. L’amore della mia vita.» Crolla sul tavolino, si appoggia sulle braccia singhiozzando forte.
Noti qualcosa che sporge dalla sua borsetta aperta.
Sembra un fagotto di carta assorbente da cucina, un lato impregnato da un liquido rosso.
Tre dita sporgono fuori dall’involto, sfiorando l’asfalto.