I più amati, i più buoni

Per due cose andava famosa Mamma Rosa: i suoi manicaretti e l’abitudine di allevare figli non suoi.
Quando, negli anni ’50, veniva giù in paese, ce ne accorgevamo subito per il vociare della dozzina di bambini che la circondava come una chioccia, pigolando frasi molto poco pulcinesche come:
«Mamma Rosa, Riccardo mi ha spinto!»
Oppure:
«Mamma Rosa, ci compri le caramelle?»
O ancora:
«Mamma Rosa, possiamo andare a vedere il circo?»
 
Mamma Rosa trattava tutti con gentilezza e pazienza, cercando di coordinare la sua dozzina di bambini.
A noi del paese sembrava un miracolo che si fosse ripresa dopo quella storiaccia del figlio sbranato dai lupi.
È stato quasi quarant’anni fa, ormai, e i pochi che da allora sono rimasti affermano di ricordare ancora le sue grida strazianti, mentre stringeva al petto i resti dilaniati della sua prole e urlava che mai più – MAI PIU’ – avrebbe amato così tanto.
Davvero una brutta storia, anche per il marito che fece fagotto e l’abbandonò quella notte stessa. Dicono fosse sconvolto, e che desse la colpa della morte del figlio a “quella strega” della moglie e non ai lupi.
Nessuno sa cosa successe veramente, ma conoscendo il carattere materno e riservato di Mamma Rosa e considerando che pochi giorni dopo Micuzzo il cacciatore venne giù dalle montagne col cadavere di un lupo magro magro che faceva più pena che paura, a tutti sembrò palese che alla povera Mamma Rosa fossero capitate due disgrazie in un sol colpo, e che il marito avesse approfittato della tragedia per abbandonare la moglie – intenzione su cui spesso le comari ricamavano dall’alto dei loro balconi – e fare un po’ di bella vita in città.
Ancora nell’aria non c’erano neanche i sentori della guerra che ci avrebbe portato via ogni cosa, e proprio in quei giorni il nome di Benito Mussolini, sindacalista rivoluzionario, cominciava a occhieggiare dalle pagine di cronaca.
 
Dopo quella notte nessuno vide più Mamma Rosa in paese per anni; i pochi che si avventuravano fino alla sua cascina raccontavano di averla vista con le finestre sprangate e l’orto incolto, e se non fosse stato per il fumo che usciva a tutte le ore dal comignolo e per gl’inconfondibili odori di buon cibo, avrebbero pensato che fosse andata via, o che si fosse uccisa.
Nessuno si arrischiò mai a controllare come stesse davvero, però; un po’ perché Mamma Rosa era una donna notoriamente riservata e un po’ perché gli avvenimenti che stavano prendendo l’Italia e il mondo intero creavano già un gran fermento nelle discussioni di piazza e sui balconi delle comari. Perché perdere tempo a parlare di Mamma Rosa – che tutti conoscevamo già più che bene – quando si poteva parlare di Mussolini, dei gerarchi, di Hitler e delle nuove leggi dello stato fascista?
 
La guerra l’abbiamo sentita tre volte: quando è cominciata e abbiamo visto le nostre braccia più valide posare le zappe per imbracciare i fucili e partire; quando sono arrivati i tedeschi a seminare il terrore e i pochi uomini rimasti sono saliti a nascondersi sulle montagne; quando è finita, e oltre ai sopravvissuti del villaggio sono arrivate colonne di centinaia e centinaia di sfollati.
 
Mamma Rosa è ricomparsa subito dopo che i tedeschi sono andati via, magra e pallida che sembrava già più che vecchia, e ha invitato tutto il paese a pranzo.
Noi eravamo rimasti in pochi, stupiti ma troppo affamati per declinare il suo invito o farci delle domande. Ci accolse lo spettacolo di una cascina ristrutturata di fresco – proprio in quel periodo, in cui le nostre case cadevano a pezzi – che fece mormorare qualche vecchia inacidita su una presunta collaborazione di Mamma Rosa coi tedeschi, e una tavola imbandita poveramente, ma con gusto.
Dalla cucina si spandeva un meraviglioso odore d’arrosto che fece cambiare idea a non pochi sull’opportunità di una collaborazione coi tedeschi.
Il pranzo fu ben più ricco di ciò che ci aspettavamo, e contò ben otto portate tutte a base di carne; una carne deliziosa, dolce e speziata, che non assomigliava a nessuna che avessi mai assaggiato e che si scioglieva in bocca.
Erano anni che nessuno di noi mangiava così bene, e ben presto la qualità dei cibi e lo stomaco satollo fecero dimenticare ai commensali le ansie e le angosce della guerra e la paura per i giovani, nascosti sulle montagne.
A quell’epoca ero ancora un bambino, e approfittai del chiacchiericcio degli adulti sui bei tempi andati per curiosare nella cascina lontano da occhi indiscreti; un vecchio armadio accanto a una porta chiusa, vicino alla cucina, attirò la mia attenzione: l’anta sinistra era semiaperta, e oltre s’intravvedeva la forma di un paio di stivali. Mi avvicinai e scostai ancora un po’ l’anta: dentro, tre paia di stivali lucidi, tre uniformi grigie ripiegate con cura e tre cappelli con sopra un’aquila d’argento. Tedeschi. Allora avevano ragione le comari a malignare!
Intimorito dalla mia stessa scoperta, feci tre passi indietro e andai a sbattere contro il corpo ossuto e longilineo di Mamma Rosa, che mi era arrivata alle spalle senza fare nessun rumore e mi fissava con espressione cupida.
Mi lasciai sfuggire un gridolino di sorpresa:
«Ah!»
«SSsssssH!» rispose lei, portandosi un dito sulle labbra.
Mi guardai intorno spaventato, convinto che i tedeschi di cui avevo scoperto le uniformi sarebbero saltati fuori da un momento all’altro per fucilarci tutti; lei capì e scoppiò a ridere, una grassa risata di petto che somigliava al verso di una chioccia, ma con qualcosa di gorgogliante e sgradevole sul fondo. La fissai a occhi sgranati.
«Loro non possono farti nulla – disse lei, ricomponendosi» ma se sarai abbastanza buono, li raggiungerai presto.
Fece un occhiolino. Io fuggii terrorizzato per i campi, e non mi fermai finché non arrivai a casa.
Più tardi, i miei mi misero in punizione per la mia scortesia: Mamma Rosa era una donna sola e sicuramente bizzarra, ma piena di premure per tutti, e con il mio atto li avevo ricoperti di vergogna. Mi ordinarono di tornare a chiederle scusa, ma io non volli mai più rimettere piede in quel posto, mi metteva i brividi.
 
Mamma Rosa non rimase sola a lungo: con la fine della guerra arrivarono colonne e colonne di sfollati che si trattenevano qualche giorno vicino al paese, e con loro c’erano sempre almeno un paio di bambini senza famiglia né un posto in cui andare che lei prendeva volentieri con sé; di tanto in tanto qualcuno spariva, lei diceva di averlo mandato in città o a fare il bracciante da qualche famiglia di contadini, che a quanto pare durante la guerra si era fatta degli amici di cui nessuno sapeva nulla in paese.
Ogni volta che le partiva un figlio, lei organizzava un pranzo per sentirsi meno sola.
Il pranzo era sempre squisito, sempre a base di carne, sempre qualche giorno dopo la partenza. Durante il pasto, lei commemorava il bambino perduto piangendo come una vite tagliata, dicendo che “era il più buono, il più amato”.
Se, per caso, qualcuno le chiedeva il segreto della sua cucina deliziosa, lei si faceva seria e diceva:
«È tutto nella carne: la cucino con amore.»

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