Solo uno

«Dove cazzo ti nascondi?»
Dino si sentiva frenetico. Sapeva che qualcuno era lì in casa con lui, lo sentiva, dannazione. Ansimava mentre cercava di capire dove fosse l’Abusivo.
In cucina, il tavolo era in ordine con il cestino portafrutta al centro, mentre la luce che entrava dalla finestra colorava tutto di un giallo quasi dorato. Il frigorifero ronzava sommessamente. L’idea del cibo gli aggrovigliò le viscere: sicuramente un effetto della tensione.
Dino, dove vai?
Era la voce dello sconosciuto.
«Vieni fuori, figlio di puttana!» D’istinto, aprì il cassetto e tirò fuori un coltello da cucina MiracleBlade.
Cosa vorresti fare con quel coso?
Si diresse in soggiorno: vuoto.
L’occhio gli cadde sulle foto incorniciate che Rita aveva disposto sul ripiano più alto della parete attrezzata: c’erano loro due al decimo anniversario di matrimonio, c’era suo figlio Carlo il giorno della laurea, e altri pezzi della loro vita familiare cristallizzati in piccoli riquadri pieni di sorrisi. All’improvviso, gli occhi luminosi immortalati cominciarono a spegnersi, i colori sbiadivano e i sorrisi morivano uno dopo l’altro, sostituiti da lineamenti vuoti, cascanti. I sorrisi divennero smorfie e poi scomparvero del tutto, lasciando il vuoto emotivo.
Un giorno qualsiasi ho messo le tende qui, come si dice. Nessuno si è accorto di me e adesso sono parte di tutto.
Dino distolse lo sguardo dalle foto, sconvolto per quello che aveva visto. Per la seconda volta le sue budella si contorsero, non fu per qualche repulsione, ma per una sensazione di puro terrore.
La voce veniva dal piano di sopra, ma c’era dell’altro: aveva udito dei singhiozzi, un attacco di pianto sconsolato. E sembrava sua moglie!
«Lascia stare Rita, pezzo di merda!» Urlò Dino, mentre si lanciava su per la scale. Un altro gemito, dal bagno: spalancò la porta e per lo slancio perse l’equilibrio e cadde in avanti. Una fitta alla pancia gli incendiò le viscere mentre cercava nello stesso tempo di domare il nuovo attacco di spasmi.
Sono ormai diciotto mesi che sono con te.
«Chi cazzo sei?» Chiese Dino.
Abbassò lo sguardo e vide il manico del coltello conficcato nel suo addome saltellare a ogni suo respiro: vomitò una poltiglia rossastra, con striature nere e grigie, che pulsava, quasi viva. Dino la vide raggrumarsi e prendere la forma di un volto, e quella che doveva essere la bocca disse: Mi chiamano K, come il tipo della Metamorfosi. Ma tu lo sapevi già.
Dino sentiva le forze mancargli, mentre intorno a lui i singhiozzi di Rita e di Carlo si moltiplicavano: provenivano dalla camera da letto.
Vomitò altro materiale nauseabondo: K era grande come una valigia e la sua bocca era spalancata. Dino guardò dentro e vide solo l’oblio.
Vieni vicino, ascolta cosa ho da dirti, ascolta le mie parole.
E lui, ormai senza energie, cadde in avanti dentro quelle fauci beanti: Sai una cosa?…
 
Dino aprì gli occhi.
Era steso supino nel suo letto: riconosceva il comodino, l’abat-jour presa all’Ikea, il cuscino che odorava di Vernel.
Arrivarono i suoni: gli strazianti singhiozzi che l’avevano seguito e perseguitato in quello sprazzo di sogno.
Solo che non era un sogno, vero?
L’Abusivo c’era davvero, era sempre stato con lui, per diciotto mesi, presente e invisibile. Il suo nome era un incomprensibile K e l’aveva letto così tante volte, su quelle relazioni: K del Pancreas.
Quello che non ti aspetti.
Piccolo figlio di puttana inesorabile, arrivato dal nulla e cresciuto dentro di lui, come il regalo funesto di un Babbo Natale demoniaco.
Emersero le ultime parole che K gli aveva sussurrato in sogno.
Sai una cosa? Si dice che quando arrivo io, uccido tutti, anche se alla fine…
Dino guardò i volti cerei, devastati dalla sofferenza di Rita e di Carlo, la rappresentazione del vuoto emotivo .
«…anche se alla fine ne muore solo uno.»
Rita udì il suo sussurro ed esplose in una serie di singhiozzi. Carlo strinse gli occhi.
«Solo uno.» ripetè Dino.
Rita gli strinse la mano e appoggiò la testa sulle coperte.
«Io.»