
Faccio aderire la schiena sudata alle pietre fresche del tunnel. Con la maglietta appallottolata asciugo il sudore che cola trai seni nudi. Jon mi guarda, avido, seduto su una radice a pochi metri da me. Se non avessimo già fatto l’amore, penserei che mi sta per saltare addosso. Sorrido “Sono 10 ore che è crollato, pensi che arriveranno presto?” Fa spallucce, i pettorali che luccicano nella luce bianca delle torce. “Siamo troppo in profondità, devono scavare a mano. E i pompieri devono arrivare da Phnom Penh. Qui ad Angkor non sono attrezzati.” Mi strizza l’occhio “Ci vorrà tempo, ma la compagnia non mi dispiace”.
Si alza e avvicina il collo della borraccia a un rivoletto che scende dalle pareti. “L’acqua non manca e le provviste ci dureranno qualche giorno. E queste bellezze” indica le due grosse torce “possono durare una settimana”. È una conversazione che abbiamo già avuto varie volte, nelle prime ore dopo il crollo. Ma credo che ripeterla lo rassicuri. A me, la paura di morire, aveva fatto venire voglia di sesso. O sarà che per il caldo ci eravamo tolti i vestiti? O che era dall’inizio degli scavi che flirtavamo senza arrivare al dunque…
Lo osservo mentre torna sulla radice. “Quella lì non dovrebbe esserci” gli dico, indicando. Alza la borraccia “Questa?” Rido. “Ma no, scemo, quella radice. Siamo troppo in profondità.” Da una pacca alla radice massiccia incastonata tra le pietre squadrate del tunnel. “Angkor Wat è famosa per gli alberi che invadono i templi. Se lo hanno fatto sopra, perché non sotto?” Adesso sono io che alzo le spalle, “Perché nessuna radice dovrebbe arrivare così in basso, è botanica di base!” Alzo subito le mani “Scusa, sono i nervi.” Con un sorriso sghembo, mi prende in giro: “Alessia Bertoni, archeologa, botanica e femme fatale. Non fatela arrabbiare!” Da vera donna fatale mi alzo, mi avvicino e lo bacio. E rifacciamo l’amore.
Qualche ora dopo mi sveglio e lo trovo chino a osservare la parete. Ancora nessun segno dei soccorsi. “Che fai?” Lui mi guarda eccitato, ma questa volta il sesso non c’entra. “Queste pietre, sono diverse. Più piccole. Forse più recenti. Questo muro è stato aggiunto dopo.” Presto concludiamo che c’è un passaggio dall’altra parte. Forse un’altra via per la superficie? Ci vuole tempo, ma con i nostri attrezzi riusciamo a forare il muro, abbastanza per passare. Una folata d’aria ci colpisce in viso, porta con se l’odore di terra, alberi e acqua. Sollevo la torcia con le farfalle nella pancia e rimango senza fiato. Una spirale di scalini di pietra. Che scendono. E scendono. Il fascio di luce non può seguirli fino al fondo, bloccato delle enormi radici che, al centro della grande scala a chiocciola, si gettano verso le profondità.
“Non possiamo scendere, dobbiamo aspettare i soccorsi” il cuore mi batte all’impazzata. Jon si lecca le labbra, “Potrebbe essere la scoperta del secolo, sembrano anteriori ad Angkor Wat”. Non è sicuro, né prudente, è una pazzia. Ma abbiamo già fatto una cinquantina di scalini senza rendercene conto. Lasciamo ogni pretesa di prudenza e continuiamo a scendere. E scendere. E scendere.
Ad un certo punto, diventa evidente, “Le radici” sussulto “non hanno invaso le scale. Le scale sono state costruite intorno a loro”. Jon alza un sopracciglio “Ma no dai, non è possibile”. Eppure adesso che l’ho detto, so che lo vede anche lui. Ci scambiamo uno sguardo a occhi sgranati. Scendiamo ancora. E ancora. Mi sembra di sentire un mormorio. Comincio a dubitare della mia lucidità. Il caldo e la stanchezza mi stanno giocano brutti scherzi? O forse è un fiume sotterraneo? Jon si blocca e mi guarda… spaventato? “Alessia” deglutisce “quel muro che abbiamo abbattuto. Se fosse stato lì per bloccare la salita, e non la discesa? ” Sento un brivido freddo corrermi lungo la schiena e i peli delle braccia che si alzano. Punto la torcia verso il basso. Lì, in fondo, al limite del fascio di luce, c’è il suolo in cui affondano le radici. E due occhi che ci guardano.