Spettacolo di chiusura

Gli stivali magnetizzati risuonano goffi sulla passerella.
Sopra la mia testa un gigante gassoso brilla di un indaco tenue. Sotto ai miei piedi una dozzina di astrocaccia giocano a guardie e ladri per il divertimento del pubblico interplanetario.
Una parete stagna si spalanca e mi lascia entrare nell’arena. Balzo di sotto, sulla superficie di erba sintetica. La discesa a questa gravità è lenta come quella di una foglia stanca che si lascia cadere da un ramo.
Il megalodonte nel suo corpo robotico pieno di ingranaggi si porta il microfono alla bocca.
«Ed ecco che fa il suo ingresso il nostro beniamino! Fategli un giga applauso, bella gente. Direttamente dal pianeta terra: Haricot!»
Le grida della folla mi bucano i timpani. Abbasso l’audio delle cuffie al minimo e mi concentro sul suono del respiro. Centinaia di mosquitocam mi inquadrano e svolazzano intorno alla mia testa come uno sciame di insetti. Dall’altra parte, gli spettatori si godono la diretta, sgranocchiando chissà quale merdosa fonte di sostentamento.
Scuoto la testa, ma mantengo il sorriso saldo sulle labbra. Apro le braccia e faccio una piroetta. L’ovazione aumenta di volume, schiamazzi e suoni di lingue incomprensibili. Mi adorano, almeno quanto io li odio. Ma questa è l’ultima volta, il mio spettacolo di chiusura.
Uno schermo grande poco più della mia testa mi fluttua davanti al casco. Sharky mi sbeffeggia coi suoi occhi di pece e un sorriso spropositato quanto la sua mascella. «Che numero tirerà fuori dai capelli il nostro impareggiabile umano? Una poesia? O forse una canzone?»
Dal cappello. Cazzo, si dice dal cappello, non è così difficile da imparare. Ma a Sharky piace sfottermi, deve vendicarsi per il soprannome che gli ho affibbiato e con cui ora è famoso in tutto il sistema solare.
«Beh, Sharky, questa sera voglio strabiliare i nostri amici spettatori.» Ammicco verso le mosquitocam. «Vi lascerò senza parole!»
Il brusio cresce d’intensità e anche con il volume al minimo si fa assordante.
Mi avvicino al palco, ingombro di strumenti musicali, leggii e mille altre cianfrusaglie che ho usato per sollazzarli giorno dopo giorno, negli ultimi cinquant’anni.
Salgo i gradini e passo le dita sul cuoio del pallone da calcio appoggiato nello scatolone. Quanti palleggi ho fatto quella volta? Un’infinità, fino a quando il numero luminoso degli spettatori sopra le nostre teste non ha raggiunto il miliardo. Solo allora ho potuto riposare. Pentole e padelle per le dimostrazioni di cucina mostrano ancora qualche macchia di cibo vero, non della poltiglia multivitaminica che mi rifilano due volte al giorno. Supero la Gibson e accarezzo il manico, i pochi accordi che conosco mi sono valsi applausi a profusione.
Trascino uno sgabello al centro del palco. Ho tutti gli occhi delle mosquitocam puntati addosso, il silenzio dell’attesa per il mio spettacolo è assoluto.
Mi siedo e prendo un respiro, lento e profondo.
Un altro. E lo trattengo.
Sgancio i fermi che bloccano il casco pressurizzato e l’ossigeno si disperde in fretta.
Il freddo mi punge orecchie e naso.
Alzo gli occhi al contatore degli spettatori. Il numero luminoso raddoppia, triplica.
Dodici cifre.
La voce corre, il potere del passaparola mediatico. Questa è un’esibizione unica, che non si ripeterà mai più.
Tredici cifre, quattordici, quindici addirittura! È incredibile. Non pensavo avrei raggiunto una cifra così assurda. Non saprei nemmeno più leggerlo, un numero del genere, è talmente incomprensibile che mi viene da credere che l’interno sistema solare stia assistendo alla mia morte.
Beh, è un bel modo di andarsene, in grande stile.
Oggi morirà l’ultimo essere umano e cosa ne sarà della nostra cultura? Di tutte le migliaia di anni che abbiamo vissuto? Di quello che abbiamo scoperto, della nostra arte tramandata di generazione in generazione?
Non saremo più nulla.
Una folata di vento nell’eternità, un cristallo di sale disciolto nell’oceano.
Solo un ricordo, di tutto quello che siamo stati e che avremmo potuto essere.