Tagliare le radici

«Scala di donfe.» L’orco grigio posò le sue quattro carte da gioco sul tavolo: una bambina, una fanciulla, una madre e una vecchia. Un lungo sorriso gli scoprì gli incisivi.
La creatura mezza anfibia che lo stava sfidando, Padris Squamadorata, gettò le sue. Una rimbalzò e finì per terra. «Hai imbrogliato! Figlio di una-»
«No!» Sua moglie, Anuva, sporse una mano verde verso di lui. «Niente brutte parole. Ci sono i bambini.» Abbassò lo sguardo e si accarezzò il ventre appena accennato sotto al vestito a fiori.
«No imbrogli. Io sofo fortunafo.» L’orco tirò verso di sé il suo premio di gemme preziose e se le infilò nelle tasche delle braghe.
«Certo…» Padris incrociò le braccia esili. Le guance gli erano diventate rosse di rabbia. «E io sono il re degli abissi!»
L’orco ridacchiò. «E dofe nasconfi corona?»
La moglie roteò lo sguardo verso le travi del soffitto. «Se ogni tanto mi ascoltassi…»
«Non ti ci mettere anche tu! Potevo vincere! Se non fosse stato per-»
«Ah! Per favore. La rabbia non fa bene ai bambini.»
«Guarda che non possono sentirci.»
«Tu che ne sai?»
«Non avranno ancora le orecchie!» Padris chiuse gli occhi. Non voleva vedere l’ultima delle sue gemme sparire tra le mani tozze di chi lo aveva appena derubato.
«Arrifederfi, amici.» L’orco sputacchiò un po’ di saliva sul legno e si alzò. Uscì dalla taverna con il bottino che tintinnava. Nessuno dei tagliagole lo seguì. Aveva un accento da scemo, ma era grosso e questo bastava a intimorirli.
Padris nascose il muso da pesce tra le mani e pianse per la rabbia. Sotto la sua sedia si formò una piccola pozzanghera dorata, che sarebbe sembrato piscio, se non fosse stato per lo sbrilluccichio.
Sua moglie gli allungò un fazzoletto, ma lui le scansò il braccio. «Non rendermi ancora più ridicolo! Io non sono uno dei tuoi bambini.»
«Dovrei aiutarti, anche nella cattiva sorte… Non ricordi?»
«Sei tu che mi porti la cattiva sorte!»
Anuva arricciò le labbra. «Lo pensi davvero?»
«Certo, cretina. Avrei dovuto lasciarti in quel buco di culo dove ti ho trovata.»
Le altre creature nella taverna risero.
Il padrone, un troll a due teste, gli lanciò uno straccio per pulire il pavimento. «Squamadorata! Asciuga le tue lacrime da perdente e pulisci anche per terra, già che ci sei.»
Tutti erano abituati a quella scenetta, era facile batterlo a carte, ma vederlo insultare la moglie era uno spettacolo diverso.
«Avrei dovuto evitare che perdessi le nostre ultime gemme…»
«Taci!» Padris scansò quelle parole con la mano. Si nascose la bocca e parlò più piano, «Non vorrai mica far sapere a tutti che siamo due pesci poveri e idioti?»
Anuva si alzò. Strinse i pugni. Respirò a fondo per darsi un contegno e uscì nell’aria fresca della notte. I grilli frinivano ma almeno non somigliano alle risate di chi l’aveva sbeffeggiata.
Camminò svelta, con i piedi palmati che sciaguattavano sui ciottoli e raggiunse la discarica sul lago. L’acqua sembrava brodo e bolliva anche con il buio, spandendo un tanfo di uova marce.
Si sedette su un masso, in mezzo a vecchi rottami arrugginiti, e si accarezzò di nuovo la pancia. «Non preoccupatevi, faremo pace, quando a vostro padre passerà… Facciamo sempre pace.» La voce le si incrinò, ma non voleva piangere. «Non mangeremo di nuovo per un po’, ma vostro padre ruberà altre gemme.» Si bloccò. Un tentacolo sbucò tra i canneti e agganciò la lunga zampa di un trampoliere. Lo tirò nel lago. Il grido dell’uccello venne soffocato dall’acqua.
Anuva sospirò. Aprì entrambi i palmi della mani, come a proteggere i suoi bambini. «Vedete questa sarà la vostra futura casa. Queste sono le vostre radici… È un po’ brutto, forse vi abituerete.» Mosse le dita come a fare il solletico a piccoli piedini invisibili. «Queste radici affondano per bene nello schifo e nella melma. Ma non mi arrabbierò se vorrete andarvene via, un giorno.» Fissò la sua tana sulla riva. Un sorriso amaro le distese le labbra. «A volte, anche le radici vanno tagliate. Soprattutto quando non vi nutrono più con amore.»