Un mare senza fondo

Può una gravidanza cambiare il corso della tua vita? Dal Laboratorio, un racconto di Alessandra Corrà.

 
Ci avevo provato molto volte, ma arrivata davanti il cancello dell’ambulatorio tornavo sempre indietro. Non ce la facevo a entrare. Era tutto talmente inconcepibile. Quindi non mi rimaneva che affrontare la mamma.
Quel pomeriggio era a casa, si stava aggiustando i capelli davanti allo specchio. Tra poco avrebbe dovuto recarsi al lavoro.
«Mamma, aspetto un bambino» dissi alle sue spalle, senza preavviso, con il cuore in gola.
Lei rimase immobile, come spaesata, con le forcine sospese tra i capelli.
Fece poi un gesto con la mano, come per scacciare una mosca.
«Ma certo. E chi sarebbe il padre, sentiamo?»
Non mi credeva, era evidente. Io intanto, avevo iniziato a tremare.
«Nessuno. Questo bambino è solo mio.»
Arrossendo mi toccai la pancia e il lieve gonfiore mi diede forza per proseguire.
«Non sto scherzando, mamma. Sto dicendo la verità. Te lo giuro.»
Lei, come se si fosse svegliata da uno strano sogno, mi guardò per qualche minuto con gran attenzione. Poi, nervosa, chiamò in ufficio per dire che quel giorno non sarebbe andata. Dopodiché, sedendosi accanto a me, cominciò a parlarmi con serietà. Dapprima cercando di scoprire chi fosse il padre, per poi chiedermi com’era potuto succedere una cosa del genere, visto che io uscivo così poco da casa, se non per andare a scuola. Io continuai a non darle le risposte che voleva, ma come prova della mia buona fede le mostrai il risultato del test fatto quella mattina. Davanti la mia ostilità perse la pazienza e mi diede un paio di schiaffi. Per lei ero sempre stata una “figlia impossibile”, con la mia depressione e stranezze varie, non ero che un grattacapo. Non ne poteva più di me. Continuò quella litania dicendo altre cose poco gradevoli.
Poi, esausta, decise di uscire, aveva bisogno di riflettere da sola, fare qualcosa per scaricare la rabbia.
Quando uscì mi sedetti alla scrivania della mia camera. Il volto mi bruciava e le lacrime mi graffiavano i lividi sulla pelle.
Era solo questione di tempo, mi dicevo per consolarmi, tra pochi anni sarei diventata maggiorenne, e allora… Ma come avrei fatto a sopportare ancora quell’inferno? Non ne ce la facevo più. Mi sentivo smarrita, impotente. E non c’era nessuno con cui parlare, che potesse comprendere…
Avessi avuto più coraggio avrei aperto i vetri della finestra, in un attimo tutto avrebbe potuto finire.
Proprio allora lui si mosse dentro me. Era la prima volta, e sembrava dirmi che non ero sola, c’era lui. Se fosse nato, forse… Quell’idea non mi era mai passata per la testa, troppo assurda e illogica; eppure, se il confine che divide il bene dal male a volte è così poco percepibile: perché no?
 
Quando mio padre rincasò era ormai sera.
Come previsto, me lo trovai di fronte, occhi negli occhi:
«So tutto.»
Aveva una gran personalità, era un uomo brillante e colto, piaceva a tutti. Impossibile non esserne conquistati. Mia madre, nonostante i molti anni passati insieme, ancora stravedeva per lui.
Lo fissai turbata, sebbene fiduciosa.
«Lo immaginavo.»
Mi posò la mano su una guancia segnata dai colpi
«Hai male? Non aver paura, non lascerò che ti picchi ancora.»
«Sai, ci ho pensato tutt’oggi, per quanto so che la cosa sarebbe assurda, vorrei tenere il bambino. Vero che sei dalla mia parte e mi aiuterai?»
Come risposta mi diede uno spintone, facendomi cadere sul letto.
«E’ divertente con te. Sempre tenera, proprio come un gattino.»
Mi alzò poi bruscamente la gonna e, come tutte le altre volte, mi strappò via le mutandine, salendo sopra di me.
«Riguardo quanto mi hai chiesto, nostro figlio non potrà mai nascere.»
Chiudevo sempre gli occhi in quei momenti, ma quella volta reclinando la testa, giù dall’altra sponda del letto, guardai l’orizzonte nella finestra alle mie spalle. Quella sera la luna si era alzata, splendente, e il cielo era come un mare senza fondo.