Vieni con me

La mia tuta protettiva disattiva lo stato di animazione sospesa, mi sveglio immerso a otto metri di profondità nella terra fredda di un bosco di Tarvisio.
Ho insistito per condurre l’esperimento vicino a casa mia: con la mia terra sento un certo legame che non so spiegare e se devo essere io a mettere piede nell’ignoto per primo, allora voglio farlo qui.
La tuta proietta dati direttamente sulla mia retina attraverso le palpebre chiuse: una spia indica un piccolo guasto nel sistema di sintesi dell’aria: non importa, l’esperimento deve andare avanti, riesco a respirare senza difficoltà quindi non ha senso interrompere.
Nel lasso di tempo in cui sono rimasto sepolto e addormentato, l’albero mi ha circondato con sottilissime radici simili a terminazioni nervose venute a esplorare il nuovo arrivato. La rete micotica che collega il sottosuolo come una rete di cavi elettrici funge da trasmettitore di segnali chimici, e i sensori della mia tuta li captano con efficienza permettendomi di calibrare il traduttore.
Non devo fare altro che iniziare la conversazione.
Il cuore mi batte forte, sono il primo umano a mettersi in contatto con una razza di viventi che non nessuno immaginava essere autocosciente. Formulo il messaggio. «C’è qualcuno?» Il traduttore invia una serie di ioni minerali alle radici che mi circondano. Ci vuole tempo: i messaggi chimici sono più lenti di quelli dei tessuti nervosi animali.
Sulla mia retina si disegna la risposta: «Ti salutiamo, Andrea.»
Smetto di respirare e sento il sudore correre a rivoli sotto la tuta. «Conosci il mio nome?»
«Lui sa chi sei.»
Stringo con la mano una zolla di terra e mi agito un poco, ma il terreno mi stringe nella sua morsa e mi impedisce di muovermi. «Chi è lui?»
La risposta non tarda ad arrivare. «Lui è Timmy.»
Timmy. Non è questo il nome del gatto che avevo sepolto non troppo lontano quando ero ragazzo? Avevo pianto per lui, mentre infilavo il suo corpo morto in una buca ai piedi di una farnia.
Come sa del mio gatto? Anche se l’albero deve per forza essere in contatto, tramite rete micotica, con gli altri alberi della zona, il modo con cui questi abbiano appreso l’identità di Timmy è inspiegabile. «Come sei entrato in contatto con lui?»
«Guarda pure.»
Una spia luminosa della tuta mi fa intendere che i sensori stanno entrando in sovraccarico, alcune immagini compaiono da sole da “dietro” i miei occhi come a volte succede prima di addormentarsi.
Vedo Timmy che corre verso di me con la coda pelosa e morbida ritta all’insù, gli occhi vispi e intelligenti vogliono dirmi qualcosa.
Il mio cuore sussulta, lascio che le lacrime sgorghino da sotto le palpebre.
Il gatto si volta, raggiunge una poltrona e salta per atterrare con grazia sulle ginocchia di un uomo seduto.
Non riesco a respirare, la terra mi comprime il torace, il rumore di un allarme della tuta mi segnala che sto consumando troppo ossigeno.
Quello sulla sedia è mio nonno, le sue labbra si muovono come al rallentatore: «Abbiamo parlato con lui. Il suo cervello era morto, ma siamo comunque entrati in contatto.» Sorride sereno. «Così abbiamo anche conosciuto tuo nonno quando è stato sepolto nella nuda terra al cimitero di Tarvisio: ci ha parlato di te, di quanto fossi un bravo ragazzo, uno che studiava e che sarebbe diventato uno scienziato.»
Quando è morto ero a scuola, non mi sono mai perdonato di non essere stato al suo fianco per dirgli addio. Sapere che non ce l’ha con me mi riempie di gioia ma anche di tristezza: vorrei parlargli, sentire la sua presenza.
Al primo allarme se ne aggiungono altri, la tuta non riesce più a sintetizzare ossigeno e sta andando in avaria.
«Noi siamo Timmy, siamo tuo nonno, siamo i tuoi parenti defunti.» Il gatto dirige i suoi occhi verdi su di me, il nonno sospira e allunga la mano. «Siamo venuti per dirti di non aver paura.»
La tuta ormai ha smesso di funzionare, una spia intermittente si spegne insieme ai battiti del mio cuore.
Con gli occhi pieni di lacrime, afferro la mano del nonno e lascio che mi guidi.