Halloween vs Halloween
Fu un film girato e prodotto con i MINUTI CONTATI, ora è un’icona che si è marchiata indelebilmente nella nostra cultura. L’originale vs il suo remake in questo articolo di Eugene Fitzherbert.
Il capostipite di un genere a confronto con il suo remake
Ben 40 anni fa, un regista visionario e squattrinato incontra una sceneggiatrice e sua futura moglie. Dal connubio dei due nasce l’idea di creare un horror nuovo, ispirato ad atmosfere alla Psycho, con rimandi a Dario Argento e sfruttando un budget irrisorio…
Sono John Carpenter e Debra Hill a firmare Halloween, un film che sarebbe diventato un cult immortale, capostipite del genere degli slasher e che avrebbe fatto conoscere al mondo la figura di Michael Myers.
Trent’anni dopo, Rob Zombie, un regista e compositore americano, che con quel film ci ha passato infanzia e adolescenza, decide a sua volta di farne un remake che è più di un remake. Lo stesso Carpenter gli dà la benedizione: ‘Va e fai il tuo film, Rob!’.
E così, oggi ci ritroviamo qui su queste pagine a vedere cosa ne è stato delle due pellicole, quanto pesano in valore assoluto e cosa hanno di così tanto diverso nonostante siano dei remake.
1978 vs 2008
I due film sono ambientati nel loro rispettivo presente, in un arco narrativo che ricopre circa 15 anni, che vanno dalla fanciullezza all’età adulta di Michael Myers, l’assassino senza coscienza.
Non stiamo dicendo questo solo per sottolineare che uno è ambientato negli anni Settanta e l’altro a metà degli anni 90, sarebbe pleonastico e ridondante, scritto quasi per riempire un paragrafo… Vogliamo sottolineare che i due film si sono rivolti a due audience differenti, quella dei nostri genitori e la nostra (per vederla in questa prospettiva), con problemi e soluzioni differenti.
Il pubblico è fondamentale quando si realizzano questi lungometraggi. Nel bel mezzo del 1978, Halloween è arrivato come una meteora fiammeggiante a distruggere completamente le coscienze e le menti di tantissimi telespettatori, che si sono trovati sopraffatti da una storia semplicissima, lineare, quasi esile, e allo stesso tempo potente come solo certi racconti attorno al fuoco possono essere. La potenza di quella storia stava tutta nel fatto che era la PRIMA VOLTA a essere raccontata in quei termini. Halloween era il primo slasher (la polemica è ancora aperta, ma per adesso è storicamente considerato tale) della storia: chiunque si sia trovato di fronte a questa pellicola al cinema ne è rimasto quasi shockato, tanto da far diventare il successo milionario, ma parliamo di milioni di 30 anni fa, che ora varrebbero molto di più.
Nel 2008, il discorso è leggermente diverso: abbiamo visto passare sotto i ponti decine se non centinaia di slasher, cucinati in tutte le salse e serviti su ogni tipo di piatto. Abbiamo visto sangue, armi non convenzionali, armi da taglio, ferite e mutilazioni in gran numero. In poche parole, lo slasher per noi non è roba nuova, anzi, diciamolo: sotto certi aspetti, questo genere di film ha un po’ rotto i cosiddetti… Il compito di Rob Zombie quindi è molto molto complicato già solo sotto il profilo narrativo. Come vedremo più avanti, però, il nuovo regista e sceneggiatore ha una bella intuizione che risolleva il film per renderlo più appetibile al pubblico odierno: non si dirige nel campo inflazionato degli slasher, ma cerca di dare un taglio più autoriale e intimista al film, trasformandolo nel film di Michael Myers. Il risultato non è stato lo shock dell’originale, ma sicuramente la pellicola è tutt’ora godibile sotto molti aspetti e con momenti davvero eccezionali.
Andiamo ancora un po’ oltre. Il film di Carpenter è stato girato in poche settimane con una quantità irrisoria di denaro, con attori per lo più esordienti, tra cui la brava Jamie Lee Curtis. I mezzi a disposizione della troupe e degli attori erano quasi inesistenti, con effetti speciali ridotti all’osso ed effetti di scena raffazzonati e improvvisati. Persino i costumi erano appannaggio degli attori che andavano a comprarli di loro tasca da un negozio vicino. E nonostante tutto, il film non appare dilettantesco. Anzi, al di là di tutte queste difficoltà , la pellicola è carica di una identità precisa, fatta di un miscuglio di storia del cinema e citazioni, perfetta conoscenza della macchina da presa e tanta sagacia da parte del regista che riesce a essere misurato e contestualmente a infondere dinamica alle scene più difficili.
Rob Zombie quindi si trova a confrontarsi con un maestro indiscusso che già alla sua seconda fatica inventa un genere. Il compito non è certo facile, nonostante, in questo caso, la produzione mette sul tavolo un buon numero di dollari fruscianti. Il buon Zombie però non si lascia intimidire e riesce a cavarsela egregiamente, intessendo una serie di situazioni ben collegate, pensate per costruire la visione che il regista ha di questo film. Per fortuna, Zombie non fa il verso a Carpenter, nel rischio di ridicolizzarsi, ma fa delle abili citazioni registiche e sonore, ripropone delle inquadrature, simili, ma allo stesso tempo diverse per il timing e i movimenti, con il gusto soddisfatto dell’allievo che fa vedere che ha capito la lezione del maestro.
Un’altra caratteristica che balza agli occhi fin dalla prima visione è che i due film interpretano la violenza in maniera diversa.
Nel 1978, Myers uccide sostanzialmente poche persone, cinque in totale, e lo fa in maniera sì efferata ma non così esplicita. Carpenter si tiene a distanza dal gore più sanguinario, cerca la soluzione elegante, quella morbosa, non quella fastidiosa (per lo spettatore). È interessante la tecnica della soggettiva usata nel primo omicidio, dove vediamo in diretta la morta della sorella, in un omaggio a Psycho. Inoltre, insieme alle urla della vittima, sentiamo il respiro affannato ed eccitato del bambino che si trasforma in assassino, respiro che sarà poi un marchio di fabbrica di tutte le apparizioni di Mike. La cosa interessante è come spesso Carpenter abbia deciso di filmare l’omicida che osserva la sua vittima dopo averla uccisa, come una sorta di artista che contempla la sua opera d’arte o come qualcuno che non riesce a capire del tutto cosa stia succedendo. Talvolta queste sequenze morbose durano anche diverse secondi e servono solo a far entrare nello spettatore ancora di più l’idea della malvagità totale che anima Myers.
Rob Zombie, nella sua visione granguignolesca del cinema horror, decide che è venuto il momento di mettere in piedi uno spettacolo niente male, e arriva a far uccidere a Myers ben 15 persone. La carneficina è sempre efferata, con un grande dispiego di sangue e fantasia macabra, con tanto di telecamera che indugia su ferite e agonie. Da questo punto di vista, nella versione moderna del film ci troviamo di fronte a un vero e proprio bagno di sangue, che ha la capacità di trascinarci in un incubo disperato in cui nessuno si salva.
L’utilità di questo eccidio è subordinata alla crescita del personaggio Michael Myers, che non si esprime in nessun modo se non nei gesti e nelle opere, quelle di sangue appunto. Man mano che il suo killing rampage evolve e diventa sempre più crudele e forsennato, capiamo che si trova all’apice della sua ricerca, che ha trovato la sua strada e la vuole percorrere fino alla fine.

Michael Myers vs Michael Myers
Se davvero dovessimo cercare e trovare il punto in cui i due film si discostano di più l’uno dall’altro, allora quel punto è racchiuso nella torreggiante figura di Michael, nella descrizione della Nemesi e nella sua costruzione pezzo per pezzo.
Dal punto di vista contenutistico, i due film sono speculari: un ragazzo psicopatico fa una strage a casa sua e dopo 15 anni di manicomio criminale, torna a casa e continua a fare la strage. Ecco in pochissime parole questo è il riassuntino di Halloween. Solo che come ben sappiamo il diavolo si annida nei dettagli. E i due film di dettagli ne mettono tanti, alcuni diretti e immediati e altri sottintesi e da ricercare.
La costruzione della vicenda, nella versione originale è estremamente semplice, tanto da sembrare quasi puerile. Il motore sotterraneo che muove tutto è la follia omicida che anima ogni singola azione di Myers. Una dopo l’altra, le sue vittime cadono sotto i suoi colpi solo perché si trovano lì, solo perché quella notte di Halloween hanno incontrato il loro destino vestito di una maschera e armato di coltello. Questa visione di Carpenter ci fa paragonare gli avvenimenti a un carnevale di sangue in cui siamo tutti vittime, e da cui non possiamo scappare, in una perfetta visione nichilista e pessimista della società. Il fatto che Michael Myers non dica una parola, NESSUNA, lo rende ancora più imperscrutabile, ancora più ineluttabile, come un oggetto caricato a morte, capace solo di fare una cosa: uccidere. Non si può discutere con lui, non si può patteggiare, non si può rimandare: si può solo subire.
Questa messinscena di Carpenter è poi suffragata da come l’aspetto di Mike viene ‘creato’ durante il film. Ogni singolo tassello che renderà indimenticabile questo serial killer è frutto di un incontro fortuito o casuale: la tuta da meccanico viene da un incontro lungo la superstrada dopo essere fuggito dal manicomio, il suo coltello da cucina è preso da una casa delle vittime e per ultima la sua iconica maschera è frutto di una rapina a un negozio di cianfrusaglie. Addirittura anche il giorno degli omicidi, Halloween, è solo il macabro scherzo di un destino ingrato!
Gli stessi personaggi comprimari, dalle vittime alla stessa protagonista Jamie Lee Curtis sono un po’ tratteggiate con la punta grossa, per così dire. Lo stesso psichiatra che gioca un ruolo apparentemente importante è trattato come un oggetto di sfondo che compare e si muove in giro per le scene come se stesse seguendo una storia tutta sua. Quel che veramente è la sola preoccupazione del regista e degli sceneggiatore è quella di rincorrere la follia in ogni momento, di far vedere Michael Myers che compare e stalkera le sue vittime, che è sempre presente nella cittadina di Haddonfield, che è lui l’unico vero indiscusso protagonista muto di questa storia…
Come potete immaginare, tutto questo farebbe inorridire qualunque maestro di sceneggiatura: dove si trova il conflitto, la motivazione, il background?
Carpenter non ha bisogno di tutto questo, a quanto pare, se non un laconico e inequivocabile: è pazzo, lui uccide, non rompete i coglioni. E l’ha sempre ribadito, nonostante le decine di commenti al suo film, gli studi che ci sono stati dietro, gli interventi di menti eccelse e le parole di persone colte: il suo era solo un film su un maniaco omicida. Punto. E questo mentre le femministe si accapigliano per decidersi se i personaggi femminili fossero positivi o negativi, se fossero deboli o forti, quando in realtà, secondo la prospettiva nichilista del film stesso, erano solo ‘sfortunate’…
Di fronte a questo, Rob Zombie cerca di ribaltare la prospettiva, di prendere una direzione inaspettata, cerca di dare al suo film quello che mancava a quello di Carpenter. L’idea principale del remake di Halloween è quella di fare un film su Michael Myers.
E quindi la telecamera indugia su questo personaggio oscuro, e nello stesso tempo i fatti narrati su di lui diventano parte prominente nel fim. Rob Zombie prende Myers, lo svuota di tutto quello che non era e lo trasforma nel prototipo di maniaco omicida. Prima di tutto gli regala una famiglia orribile, tanto che i primi dieci minuti del film sono quasi disgustosi, in un susseguirsi di insulti, sfottò, parolacce e minacce, da far quasi sperare che prima o poi qualcuno li faccia fuori tutti, i suoi famigliari di merda! Oltre al background familiare, Mike finalmente vince la sua ossessione per Halloween e mostra la sua totale mancanza di empatia, si rivela fin da bambino per quell’insensibile figlio di puttana che sarebbe stato da grande. Inoltre, nella lunga digressione sull’infanzia e adolescenza del piccolo Michael Myers, compaiono come due fedeli compagni: la sua maschera inespressiva e il coltello da cucina, armi con cui compirà la prima strage, proprio il giorno di Halloween.
Le maschere, nel film di Rob Zombie, sembrano dover avere un ruolo importantissimo, soprattutto per definire la psiche disturbata del piccolo assassino: ne indossa sempre una, sempre diversa, come se non riuscisse a trovare quella giusta per lui, come se gli mancasse quella che veramente gli appartiene. Questo è un aspetto interessante che è lasciato un po’ in sospeso: il significato delle maschere, sia per il protagonista che in senso generale, non è ben architettato tanto che non si capisce se sono davvero un modo che ha Mike per nascondersi dal mondo circostante che lo odia, o se invece sono lo specchio distorto della sua mente malata, che lo spinge a rivestire il suo volto con un vestito di morte solo per poterne dispensare altra. Sicuramente l’ossessione per queste vestigia è radicata nel piccolo Mike, tanto che la sua stanza nel manicomio criminale ne è ricoperta da una parete all’altra, ma solo una è quella che gli appartiene veramente, quella che andrà a cercare in attesa di ricominciare i nuovi omicidi…
Un’altra cosa che Rob Zombie ha aggiunto all’epopea di Myers è la MOTIVAZIONE, rendendola anche abbastanza ambigua da poter essere interpretata in diversi modi. Giocando con i fatti della sua infanzia, Rob ha inserito il personaggio di una sorella neonata, l’unica a salvarsi insieme alla madre dall’eccidio perpetrato da Mike bambino.
Il suo ritorno nella città natale, si trasforma quindi in una ricerca di sua sorella, guidato da una vecchia fotografia che li ritrae insieme, lei in fasce e lui appena un moccioso. Nel breve incontro sembra che le intenzioni di Mike siano quasi buone (visto che si è lasciato dietro una scia di oltre 10 cadaveri), ma è la sorella a dare il colpo di grazia alla sua autostima, rifiutandolo e completando la trasformazione in uno psicotico omicida senza redenzione.
Rob Zombie ha quindi creato un serial killer secondo i canoni del ventunesimo secolo, infarcito di psichiatria da salotto, con una mente malata che si esprime in maniera allegorica, con un’ossessione che mista alla mancanza di empatia crea una perfetta macchina di morte, da cui nessuno è al sicuro, animali o umani che siano.
Il mike Myers di Carpenter è invece l’incarnazione del male, una creatura di pura malvagità che non ha bisogno di nessuna spiegazione se non la sua stessa esistenza. Non c’è un perché, è come se le azioni di Myers fossero ormai scritte nel suo stesso DNA che non si porta niente di umano. Come si dice alla fine stessa del film: It was the boogeyman… As a matter of fact, it was…
Potremmo dire che con la sua versione di Michael Myers, Rob Zombie ha creato un MOSTRO.
D’altronde Carpenter, dal canto suo, ha inventato un MITO.
E scusate se è poco…