Le Mura del Mille

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi sono quattro:
1) I partecipanti dovranno scrivere un racconto a TEMA e postarlo sul forum. Questo GAME il racconto dev'essere dedicato agli zombie.
2) Gli autori leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) I migliori di ogni girone approderanno alla finale.
4) Il vincitore verrà pubblicato nell'antologia curata da Anna Pullia e Francesco Nucera, edita da Gainsworth Publishing.
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Andrea Furlan
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Le Mura del Mille

Messaggio#1 » domenica 2 febbraio 2025, 21:54

Sono in piedi in mezzo alla strada ingombra di macerie. Corpi dimenticati sono sparsi a terra come giochi di un bambino distratto, coperti di mosche voraci.
Il caldo è soffocante, duro, anche all’ombra. Ho il fiato grosso per la fuga, il sudore che scende sotto le ascelle, mi bagna la maglietta strappata.
L’autobus verde arriva sobbalzando sugli ostacoli. Si ferma di fronte a me, apre la porta con un sibilo. L’autista mi guarda con un sorriso accogliente, facendo cenno di salire. Esito, chiedendomi per la centesima volta se sto facendo la cosa giusta.
Nella memoria, sento di nuovo il suo vocale.
“Sali su uno qualsiasi dei bus, ti porteranno da me.”
Papà, sto arrivando.

L’interno del mezzo è fresco, pulito. Mi ricorda la corriera che mi portava a scuola, prima che finisse tutto.
Ci sono quattro o cinque persone, sporchi e spaventati, proprio come me. Mi lanciano uno sguardo veloce, diffidente, senza accennare nessun saluto.
Non mi fido, devo stare attento. Li supero, finché non mi siedo dietro a tutti.
Dal sedile davanti una bimba piccola, forse due anni, si arrampica e mi scruta, regalandomi un sorriso enorme. Gorgheggia, mentre la madre la recupera.
«Stefi, vieni qui. Lascia stare il ragazzo.»
È sulla trentina, occhi verdi e capelli neri, scarmigliati. La sua corporatura è normale, non è magra come i Tossici. Forse era anche stata bella, prima.
«Non si preoccupi, non mi dà fastidio. Sua figlia è carina.» Con uno sforzo sorrido a entrambe. Mi sento strano a parlare così come se niente fosse, se i Tossici mi avessero preso non sarei neanche qui.
Il suo sguardo corre sul mio corpo, vede i vestiti strappati, le ferite, lo sporco. Credo che stia facendo la stessa valutazione, e deve decidere che sono come lei, perché continua a parlare.
«Sono Simona, lei è mia figlia Stefania. Andiamo in città. Dicono che c’è da mangiare.»
«Davide. Anche io vado là. Cerco mio padre, mi aspetta.»
Il bus fa un sobbalzo che non ci aspettiamo, frena all’improvviso. Stefania piagnucola, spaventata.
Siamo arrivati alla Porta.

È un battente unico di ferro arrugginito. Ai lati, le mura sono formate da auto schiacciate di tanti colori diversi, pannelli di metallo, travi di legno. I pezzi sembrano appiccicati alla meglio, ma devono essere abbastanza robuste se resistono alle cariche dei Tossici. In cima ci sono delle persone in mimetica, in mano fucili mitragliatori, pistole.
Le Mura del Mille.
Alle elementari mi avevano spiegato che le Mura erano la difesa della Bologna medievale, quando le città-stato erano gli unici posti civilizzati in mezzo a territori selvaggi, pieni di bestie feroci, banditi, malattie.
Oggi, nel 2030, è la stessa cosa. Solo che le mura di allora non ci sono quasi più, rimangono solo pochi tratti. Bisogna farle con i rottami, residui della nostra civiltà malata. Come se mille anni di scoperte e progresso fossero stati spazzati via in pochi mesi
La Porta si apre, entriamo in una strada ampia, delimitata da palazzi alti.
Dentro le cose sono ordinate, pulite. Sembra di essere tornati a prima, quando tutti erano normali, andavano a scuola e a lavorare.
Il tragitto è breve e finisce in una piazza, dominata da un edificio largo e basso, con una grande cupola.
Un ricordo mi sommerge: la mia prima partita di basket con Papà, il derby Virtus – Fortitudo. Era tutto enorme, pieno di gente, emozione a ogni canestro. Siamo al Palazzo dello sport, l’arena delle sfide di basket city. Quante storie mi ha raccontato Papà di questo posto, quando ero piccolo.
Ci fanno scendere. Dei soldati che sembrano annoiati ci scortano all’interno, dove un ragazzo poco più grande di me ci chiede la carta d’identità, ci fa compilare un modulo su un computer, poi spiega.
«Siete in quarantena, per una settimana. I sintomi si sviluppano in massimo cinque giorni: se non succede nulla siete i benvenuti nella nostra comunità. Fino ad allora vi daremo da mangiare e da dormire, laggiù ci sono gli spogliatoi e le docce. L’unica regola, tassativa, è che non potete uscire da qui.»
Veniamo scortati in quello che una volta era il campo da gioco: ci sono una cinquantina di persone sdraiati su delle brande sparse dappertutto. Molti di loro stanno usando i telefoni. C’è la rete!
Saluto Simona e Stefania con un sorriso. Le scortano a un posto lontano dal mio.
Appena mi posso sedere sulla mia branda detto subito un vocale.
“Sono nel Palazzo, Papà. Ti aspetto.”

Pochi giorni prima ero ancora in viaggio, sono arrivato in vista di Bologna.
Ho evitato le strade, passando per campi, calanchi e colline. Le strade erano troppo pericolose, meglio andare lento ma senza correre rischi.
Sono sceso per una lunga strada a curve, passando vicino a ville decorate da ampi giardini. Erano quasi tutte sventrate, porte divelte e finestre rotte. Non mi sono azzardato a entrarci per cercare cibo.
I corpi sparsi ai lati della strada erano numerosi: tutti magri, con la pelle tirata. Molti avevano la lingua viola: dovevano avere preso un’ultima dose di Purpanyl prima di andarsene.
È andato tutto bene, finché non sono arrivato davanti alla scuola.
Una folla di Tossici camminava avanti e indietro: tutti piegati a S, come se non potessero tirarsi in piedi, si spostavano senza meta entrando e uscendo dall’edificio, senza guardarsi. Magri all’inverosimile, molti feriti, ma noncuranti.
Mi sono rifugiato dietro a un’auto, impaurito. Non sapevo come passare, dovevo studiare la situazione.
Una ragazza aveva un braccio rotto, piegato all’indietro. Un bambino era in mutande, pieno di graffi e contusioni. Persone anziane si trascinavano, cadevano, poi si rialzavano a fatica e ripartivano.
Ormai avevo imparato a distinguere i vivi dai morti. I primi, i veri Tossici, più magri del normale, in caccia di carne, o forse di una nuova dose. I secondi con gli occhi infossati, i muscoli ridotti a corde coriacee sotto alla pelle spaccata. Tutti con labbra e lingua viola.
Non ne avevo mai visti così tanti, tutti insieme.
All’improvviso ho sentito un ringhio, vicino. Un ragazzo alto, la faccia spettrale: indossava una maglietta nera bucata, che lasciava intravedere una ferita grave, con il sangue rappreso. Mi è corso incontro con le braccia alzate.
Ci ho messo un po’ a reagire, sono scappato, ma mi ha afferrato un braccio. Ha fatto quel rumore di quando hanno fame e cercano la nostra carne.
Ho usato il coltello, quello corto. Uno, due, tre colpi.
Mi ha mollato solo per la forza fisica con cui l’ho tagliato, che gli ha fatto perdere la presa. Ho visto l’osso, il tendine tagliato, muscoli tirati a brandelli. Ma ha continuato a cercarmi, a rincorrermi, senza sentire alcun dolore.
Sono scappato, senza capire più nulla, certo che tutti gli altri mi avrebbero seguito.
Ho saltato una recinzione, scartato degli alberi in un giardino, poi un’altra rete, sono passato attraverso una siepe. L’unico modo per seminarli è rallentarli con gli ostacoli.
Prima di correre lungo una strada vuota, ho guardato indietro. Il ragazzo cercava senza successo di superare l’ultima inferriata, la mano ferita che non gli permetteva di arrampicarsi. Ma altri quattro o cinque stavano arrivando.
“Bologna vi aspetta. Salite sull’autobus. Vi porteremo al sicuro in cambio del vostro lavoro. Bologna vi aspetta…”
Il solito slogan dei bus verdi, in lontananza. Sono scappato in quella direzione, correndo veloce, riuscendo a seminarli.

Mi sono steso sulla branda, appisolandomi.
Nessuno mi considera e ho una stanchezza colossale. Combatto col sonno, non sono sicuro di potermi fidare.
È passato molto tempo, quando mi trovo davanti uno sconosciuto.
«Davide, sono qui.»
Giacca e pantaloni grigi, una camicia azzurra stazzonata. È grasso, con la barba lunga, quasi del tutto bianca. Ha pochissimi capelli, lunghi e disordinati. Lo riconosco solo dagli occhi, identici ai miei, e dalla voce.
«Papà. Sei davvero tu?»
Non risponde, mi abbraccia subito. Lo sento singhiozzare piano, qualcosa mi bagna la guancia.
Non so cosa fare, mi stacco quasi subito, imbarazzato. Calcolo da quanto tempo non lo vedo di persona, sostituito da una serie infinita di messaggi al telefono: almeno cinque anni, decido.
Mi guarda da cima a piedi, come se avesse scoperto qualcosa di prezioso o volesse sincerarsi che stia bene. Sento le guance avvampare.
«Avrai fame. Vorrei portarti a casa, farti fare una doccia, darti dei vestiti puliti. Ma non puoi muoverti da qui, te l’avranno spiegato.»
Un senso di sollievo. Userò questo tempo per ambientarmi, riflettere.
«Non ti preoccupare, sto bene, sono solo stanco. Posso aspettare: fuori da qui non ho nulla da fare.» Un maldestro tentativo di fare una battuta, sorrido amaro, pensando che Mamma per una volta non mi aspetta.

Era già il terzo bus che passava vicino a casa, lanciando il suo messaggio registrato: nonostante fossimo in collina, lontano da Bologna, i bus erano lo stesso frequenti. Lo guardavo nascosto dietro alle siepi del nostro giardino. Quel giorno faceva caldissimo, umido. Zaffate di putrefazione che arrivavano da chissà dove.
Era tutto pronto: avevo preparato lo zaino con cura, preso le armi che potevo recuperare, il cibo rimasto.
Mi ero girato un’ultima volta verso la nostra casa, fissando la finestra davanti, quella che usavamo per la vedetta.
«Mamma, devo proprio andare. Mi dispiace.» Un cenno di saluto.
Lacrime agli occhi, spaventato, ero uscito in strada.
La prima volta da quando era iniziata quella follia.

Giorni di sonno, noia. Un po’ di ginnastica per stare in forma. Tanti vocali di Papà.
Simona e Stefania sono già partite, le ho salutate con un po’ di dispiacere: siamo entrati in confidenza, abbiamo parlato molto e mi sono divertito a giocare con la piccola.
Ore passati a mangiare quello che mi portano, contare i nuovi arrivi e quelli che se ne vanno alla fine della quarantena. Un giorno, uno di loro si è trasformato: dormiva, poi all’improvviso ha attaccato una delle persone che ci portano da mangiare. Il Servizio d’Ordine, quelli in mimetica, gli hanno sparato sul posto.
Una settimana è stata eterna, ma ormai è finita.
Mi viene a prendere, un sorriso sulle labbra. Sembra felice.
Ripenso alla faccia della Mamma quando parlava di lui, a tutte le cose cattive che gli diceva: erano un sottofondo continuo a cui non facevo più caso. Ricordo bene solo due parole, che ripeteva spesso: bugiardo arrogante.
Ancora quella domanda: posso fidarmi? La stessa che mi sono ripetuto mille volte al giorno da quando ho lasciato Mamma.
Usciamo in un mattino pieno di sole, lo seguo a piedi su marciapiedi vuoti, spettrali. Una folata di vento mi porta una puzza nauseabonda, diversa dall’odore dolciastro dei Tossici in decomposizione. Mi ricorda l’odore che si sentiva in autostrada, quando andavamo in montagna.
Non ci fa caso e continua a camminare. Parla solo lui durante il tragitto.
«Siamo circa diecimila, ma potremmo accogliere molte più persone. Se avessimo più gente gestiremmo tutto meglio, gli allevamenti, la difesa. Per questo i bus raccolgono gente di continuo, li salviamo e loro ci aiutano. Il cibo non manca per fortuna.»
Avrei molte domande, ma preferisco ascoltare in silenzio. Capire meglio, aspettare.
Un portone di legno, sotto a un portico sporco. Saliamo le scale e apre la porta.
Facciamo un giro: è un appartamento medio, con due stanze, un soggiorno ampio con la cucina a vista. L’arredamento è scarso, essenziale, senza personalità. Alle pareti ci sono vecchi quadri scoloriti: me ne ricordo qualcuno da quando ero bambino.
In camera sua, c’è una foto appesa al muro, ricavata dalla copertina di un giornale. Un politico noto, credo si chiamasse Matteo Salvini, in piedi su un palco, sanguinante dalla testa. La mano stretta a pugno, un urlo silenzioso sulla bocca, mentre una decina di persone in abito scuro sembrano trattenerlo.
Ricordo l’episodio, visto alla televisione appena prima che iniziasse tutto. Mi sono sempre detto che le guardie del corpo dovevano avere un gran sangue freddo, per proteggerlo con il loro corpo dopo che avevano tentato di ucciderlo.
Il solito commento di Mamma mi torna in mente: «Che figlio di puttana, si sarà fatto sparare apposta, per vincere le elezioni.»
Le aveva vinte davvero. Poi l’Apocalisse era cominciata, e Salvini aveva istituito le leggi speciali: i militari avevano preso il controllo del paese, mentre i Tossici distruggevano tutto quello che conoscevamo.
Lei lo chiamava “bugiardo arrogante”, proprio come faceva con Papà.

Nei primi giorni in cui ci eravamo chiusi in casa, Mamma era strana: dimenticava di fare le pulizie, cucinava poco, svogliata, non controllava più i miei compiti. Un giorno si era tagliata con un coltello mentre preparava qualcosa e non se n’era accorta, le avevo dovuto dire io che stava sporcando tutta la cucina di sangue.
Mi era venuto il dubbio, l’ho osservata. Finché non l’ho vista prendere qualcosa dal suo comodino.
Sono corso, le ho fermato la mano. Aveva due pastiglie viola fra le dita. Purpanyl.
«Mamma, cosa stai facendo?»
«Lasciami stare. Ne ho bisogno.» Una sfumatura viola stava comparendo attorno alla sua bocca.
«Ma sei sicura Mamma? Non sarà pericolosa?»
«No, Davide, mi fa bene.» Mi ha fatto un sorriso breve, che è sparito subito. «Non ho più mal di testa, sono guarita.»
Soffriva di emicrania da quando Papà era partito. In quel momento sembrava serena, ho pensato che quella roba le potesse fare davvero bene.

Abbiamo sistemato le cose nella mia camera, poi Papà mi ha portato agli allevamenti.
Avvicinandoci al recinto, la puzza è diventata quasi insopportabile. Si sentono forti grugniti, sembrano urli che mi fanno paura. Saliamo una scala e li vediamo: c’è un grande spiazzo dove migliaia di maiali sono in fila, legati a corte catene. Enormi, grassi e muscolosi. Ci sono persone che stanno pulendo gli stalli, caricando su dei camion le deiezioni.
Papà ha uno sguardo orgoglioso e nessuna fretta di andarsene. Ho modo di guardare con calma: poco dopo noto che gli animali sono pieni di ferite, cercano di mordersi fra loro, ma le catene glielo impediscono.
«Questo è il motore della nostra nuova civiltà: ci danno carne per mangiare e biogas per l’energia elettrica. Così Bologna è sicura e possiamo vivere bene, ci manca solo più manodopera per ampliare gli allevamenti. Per fortuna ho deciso di non scappare come hanno fatto molti: all’inizio mi sono reso volontario per lavorare qui, e ora sono uno dei responsabili.»
Sono sconcertato: l’allevamento è enorme, ricordo che in questa zona della città si andava in Stazione, c’erano dei bei negozi dove la Mamma mi portava al sabato. Sembra che abbiano abbattuto gli edifici, per avere più spazio.
Noto che gli animali hanno un alone viola sul muso. «Che cos’è Papà, quel colore che hanno attorno al naso?»
«Hai un bello spirito di osservazione, bravo. Nel mangime gli diamo piccole quantità di Purpanyl: il medicinale induce una modificazione genetica che li fa ingrassare più in fretta. Senza, non ne avremmo a sufficienza per tutti.» Ancora uno di quei sorrisi ambigui. «Ma non ti preoccupare, sappiamo che nelle persone agisce in modo diverso. Abbiamo fatto molti test, ed è chiaro che la loro carne si può mangiare senza problemi.»
Alcuni maiali si muovono in modo strano, mi ricordano i Tossici già morti.
«Papà, andiamo via, per favore.»

Ho dovuto starle dietro, aiutarla sempre di più.
Ha smesso di lavarsi, di mangiare. Se non ci fossi stato io, sarebbe stata tutto il giorno a letto.
Ogni tanto apriva il cassetto del comodino e prendeva una pastiglia.
«Ne ho bisogno, Davide. Se non lo prendo, il mal di testa mi torna subito.»
Ne aveva una scorta, prescritta come antidolorifico dal nostro medico, prima che il mondo cambiasse.
A un certo punto, ho notato un cambiamento. La pelle si è affossata, tirata sui muscoli. Le sue labbra sono diventate sempre più viola.

Sono passate le settimane, ho ricominciato la scuola.
La vita a Bologna con Papà è tranquilla: la mattina usciamo insieme, va a lavorare agli allevamenti, un posto dove non vado volentieri. Ripensare ai maiali incatenati, feriti, mi mette agitazione.
Io faccio una passeggiata fino al mio liceo. Siamo pochi in classe, ma mi trovo bene. Alla sera ceniamo insieme e al pomeriggio esco con qualche nuovo amico.
La città sembra sempre semi deserta, non c’è molto da fare, ma come dice Papà le Mura ci proteggono dalla follia che regna all’esterno.
Avevo bisogno di tornare alla normalità, di punti fissi. Anche di lui, che non ho visto per tanti anni. Nonostante quello che diceva la Mamma, ora sento di conoscerlo meglio, mi fido.
Oggi pomeriggio sono uscito prima, ho pensato di andare a fare un giro in quella che una volta era la Zona Universitaria: i miei amici dicono che le Mura sono ancora intatte in quel punto e che ci sono diverse cose da vedere: l’antico Orto Botanico, la Pinacoteca. Posti dove ora si entra senza chiedere, né pagare un biglietto.
Arrivo in un’ampia via piena di cumuli di foglie e spazzatura. In lontananza c’è Porta San Donato, ci passavamo con Mamma quando andavamo in Centro.
«Davide, sei tu?» Una voce nota, vedo una donna mora uscire di corsa da un palazzo abbandonato. Si avvicina, fa cattivo odore, come i senza tetto che una volta vivevano sotto i portici.
«Devi aiutarmi, me l’hanno portata via.» Si butta a terra davanti a me, disperata. Quando alza il viso la riconosco.
«Si…Simona, sei tu? Cosa ti è successo? Dov’è Stefania?»
«L’hanno presa loro, perché li ho scoperti. Ho visto i furgoni: li riempiono di quelle pastiglie viola. Poi le distribuiscono alla gente fuori dalla città. Li volevo denunciare, ma mi hanno portato via la mia bambina per farmi stare zitta. Sono scappata, ti prego aiutami.» Ha parlato in fretta, con le lacrime agli occhi, come se non avesse tempo.
All’improvviso un’auto del Servizio d’Ordine esce da una strada laterale. Scendono due uomini in mimetica, con il giubbotto antiproiettile, armati.
Simona si alza, scappa.
Sparano, la colpiscono alla schiena.
Poi sento un dolore fortissimo a una gamba.
Cado.
Buio.

Mamma si era addormentata. Da giorni. I muscoli erano diventati corde dure, era magra, pallida, uno spettro.
Mi sembrava che a tratti non respirasse neanche, poi riprendeva. Non riuscivo più a svegliarla: ci avevo provato in ogni modo, l’avevo anche schiaffeggiata, mentre piangevo.
Poi anche io avevo ceduto alla stanchezza.
Mi sono svegliato per un movimento, un rumore. Una specie di basso ringhio.
Mi ha aggredito, cercando di mordermi un braccio. L’ho afferrata per fermarla: aveva le labbra viola tirate in un ghigno, un’espressione avida negli occhi rossi.
Abbiamo lottato, poi l’ho spinta, gettandola giù dal letto. Sono scappato, fino in cucina, sentendo che mi inseguiva.
Ho fatto in tempo a prendere un coltello dal ceppo, girarmi.
Mi aveva raggiunto, stava per mordermi, ma il coltello le è entrato nel petto con uno schiocco.
Siamo caduti, il suo viso a pochi centimetri dal mio.
Ha cercato di mordermi ancora una volta, ma poi i lineamenti si sono distesi. Per un attimo è tornata quella che conoscevo.
Ed è morta la seconda volta.
L’ho seppellita nel giardino lo stesso giorno in cui sono partito, perché nessun Tossico possa mai prenderla.

Mi sveglio intontito, sdraiato sulla schiena.
Sono su una barella, in un posto che sembra un ospedale.
Una ragazza vestita di bianco si avvicina. Non la conosco, quindi non ha senso parlarle. Mi mette una flebo nel braccio, misura la pressione, traffica attorno a me per un po’. Poi arriva lui.
Li vedo come da una certa distanza. Parlano di me, ma sembra che mi raccontino la storia di un’altra persona.
«Come va?» La voce di Papà è preoccupata. Non capisco perché, in fondo non sento dolore, solo un po’ di fastidio alla gamba destra.
«La ferita è brutta, si è infettata. A quanto pare è rimasto a terra per diverse ore: il Servizio d’Ordine credeva che fosse insieme a quella pazza, hanno aspettato troppo. Gli abbiamo dato una dose massiccia. Ora dobbiamo operarlo, forse amputare.»
Papà la guarda preoccupato, poi mi fa una carezza su una guancia. Deve essersi accorto solo ora che ho gli occhi aperti.
«Andrà tutto bene, Davide. Andrà tutto bene.»
Sorrido senza parlare, mi sembra superfluo. Tranquillo Papà, con te sono al sicuro.
Dentro alle Mura di Bologna non può succedermi nulla.
Ultima modifica di Andrea Furlan il domenica 2 febbraio 2025, 22:02, modificato 1 volta in totale.



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Andrea Furlan
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Re: Le Mura del Mille

Messaggio#2 » domenica 2 febbraio 2025, 21:57

Ho inserito nel racconto gli elementi per entrambi i bonus:
- gli animali zombi sono i maiali dell'allevamento, trattati con il Purpanyl.
- il personaggio famoso è Matteo Salvini, appare nella foto appesa in camera del padre di Davide.

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MatteoMantoani
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Re: Le Mura del Mille

Messaggio#3 » mercoledì 5 febbraio 2025, 18:24

Ciao Andrea,
del tuo racconto mi è piaciuto molto il taglio nostalgico e lugubre che assume la voce narrante. Si sente il dolore e l'angoscia causata dalla trasformazione della madre e tutti i dettagli della fuga verso la città sono resi molto bene. Hai scelto insomma di dare a questa storia un tono profondo e triste che ho apprezzato molto, mentre io ho di contro preferito un tono più rocambolesco e ironico, forse perché la faccenda degli zombie fa abbastanza ridere di suo.. e infatti tu li chiami Tossici.. e gli dai una connotazione particolare che è ben inserita in un background coerente.
L'ho riletto in alcuni punti un paio di volte, e non mi è ben chiaro come interpretare la figura del padre. Che faccia parte del "nuovo ordine" è chiaro, ma non capisco bene se è un personaggio positivo o negativo. Credo che per capirlo mi occorrerebbe interpretare nel modo corretto la scena in cui Simona entra in contatto di nuovo con Davide: cosa sono quei camion pieni di pastiglie? Sono reali? Se sì, perché questo nuovo ordine dovrebbe essere interessato a diffondere la malattia all'esterno? Per avere nuovi lavoratori? In apparenza non ha senso, e quindi mi manca capire questo dettaglio per interpretare la vicenda nel modo corretto.
Ottima lettura, coinvolgente, interessante, con quel punto aperto che magari potrebbe anche essere una tua reale intenzione, e in questo caso non rappresenterebbe necessariamente un difetto. Interessante anche accostare Salvini a Trump, una cosa che fa quasi più paura degli zombie.

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Andrea Furlan
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Re: Le Mura del Mille

Messaggio#4 » mercoledì 5 febbraio 2025, 18:38

Ciao Matteo,

grazie per il tuo feedback sempre puntuale, preciso e in questo caso positivo.
La scena in cui Simona parla con Davide rivela l'ambiguità di quello che hai chiamato "Nuovo ordine" giustamente, cioè i governanti della nuova Bologna di cui il padre di Davide fa parte. La foto con Salvini è una sorta di semina di questo loro modo di governare.
Bologna diventa l'unica zona sicura, attira persone da fuori perchè ha bisogno di crescere e avere più risorse che mancano. Ma nello stesso tempo è la stessa organizzazione che distribuisce la droga alle persone per mantenere ancora più il controllo e il potere sulla popolazione, sia dentro che fuori. Simona capisce casualmente quello che succede e per questo viene cercata e eliminata dal Servizio d'Ordine.
La figura del padre di Davide è di nuovo volutamente ambigua, rappresentando in pieno questo paradosso: vuole che Davide stia con lui dopo che è stato affidato alla madre in una separazione chiaramente non consensuale ed è anche pronto a renderlo assuefatto alla droga pur di tenerlo con lui.
Riguardo al taglio e mood della storia, non volevo assolutamente scrivere un racconto ironico, ma centrare sulla figura problematica di Davide e dei suoi conflitti famigliari tutta la vicenda.
Inoltre mi sono interrogato sulla domanda: e se la causa della mutazione non fosse esterna come per un classico virus (vedi in Walking Dead ad esempio) ma in qualche modo volontaria? Mi sono ispirato al fatto del Fentanyl negli Stati Uniti, dove la diffusione è iniziata come un normale antidolorifico prescritto dai medici, fino a diventare una vera piaga sociale.

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Re: Le Mura del Mille

Messaggio#5 » venerdì 7 febbraio 2025, 2:58

Ciao Andrea,
abbiamo usato entrambi Salvini... mala tempora currunt...

L'idea del fentanyl mi è piaciuta molto, mica per niente la chiamano "droga degli zombie". Ci sono molti spunti interessanti (la volontà di creare nuovi zombie perché la minaccia continui e la gente continui ad accorrere a Bologna la trovo geniale). Avrei declinato certe cose in modo diverso, ma questo conta poco, il punto è che leggendolo suggerisce varie idee che sarebbe intrigante indagare, un risultato non da poco per un sottogenere che è stato esplorato in tantissime opere. Personalmente, con poche eccezioni, preferisco le storie zombie serie, credo che come qualsiasi altro genere plausibilità e coerenza siano fondamentali. Quindi, come tono, ci siamo.
Passando agli aspetti negativi, al di là di qualche refuso (devo iniziare a segnarli quando li trovo, che sennò poi non riesco a dire dove sono), non mi ha convinto moltissimo la gestione del padre. Inizialmente Davide non si fida, anche perché ricorda cosa sua madre diceva di lui, poi pian piano creano un rapporto e finisce con Davide che non ha più nessun dubbio, nonostante la foto di salvini, i camion pieni di pillole, Simona morta davanti ai suoi occhi, gli animali fatti ingrassare a forza di medicine... Mentre leggevo pensavo che sarebbe stato meglio tagliare quel che la madre diceva di lui, per aumentare la sorpresa nello scoprire che ha un'anima corrotta, ma in realtà non c'è un vero pay off a quelle semine. Il racconto finisce con Davide che si sente al sicuro e non si spaventa nemmeno quando si parla di amputazione e il padre è accanto a lui preoccupato e rassicurante. Ok l'ambiguità, ma secondo me una scena in cui si mostrava, se non malvagio, pronto a sacrificare chi deve sacrificare per il proprio benessere ci sarebbe potuta stare. Leggo nei commenti che sarebbe pronto a rendere Davide assuefatto alla droga per tenerlo con sé, ma dal racconto questo non traspare. Forse avrebbe potuto porgergli un paio di pillole viola nelle ultime righe. Il farmaco immagino sia nella flebo, ma così non si capisce. Almeno fagli notare il liquido viola, ecco.
Inoltre, se devo essere sincero al 100%, la lettura non è riuscita a coinvolgermi quanto avrebbe potuto fare con una trama così. Non so dirti esattamente perché, magari lo capirò meglio rileggendolo, come intendo fare con tutti prima di scrivere la classifica.
In ogni caso è un bel lavoro e specie a livello di suggestioni e idee l'ho trovato molto ricco e interessante.

Centrati entrambi i bonus

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Mauro Bennici
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Re: Le Mura del Mille

Messaggio#6 » domenica 9 febbraio 2025, 18:11

Ciao Andrea,

Racconto che mi ha coinvolto a metà. Le parti in cui si prende cura della madre, la trasformazione e la morte sono fatte bene. Le descrizioni evocano il lento deteriorarsi di una persona tossicodipendente.

Le parti legate al dopo, non sono riuscito a seguirle allo stesso modo. Quando arriva il padre? Chi è in realtà? Che persona è?
SI capisce che il "fuori" è zona di contagio provocato per avere "lavoratori a buon mercato", ma il padre è stato uno dei cospiratori iniziali o uno che si è adattato?

Nel finale, mi aspettavo di vedere la paura del protagonista. Nel "non sentire nulla", pensando al taglio del dito della madre. Mi sarei aspettato che ricordasse le parole della madre sul padre. Che tentasse di staccare la flebo color lilla.

Detto questo, bel lavoro ;)

In bocca al lupo!

Riccardo Cauduro
Messaggi: 10

Re: Le Mura del Mille

Messaggio#7 » mercoledì 12 febbraio 2025, 19:40

Ciao!

Racconto dall'atmosfera interessante: un intreccio di putrido, toccante e misterioso. Un punto positivo sulla trama. Vi è una simbiosi interessante tra il farmaco, la dipendenza e i Tossici; una sincronia di cose che davvero mi ha trainato nella lettura, nonostante abbia trovato il ritmo narrativo abbastanza instabie. Nonostante alcune scelte di punteggiatura e di stile che, personalmente, ho trovato poco approfondite (ahimè, abbiamo un limite di caratteri!) il valore del racconto non viene intaccato enormemente. L'ambientazione è abbastanza classica, come anche la questione dei laboratori e la presa di potere di un despota in un mondo apocalittico, ma l'hai resa bene, inserendo il personaggio famoso con scioltezza; l'ho apprezzato. Purtroppo, ma ciò non mina al giudizio, è una storia che andrebbe approfondita di più; i flashback sulla madre sono interessanti, ma sarebbe stato bello dare più spazio a gesti e dialoghi nelle questioni presenti. Purtroppo, mi ripeto, i caratteri richiesti sono quelli che sono, dunque, ti invito a farci un racconto più lungo che, spero, possa avere il piacere di rilleggere in altre circostanze in futuro. In conclusione, il giudizio è abbastanza positivo. Sì ad entrambi i bonus.

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