Dove il sole non c'è

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Maurizio Chierchia
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Dove il sole non c'è

Messaggio#1 » martedì 31 maggio 2022, 20:00

DOVE IL SOLE NON C’È

Le luci si spengono, il chiasso di centinaia di ragazzi cessa con l’arrivo del buio.
Sopra di me Ravallo finge di dormire, ne sono certo. Non può essere così rilassato per il test di domani.
«Pss, pss, Ravà che fai? Stai dormendo?» Colpisco con un pugno il letto sulla mia testa.
«Oh allora? Sei sveglio? Dai che devo dirti una cosa importante!»
«Oh che vuoi? Sì che sono sveglio. Lasciami in pace che sto ripassando.» La sua voce arriva ovattata, filtrata dal materasso.
«Non dirmi che sei preoccupato per domani? Tanto sarà una cavolata quel test, ne abbiamo fatti a migliaia in questi anni, che vuoi che cambi?»
«La fai facile tu, neanche ti serve studiare, non ti è mai servito. Io invece mi devo sempre fare il culo per avere dei buoni voti.» La sua faccia spunta da sopra al letto, indossa ancora gli occhiali.
«Ma dai, lo sai che non è vero. Hai addirittura i voti più alti dei miei.»
«Questo è perché tu te ne sbatti! Va beh, lasciamo stare, fammi tornare ai libri che a differenza tua, io ci tengo a non finire cieco in miniera.» Ritrae la testa lasciandomi a fissare il soffitto.
«Tanto già non vedi un cazzo, non cambierebbe molto!» Me la rido da solo. «Comunque, hai presente quella cosa importante che volevo dirti?»
«Cosa c’è di così importante da rompere tanto i coglioni?» Sbuffa più forte di quanto abbia sussurrato fin’ora.
«Stavo pensando… hai presente la parola uovo?»
«Tu sei rincoglionito come un uovo? Sì certo che ce l’ho presente.»
«No idiota! Dicevo, tutte le parole che hanno a che fare con l’uovo posseggono una U all’interno del nome. Tipo: l’albume ha la U, il tuorlo ha la U, il guscio ha la U. Tu ci avevi mai pensato?»
«E tu mi hai stressato per dirmi una cagata del genere? Ma vaffanculo va!»
«Va beh ho capito, ti lascio in pace, sclerotico! Non fare troppo tardi però, o domani ti addormenti sui fogli invece che compilarli… notte Ravà.»
«'Fanculo Ste.»
Mi sdraio sul fianco sinistro.
È vero, non mi serve studiare. Finora ho sempre passato i test andando solo a memoria.
Quello che un po’ mi turba però, è il fatto che domani non sarà un esame come tutti gli altri, sarà la prova finale.
E se qualcosa andasse storto?
Non avrei mai voluto fare questo test mettendo a rischio uno dei miei sensi.
Già alla nascita ci privano del gusto per non farci eccedere nel peccato di gola, ora vogliono levarmi pure qualcos’altro?
No, io devo far parte di quei fortunati che superano l’esame e rimangono qui nella Città Senza Gusto. Magari potrei diventare insegnante di lettere o infermiere. Non voglio finire a Senza Udito o a Senza Vista. Come deve essere non sentire o vedere quello che mi circonda? I miei occhi e le mie orecchie funzionano benissimo, perché mai dovrei privarmene?
Il ticchettio dell’orologio al centro della camerata scandisce i miei pensieri.
I fasci rossi dei faretti d’emergenza filtrano attraverso le palpebre.
Non riesco a dormire, nemmeno a riposare a occhi chiusi.
Se lo stare attento in classe tutti questi anni domani non bastasse?
Cavolo, io non so studiare. Sono sempre andato a intuito.
Mi giro e mi rigiro sopra un lenzuolo zeppo di sudore.
No, non posso dormire. Mi metto seduto.
«Ravà? Ravà!»
«Che vuoi ancora?»
«Non è che possiamo ripassare insieme?»
«Fottiti!»
***

«E poi, come è andata?» Con la faccia da menomato mentale, Juno aspetta la fine della storia con la bocca spalancata e un dito infilato nel naso.
«Se dopo tre anni sono qui a raccontartela come vuoi che sia andata a finire? Idiota!»
È andata a finire male.
Non mi spiego ancora come possa aver sbagliato quella stupida domanda.
Una, sola, stupidissima, domanda!
Tre anni che non mi do pace per essere finito in questo buco claustrofobico.
Se non avessi fatto quell’errore mi ritroverei a Senza Gusto, a godermi i raggi del sole seduto a una scrivania accanto alla finestra.
Invece sono qui, rintanato chissà quanti metri sotto terra, a spalare la merda degli abitanti tutto il giorno. Dalla cloaca alla discarica, dalla discarica alla cloaca, dodici ore su ventiquattro. Che palle!
È vero, poteva andare peggio.
Alla fine ho dovuto rinunciare all’olfatto, che non è poi così indispensabile.
Non possedendo nemmeno il gusto, potrei bere questo liquame come fosse latte al cioccolato, se non sapessi di cosa è composto.
La cosa che più mi rode però è non vedere il sole da un’eternità. Lavoro qui sotto, vivo qui sotto, dormo qui sotto. Questo, mi fa andare giù di testa.
«Sbrigatevi voi due con quei secchi!» Il capo della sicurezza si palesa davanti a me e Juno con una vanga lercia in mano.
«Tu levati le dita dal naso e riporta il culo alla stanza del percolato! E tu Ste smettila di fantasticare sulla tua infanzia e datti da fare. A furia di sparare stronzate affogherai in un fiume di merda!»
Vorrei prenderlo a calci.
Dirgli che non capisce un cazzo e che sa solo spalare poltiglia organica.
Provo a raccogliere il secchio stracolmo che ho tra le gambe, pesa un quintale. Uso tutte e due le mani per trascinarlo senza sollevarlo da terra.
Gli operai che mi circondano mi deridono.
«Dai che ci riesci femminuccia.»
Andate tutti al diavolo!
Voi poveri imbecilli sarete contenti di stare qui, giorno e notte, a raccattare rifiuti.
Io no. Io da qui me ne andrò, ignoranti che non siete altro.
Studiando le mappe fognarie, ho scovato una stanza segreta raggiungibile solo a nuoto.
Dovrò essere ben coperto perché non si tratta di sguazzare in un lago, bensì tra gli escrementi.
Affogare in questo fiume di merda sarebbe comunque meglio che passare la mia vita a spalarla.
Davanti alla camera del percolato, Juno mi aspetta per rovesciare gli ultimi scarti e finire il turno.
«Dai Juno, altri tre secchi e abbiamo finito. Diamoci una mossa, che voglio andarmene al rifugio.»
«Cosa? Non ti fermi per giocare a carte?» Mi guarda inebetito.
Peserà centoventi chili, un ammasso di stupidità e lerciume. La sua pelle è viscida, come se fosse cosparsa di grasso. Il suo volto è asimmetrico, tutto il lato sinistro pende verso il basso. Sembra un pupazzo di cera lasciato troppo esposto al sole, ma solo da un fianco.
Si gratta la pelata rugosa e rovescia con un solo braccio uno dei secchi nella vasca centrale.
«No stasera no, ho cose più urgenti da sbrigare. Se tutto va come deve andare, tra non molto potrai scordarti per sempre di giocare a carte con me.»
«Cosa intendi dire?»
Mi avvicino al suo orecchio.
«Lo sai mantenere un segreto?»
«Certo, Juno non dice mai i segreti!» Porta una mano al cuore e l’altra alla bocca. In pochi secondi le dita posate sulle labbra finiscono a scavare nelle sue narici.
«Ok… sto escogitando un modo per andarmene da qui!» Il cuore accelera mentre pronuncio queste parole, non l’avevo mai fatto.
«Andare dove? Non ti piace qui? Non ti piace giocare a carte con noi?»
«No che non mi piace! Io non dovrei nemmeno starci qui, dovrei stare lassù a corteggiare qualche bella Senza Gusto, tra gli abbracci roventi del sole. Non, marcire qua tra gli abbracci marroni della merda!»
«E come farai? Le città sono murate, come ci entrerai?» Per la prima volta in questi tre anni noto le vene sulla fronte di Juno gonfiarsi. Allora anche lui ragiona?
«Non ci entrerò dalle mura, ma dalle fogne. Ho le mappe da quando ero al collegio e scoprii di dover passare il resto dei miei giorni come netturbino uomo-talpa.»
«Porta anche me.»
«Non posso, come faccio? Già sarà dura fuggire da solo…»
«Porta anche me!» Stringe i pugni. Meglio non farlo infuriare.
«Va bene, va bene calmati, e rinfilati quel dito nel naso. Stasera studierò le mappe e domani notte ti porterò via con me. Intesi?»
«Ok, ma stasera dormo con te. Sennò tu scappi senza Juno!» Sorride mostrando i suoi diciotto denti gialli. Li ho contati qualche mese fa.
«Perfetto. Affare fatto!» Faccio il pollice in su. Non voglio stringere quelle luride mani.
«Allora voi due, avete finito? Noi ce ne andiamo in taverna a fare qualche partita, sistemate tutto prima di andarvene.» Il capo della sicurezza deposita gli attrezzi ed esce dalla stanza.
Tutti gli altri operai fanno lo stesso lasciando me e Juno da soli.
«Dai Juno, tu che fai meno fatica, scarica l’ultimo mentre do una ripulita qua fuori.»
«D’accordo Ste.»
Esco dalla stanza, in mano stringo le chiavi.
È un brav’uomo, ma portarmelo dietro sarebbe troppo complicato.
Chiudo facendo due giri di chiavistello.
Assicuro anche la sbarra di metallo che da fuori tiene bloccato l’ingresso.
Non riuscirà mai a sfondarlo, è stato costruito a prova di Juno!
Dall’altra parte, il tonfo dei suoi passi si avvicina. Un pugno fa vibrare la porta.
«Ste, Ste! Che fai? Sei li?» Altri pugni, la voce si trasforma in versi scomposti.
«Ste! Ste! M’hai cuso qui! M’hai cuso qui! Ste! Ste!»
Spero solo che non pianga.
Tanto si tratta di una notte.
Domani arriveranno gli operai e lo troveranno che dorme abbracciato a un secchio.
Corro a gambe levate verso il mio rifugio.
Ho solo quest’occasione per scappare e sarà meglio riuscirci, altrimenti, Juno mi uccide!

Questi interminabili corridoi sono tutti uguali.
Reticoli di gallerie infiniti, pareti di ferro e tubi di rame. Le luci bianche dei neon rendono le fogne un labirinto grigio, in cui poco alla volta anche le persone si mischiano con le ombre, diventando solo immagini sfocate sullo sfondo.
Io sono una di queste immagini, imbacuccato fin sopra la testa in una tuta da lavoro nera.
Scuro come la melma che trasporto tutti i giorni, avanzo in questo dedalo metallico.
Fa caldo e sudo sotto la stoffa sudicia.
Di notte, l’acqua delle fogne mischiata allo sterco fa salire un’umidità che mi incolla i vestiti addosso. Il sibilo di fondo del fiume di liquame non smette mai di seguirmi, anche dove non posso vederlo posso comunque udirlo serpeggiare sotto i miei piedi.
In questi anni non ci facevo più caso, ma ora che sto lasciando questi sotterranei mi accorgo di quanto lo scorrere dell’acqua sia diventato parte di me.
Ho superato da molto la taverna e la zona più frequentata dei bassifondi. Tutti i bifolchi che vivono rintanati quaggiù sono a giocare a carte, o a dormire. In giro non c’è nessuno.
I numeri sulle arcate delle gallerie vanno via via decrescendo.
Sotto di me, l’acqua marrone ha ripreso a farsi vedere e scivola irrefrenabile verso una conduttura scassata. Questo è il punto giusto!
Mi immergo. Il gelido tocco della lordura cittadina è un sollievo paragonato all’afa che aleggia fuori dal canale di spazzatura.
Sommerso fino al collo mi lascio trasportare senza opporre resistenza.
La putrida corrente mi trascina verso una grata scoperta.
Vengo catapultato in una cisterna stracolma di feci rossastre che attutiscono la mia caduta.
Devo essere finito in una vasca di scolo.
Con l’aiuto di una scaletta riemergo dal pozzo sanguinolento. In cima c’è un portone arrugginito e sopra di me il tubo da cui sono schizzato giù.
Afferro la maniglia, pezzetti di ruggine mi rimangono attaccati alla mano o cadono in terra.
Apro.
Un potente fascio di luce gialla mi acceca. Il tempo di mettere a fuoco e mi rendo conto che quello che mi trovo davanti è un ascensore.
Il tastierino numerico ha solo due scelte, uno o zero. Spingo col dito sull’uno.
Una forza violentissima mi attrae verso il basso, schiacciandomi al pavimento.
Il montacarichi schizza in alto ad una velocità estrema ma per fortuna non mortale.
Arrivato a fine corsa sano e salvo, tiro un sospiro di sollievo. Controllo di non avere ferite o ossa rotte. Non ho battuto la testa, ma sento comunque un fischio fortissimo attraversarmi il cervello.
Altri suoni offuscano la mia mente, comparsi solo quando sono giunto quassù.
«Sono vivo? Ci sono? Bla bla bla!» Urlo, ma non sento la mia voce.
Il chiasso che c’è non è dentro la mia testa ma arriva da fuori.
Voglio vedere dove sono.
Spalanco la porta con entrambe le mani.
Come se avessi scoperchiato il Vaso di Pandora, tutti i mali si riversano su di me sotto forma di rumore. Un trambusto fatto di versi animaleschi e macchine impazzite martella il mio cranio. I colpi passano dalle tempie allo stomaco.
Vomito prima ancora di capire dove mi trovo.
I succhi gastrici creano una pozzanghera ai miei piedi dove pezzetti di carne navigano in decomposizione.
Mi sento più leggero, ma il casino non smette.
Infilo le dita nelle orecchie come fossero tappi per dormire.
Non serve a molto, ma almeno ho il tempo per riflettere e vedere in che situazione mi sono cacciato. Devo essere entrato nella Città Senza Udito.
Con i timpani otturati muovo i primi passi nell’oscurità, alla ricerca di un interruttore.
Abituato a camminare nella penombra, seguo il perimetro della stanza cercando con i gomiti un pulsante per non staccare le mani dalla testa.
Trovato!
Da destra a sinistra, decine e decine di plafoniere si accendono portando alla luce la causa di questo baccano.
All’interno di un immenso capannone, rinchiusi in strettissime gabbie di ferro, ci sono animali da macello di ogni sorta. Dalle mucche ai maiali, dalle capre alle pecore.
Stanno sdraiati ventre a terra, privati delle zampe.
Accanto a ogni cella è posizionato un macchinario cubico da cui fuoriescono tubicini trasparenti. Alcuni di questi tubi trasportano un liquido nero dentro le povere bestie, altri invece asportano sangue e lo riportano alla macchina.
Le creature si contorcono e si lamentano. Ogni belato, ogni muggito cerca di contrastare in decibel il fracasso prodotto dai loro torturatori meccanici.
Più sto vicino a loro, più i miei tappi di fortuna risultano inutili.
Le tempie cominciano a pulsarmi. Tutto intorno inizia a girare.
I volti straziati delle caprette, i musi spalancati dal dolore delle mucche, le sonde infilzate nel costato degli innocenti agnellini…
La bile risale di nuovo il mio intestino, giunge alla gola e fuoriesce a spruzzo dalla bocca.
Sono preso da spasmi.
Lo stomaco mi brucia e sento che mi si sta sciogliendo.
D’istinto tolgo le dita dalle orecchie per massaggiarmi la pancia.
Non avrei dovuto farlo.
È come riemergere dall’acqua di colpo dopo aver passato ore a danzare negli abissi.
Tutti i suoni picchiano insieme sulle membrane dei timpani per scavarsi un varco fin dentro il mio cervello. Migliaia di spilli acustici penetrano, lacerano e stracciano ogni lembo di carne.
Dalle guance e dal collo sento colare un liquido caldo.
Non riesco a reggermi in piedi.
Barcollo.
Sbatto di schiena su una gabbia e cado al suolo.
Una botta secca, fortissima, alla nuca.
Un lampo bianco.
I rumori cessano.

Riapro gli occhi, lo scenario intorno non è cambiato.
L’unica grossa differenza rispetto a prima è che sono sordo.
Le bocche aperte degli animali non producono alcun suono così come i macchinari che li seviziano.
Tutto è avvolto dal silenzio.
Percepisco solo un flebile ronzio nel padiglione auricolare destro.
Mi accarezzo dietro la testa. Sono ancora tutto intero a parte un ematoma grosso quanto il mio pugno.
Non so per quanto tempo sia rimasto svenuto accanto al mio vomito ma non deve essere stato troppo. Nessun operatore si è ancora fatto vivo.
Non voglio rimanere un minuto di più in questo mattatoio.
Molto meglio tornare a spalare feci tutto il giorno, che essere obbligati a osservare questo scempio senza poter dire nulla.
Bisogna per forza essere sordi per poter lavorare qui.
In fondo tutti abbiamo avuto a che fare col sangue o con la carne, ma vedere è diverso da sentire.
Sentire i versi martoriati di altri esseri viventi giorno e notte, udire le loro ossa spezzarsi e frantumarsi mentre sono ancora in vita che si dimenano, ascoltare la vita venirgli strappata urlo dopo urlo, mazzata dopo mazzata.
No, questo farebbe impazzire chiunque.
Così come stare rinchiuso nelle fogne possedendo l’olfatto risulterebbe deleterio.
Alla fine è vero, in ogni lavoro bisogna privarsi di qualcosa se lo si vuole svolgere senza battere ciglio. È per questo che i Capi di Stato hanno creato le Città Senza Sensi.
Recinti pieni zeppi di individui che non si pongono domande.
Persone che sacrificano una parte di sé per la crescita e lo sviluppo dell’intera popolazione.
Può uno dei nostri sensi valere tutto questo?
Mi volto disgustato.
Un uomo con un camice schizzato di sangue mi osserva.
Non mi sono accorto di quando sia entrato.
Posa lo sguardo sui miei abiti lerci e sulle strisce di vomito. Prosegue col capo fino a intercettare la porta da dove sono arrivato.
Gesticola con le mani muovendo appena le labbra. Per quanto agita veloce le braccia sembra essere molto nervoso.
«No so oo di quii! Non so oo di quiii!» Non sento quello che dico e comunque è inutile dato che anche lui è sordo.
Intuendo che non capisco cosa voglia comunicarmi, il macellaio si dirige verso una cabina piena zeppa di pulsanti e preme quello grande al centro.
Nello stanzone tutte le luci si tingono di rosso e iniziano a lampeggiare.
Meglio svignarmela!
Corro verso la porta dell’ascensore.
Non sono ancora abituato alla sordità, sbando a destra e a sinistra perdendo l’equilibrio.
Mi appoggio alle gabbie per non stramazzare sul pavimento.
Evito la pozza acida che ho rigurgitato e punto dritto al montacarichi.
Sono a un soffio dalla porta, un’ultima pozza di vomito da scartare e poi di nuovo giù alle fogne.
Non so cosa stia facendo il Senza Udito, non lo sento. Non mi giro neppure a guardare indietro. L’unico modo per sfuggire a un inseguitore è non voltarmi alla ricerca del suo braccio che tenta di afferrarmi.
Supero la soglia, sono dentro.
Sto per chiudere la porta quando me lo ritrovo davanti, faccia a faccia.
È alto, più alto e più grosso di me, e sembra incazzato.
Alza le grosse mani per afferrarmi.
Mi agito a più non posso cercando di spingerlo fuori.
Facendo leva sulle gambe e sfruttando tutto il peso del mio corpo, spingo di prepotenza con la spalla sul suo basso ventre.
Non so come ci sia riuscito, devo avergli frantumato le palle.
Fatto sta che il bestione capitombola all’indietro scivolando sulla chiazza giallognola e finendoci col culo sopra.
Stremato mi appoggio allo stipite.
Non percependo a pieno i miei movimenti, finisco col premere il pulsante zero del tastierino numerico.
L’ascensore sfreccia verso il basso con la stessa velocità con cui mi ha sollevato fin qui.
La brusca partenza mi sbalza tra una parete e l’altra come una pallina da ping-pong dentro un frullatore.
Quando arresta la sua discesa, mi ritrovo stramazzato al suolo.
Sento freddo.
Provo ad aprire gli occhi ma non ci riesco.
Non posso muovermi.
Il collo, la schiena e la testa si sgretolano come fango.
Una miriade di scariche elettriche invadono il mio corpo.
Non ho mai dovuto sopportare tanto dolore.
Sapendo cosa si prova a soffrire, soffrire per davvero, avrei optato per la perdita del tatto. Almeno a quest’ora non sentirei male e potrei andare a farmi curare con le mie gambe.
Riprovo ad aprire gli occhi… forse sono aperti… non vedo niente.
Solo una coltre nera e densa.
Le botte al cranio devono avere intaccato il cervello rendendomi cieco.
Vorrei una coperta per riscaldarmi.
Come mi piacerebbe avere un fuoco caldo che mi culli nel sonno.
Anche fuoco possiede la U all’interno.
Vediamo… quali altre parole collegate a fuoco contengono la U?
Il fUoco cUoce… Il fUoco brUcia… il fUoco illUmina… il fUoco Ustiona…
Il sole è fatto di fuoco.
Il sole riscalda.
Il sole…

***

Quali sono i tre reati capitali punibili con l’esilio nella Città Senza Sensi?
I tre reati capitali sono: l’omicidio, lo stupro e l’immigrazione.
Questa era la fottuta domanda a cui tre anni fa non ho saputo rispondere!
Se solo avessi studiato un po’ di più, a quest’ora non mi troverei qui.
Se mi fossi anche solo ricordato a cosa sarei andato incontro non sarei mai fuggito.
Nella Città Senza Sensi sono stato privato di tutto.
Una volta recuperato, mi hanno curato e spogliato dell’ultimo senso rimasto.
Il tatto.
Non vedo e non sento niente, in tutti i sensi.
Esiliato nella nebbia dei miei ricordi.
In questo momento non so se sono seduto, in piedi o sdraiato.
Non odo nessun suono, nessun grido di agonia, nessun fiume di liquame.
Non posso più vedere nulla se non provando ad immaginarlo.
Gli odori e i sapori sono svaniti da tempo.
Non percepisco se mi nutrono o mi lasciano morire di stento.
A dire il vero non so più nemmeno se sono vivo o se sono morto.
So solo che sono fuggito, per poi tornare dove il sole non c’è.
Ultima modifica di Maurizio Chierchia il sabato 4 giugno 2022, 13:59, modificato 1 volta in totale.


Maurizio Chierchia
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Re: Dove il sole non c'è

Messaggio#2 » martedì 31 maggio 2022, 20:02

Buondì.
Lascio questo racconto a cui tengo molto, sperando che vogliate leggerlo.
Ho partecipato al contest di Specularia dove il tema del racconto era: Genere Speculativo/Chiave del Tema- SANDBOX.
Purtroppo non ho avuto successo ma dato l'impegno che ci ho messo spero che qualcuno possa trovarlo interessante.
Grazie in anticipo a chiunque voglia leggerlo.
Maurizio Chierchia
"Domani è già vicino"

alexandra.fischer
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Re: Dove il sole non c'è

Messaggio#3 » venerdì 3 giugno 2022, 19:04

Racconto originale. Ste e il suo amico Ravallo si devono preparare al test attitudinale decisivo per entrare nel mondo del lavoro. Questo, nella Città dei Sensi: per ogni lavoro si deve perdere uno dei cinque sensi. Il più prestigioso richiede la rinuncia al Gusto. Nel corso della storia, oltre alla caduta di Ste per aver fallito il test, lo si vede svolgere un lavoro di basso grado, alle prese con lo sterco e una fuga dove perde prima l’Udito, dopo aver visto il lavoro di macelleria-vivisezione e dopo la Vista, come punizione. Eh, sì, perché nella galera si ricorda dove ha sbagliato, i tre reati peggiori della Città dei Sensi sono: l’omicidio, lo stupro e l’immigrazione. Lui, di fatto, è immigrato illegalmente da una città all’altra e rimettendoci un senso ogni volta. Ravallo, secchione occhialuto, si fa ammirare, ma anche Ste con la sua mania per le U e il Lettore ex studente vorrebbe ammonirlo dal fidarsi troppo dell’intuito. Juno ha un che di grottesco nel fisico e nella parlata, ma la sua mente è ben sveglia: neppure lui ama la sua condizione.


Attenzione:
Sì che sono sveglio
Sì certo che ce l’ho presente
‘Fanculo, Ste.
Finora
Se dopo tre anni sono ancora qui a raccontartela, come vuoi che sia andata a finire? Idiota.
Dopo aver effettuato queste correzioni, per me merita la Vetrina.

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Maurizio Chierchia
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Re: Dove il sole non c'è

Messaggio#4 » venerdì 3 giugno 2022, 23:28

alexandra.fischer ha scritto:Racconto originale. Ste e il suo amico Ravallo si devono preparare al test attitudinale decisivo per entrare nel mondo del lavoro. Questo, nella Città dei Sensi: per ogni lavoro si deve perdere uno dei cinque sensi. Il più prestigioso richiede la rinuncia al Gusto. Nel corso della storia, oltre alla caduta di Ste per aver fallito il test, lo si vede svolgere un lavoro di basso grado, alle prese con lo sterco e una fuga dove perde prima l’Udito, dopo aver visto il lavoro di macelleria-vivisezione e dopo la Vista, come punizione. Eh, sì, perché nella galera si ricorda dove ha sbagliato, i tre reati peggiori della Città dei Sensi sono: l’omicidio, lo stupro e l’immigrazione. Lui, di fatto, è immigrato illegalmente da una città all’altra e rimettendoci un senso ogni volta. Ravallo, secchione occhialuto, si fa ammirare, ma anche Ste con la sua mania per le U e il Lettore ex studente vorrebbe ammonirlo dal fidarsi troppo dell’intuito. Juno ha un che di grottesco nel fisico e nella parlata, ma la sua mente è ben sveglia: neppure lui ama la sua condizione.


Attenzione:
Sì che sono sveglio
Sì certo che ce l’ho presente
‘Fanculo, Ste.
Finora
Se dopo tre anni sono ancora qui a raccontartela, come vuoi che sia andata a finire? Idiota.
Dopo aver effettuato queste correzioni, per me merita la Vetrina.

Ciao Alexandra.
Grazie mille, mi fa veramente piacere che tu abbia apprezzato il racconto.
Appena riesco effettuo le correzioni che mi hai giustamente citato.
Incrocio le dita per finire in vetrina.
Grazie ancora!
Maurizio Chierchia
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