Salam d'la duja e altre specialità locali
- maurizio.ferrero
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Salam d'la duja e altre specialità locali
Salam d'la duja e altre specialità locali
Oggi
La Processione delle Macchine permanente impazza nell’area nuclearizzata ora trasformata in un parcheggio rigorosamente a pagamento. Dopo la scia di distruzione causata dai diserbanti ad alto tasso di mutageni, dalle zanzare giganti, dalla rata vuloira colossale e, infine, dalla bomba H, i gruppi statuari lignei dedicati alla passione di Gesù Cristo sono stati ridotti in cenere e sostituiti da bolidi coperti di spuntoni rugginosi. La nuova passione è messa in scena da tutti coloro che vengono trasformati in scie di sangue sull’asfalto.
La Mariarita attraversa la strada bestemmiando. La sua speranza di non farsi tirare sotto viene esaudita dalla preferenza dei piloti nel prendere di mira i vecchi in bicicletta.
Una coppia di mutanti dalla pelle color merda, sudati come il sottopalla di un maratoneta, si avvicinano alla donna che avanza con aria minacciosa. Hanno dei forconi stretti tra mani abnormi su cui cresce ogni genere di vegetazione contaminata, in particolare il riso che nel Vercessese non può mai mancare. I bulbi piliferi sono stati sostituiti da chicchi ad alto livello di tossine.
«Lon ca t’voeli ti?» dice uno agitando l’arma minaccioso.
«Ch’at levi dai bali sùbit, bidulu.»
Non osano contraddire la Mariarita. Ex-spogliarellista del ConTatto, ex-metalmeccanica, ex-campionessa di lotta greco-romana-druidica, che è come la lotta greco-romana ma con un falcetto stretto tra i denti. Mostra il cannone che porta alla cintura e indica il cannone tra le gambe dei mutanti con un dito.
«Bang-bang» sussurra, e i mutanti si levano di torno.
Un’altra coppia di risaie-su-gambe sta di guardia all’ingresso della vasta piazza invasa dai tendaggi bianchi, da cui provengono urla folli e gieubi di capusin in versione grindcore sparata a volumi da suicidio. Sembrano essere abbastanza quieti, anche se dalla piazza vanno e vengono predoni e merdame umanoide vario. L’enorme cartello tratteggiato con il sangue recita
SAGRA D’LA PANISSA VERCESSESE
NO NOBARESI
DADACHI AS BEV LA BARBERASA
La Mariarita estrae dal sacchetto di plastica un vecchio numero di Vita in Campagna e lo consegna alla guardia all’ingresso, che le stacca un talloncino per un bicchiere di Barbera guardandola in cagnesco con i suoi tre occhi, di cui due ciechi.
Vercessesi, falsi e cortesi. Il fuoco atomico non li ha cambiati.
Nella bolgia infernale della sagra, vecchie ingobbite con più o meno arti del normale si lanciano in passi di danza convulsa con giovanotti che paiono aver smarrito la materia grigia nel vano della mietitrebbia. Per alcuni non è solamente un modo di dire.
La Mariarita lascia correre lo sguardo in cerca di qualcosa di preciso. Al centro della piazza, una fila di risaie-su-gambe si assiepa davanti a un pentolone ribollente e si da una grattata alla pelle marcia, facendo scivolare una cascata di chicchi sudati nell’orgia di fagioli, lardo e salam d’la duja.
Il giusto tributo: se vuoi mangiare, devi essere mangiato. Ormai funziona così.
Dopo essersi fatta riempire il corno di bue da una ragazzina sudaticcia, senza denti in bocca ma con molti denti che le sbucano dalla fronte, la donna dà una sorsata alla barberasa bela spèssa e centra gli occhi sul suo obiettivo.
Il Panzer sembra un incrocio tra il pelato di Brazzers e il Bud Spencer degli anni migliori, ma ora, nudo come un neonato, con un buco rappezzato in pancia e appeso a un’impalcatura di metallo assieme a cinque altri poveri cristi, sembra solo un enorme maiale sudato.
«Varda-là, al farabulon.»
Non avrebbe avuto altre possibilità per salvargli il culo. La Mariarita trangugia ciò che resta del suo vino e si mette all’opera per fare ciò che sa fare meglio.
Tre giorni fa
«Pijé ‘sta strada è stata ‘na gran cagà» strilla la Mariarita.
«Risparmiamo tempo, la cunsegna l’è stasera» borbotta Panzer mentre pedala con il fiatone. «Prima il Livio ha la pissa, prima turnuma a ca cu i sold.»
Le biciclette dei due sfrecciano sulla ex-statale Vercessi-NoBara, territorio di guerra permanente per il controllo delle ultime risaie-su-terra solo vagamente contaminate. Giorno e notte percorsa da bande di predoni mutanti, all’alba e al tramonto invasa da zanzare in grado di prosciugare una vacca di sette quintali in tredici secondi netti.
In ogni momento, un posto di merda.
Il rombo di un motore in lontananza trasforma i due in Pantani quando vinceva, ma non è sufficiente a metterli in salvo. La carne è debole, e gli agricoltori Vercessesi sanno che il metallo è destinato a vincere.
Quando la banda motorizzata sgasa con le gomme lisce sull’asfalto semisciolto è già troppo tardi. Il gruppo di zappaterra mutanti, armati di rastrelli e vecchie spingarde, salta fuori dalla cabina del Kubota V8 che si piazza al centro esatto della strada, bloccando ogni possibile via di fuga che non sia tornare verso NoBara. Ma ciò vorrebbe dire disegnarsi un bersaglio sulla schiena.
Il Panzer avvicina le dita al fucile a canne mozze, ma uno sguardo della Mariarita è sufficiente a placarlo. Gli agricoltori hanno tutti un numero di occhi dispari e svapano diserbanti come se non ci fosse un domani.
«NoBaresi?» chiede il capo, l’unico con cinque occhi e una zappatrice automatica innestata al posto del braccio sinistro.
«Ah, fa che dilu. Mi sun varsleisa.» ironizza la Mariarita.
I mutanti sembrano apprezzare il dialetto della donna. Motozappa indica il Panzer con il capo pentaocchiuto.
«Anca mi sun ad Varsej» risponde lui, incerto. Ma gli agricoltori capiscono dall’accento che qualcosa non torna. La Mariarita sa che il Panzer viene da MilAno e il dialetto della zona l’ha imparato a spizzichi e bocconi, solo perché ha capito che era il modo migliore per sopravvivere.
Il gruppetto avanza, spinge lontano la predatrice e la sua bicicletta, circonda il nerboruto compagno.
«’ntla panissa al va la verza?» chiede uno.
La Mariarita scuote il capo ferocemente, sperando che il suo ignorante amico colga il gesto. Ma lui, incurante del futuro e troppo orgoglioso per giocarsi l’aiuto del pubblico, decide che la mossa più saggia consiste nel rispondere a casaccio.
«Sì».
Il dagli-al-NoBarese è feroce e repentino. Motozappa affonda il braccio meccanico nelle carni molli del Panzer, mentre gli altri ci danno dentro a colpirlo con i rastrelli manco fosse un cane feroce.
La Mariarita estrae il cannone, spara un paio di colpi, ma il gruppo è troppo diserbato per sentire il dolore. I proiettili ronzano più rumorosi delle zanzare. La predatrice viene colpita di striscio a una gamba, monta sulla bici e si lancia in una pedalata feroce. Gli agricoltori perdono troppo tempo per fare inversione con il trattore sulla stretta strada, e lei riesce a defilarsi.
Il Panzer, mezzo dissanguato, perde i sensi ricordandosi che una volta la Mariarita gli aveva detto che in quella provincia la differenza tra panissa e paniscia è fondamentale come la differenza tra acqua e veleno.
Oggi
Il Panzer lancia un’occhiata supplice alla Mariarita, ma proprio in quel momento lo strazio sonoro viene interrotto. Al ritmo dei motori dei trattori truccati, il Bicciolano fa il suo ingresso nel parco feste.
Un tempo maschera dominante del carnevale Vercessese, ora mezzo busto mutante intossicato dai diserbanti, innestato su un carro biomeccanico munito di spara-petardi e fauce triturante a prua. Il tricorno marrone è saldamente bullonato sul cranio esposto.
Da re del carnevale, a re del mattatoio. La carne vale, dopo la bomba H.
Dietro di lui, una parata di fighetti abbruttiti dall’alcol, damigelle imbustate in sacchi della spazzatura, lanciatori di caramelle al gusto biodiesel. Infine, spinto da un mutante largo quanto un minivan messo di traverso, sulla cui schiena cresce un intero orto botanico, spunta il salamatore: un macchinario in grado di frullare, insaccare e mettere sotto grasso cento chili di carne al minuto. I maiali non hanno retto al fallout, ora per fare il salam d’la duja viene usato il porco a due zampe.
Il Panzer è già stato marchiato a fuoco dal suo allevatore.
Lesta, la Mariarita abbandona i festeggiamenti e si dirige verso un tendaggio che emana un odore di merda che le ricorda la campagna dei bei vecchi tempi. I mutanti sono così presi a incensare la loro maschera che nessuno la nota, mentre si muove sull’asfalto con la grazia di una nutria rabbiosa.
Nella grossa tenda, gli escrementi riempiono l’aria. La Mariarita si riempie i polmoni, perché un profumo così naturale potrebbe non sentirlo mai più. Suddivisi a coppie in quattro grosse stalle colme di paglia e separate da transenne, otto buoi ruminano da un trogolo colmo di resti vegetali e umani ridotti a una polvere fine, roba da sindrome della mucca pazza. Ma, a parte un numero sbagliato di corna e un feto siamese che spunta da una gobba, gli esemplari sono perfetti e robusti come non se ne erano mai visti.
Allineati in fondo alla tenda, quattro birocci sono pronti a essere utilizzati per la tipica corsa dei buoi. Sono sempre stati legati alle tradizioni, i Vercessesi e, da quando i paesi dei dintorni sono stati fatti saltare in aria, hanno deciso di adottare tutte quelle che erano le usanze tipiche della provincia.
La Mariarita intinge un dito nel trogolo e lo lecca. Custi chi mangiu mej che mi, si trova a pensare.
È nervosa, si guarda intorno per qualche istante, poi si avvicina ai birocci. Dalla busta della spesa estrae un insieme di vecchie cinghie e cavi di trasmissione, e inizia ad armeggiare per produrre un’imbracatura. Con la coda dell’occhio vede la tenda scostarsi. Istintivamente porta la mano all’arma, e un mutante dalla pelle viscida fa il suo ingresso.
Sudori freddi, gambe arcuate, sguardo da batrace. Un altro che ha esagerato con il fritto di rane.
«Eh madamin, scusemi, lon ca t’fè ti chi denta?» chiede, e in quel momento la donna si accorge che l’avversario stringe già un fucile da caccia al cinghiale tra le zampe. Alzare l’arma significherebbe trovarsi bruciata.
«Mi? Ah, son ciuca.»
«Eh, chi dent l’è area riservata. Ma dimi n’poc, ti t’è la dona del Vasetu?»
«Eh» biascica lei, sperando di prendere la rana al laccio.
L’uomo-rana alza il fucile.
«Par mi ti t’è na scapà d’ca.»
La predatrice fa scattare le dita verso la pistola.
Poi la tenda si scosta nuovamente, e un altro mutante arriva a dare manforte.
Ieri
I colpi secchi della Mariarita sulla serranda blindata svegliano l’intera popolazione della palazzina cadente, composta principalmente da piccioni inferociti dalla mancanza di monumenti su cui cacare. Dopo due giorni passati a pedalare e a nascondersi nei fossi, la donna è riuscita ad arrivare a destinazione con tutti gli arti al loro posto.
«Livio, apri! So che t’è chi denta! Son la Marita!»
Un paio di fischi consecutivi provengono dall’interno.
«Cristu!» risponde lei al segnale convenuto.
La saracinesca motorizzata viene sollevata il necessario a farla passare. La Mariarita sguscia all’interno, e subito trova i ratti a farle compagnia. I cani da guardia sono inaffidabili, distratti dai troppi odori chimici. I roditori funzionano meglio, e sono anche buoni da mangiare.
Il Livio lo sa bene.
Il mutante si presenta sulla cima della prima rampa di scale. Occhiali rossi dalla montatura spessa su un viso vecchio e cadente, baffetti all’ultima moda del Terzo Reich, completo da domenica in chiesa più largo di due taglie. La Mariarita sa che è meglio non stargli troppo vicino – l’odore emesso dalle sue ghiandole sudorifere ultramutate è in grado di portare un uomo alla follia.
«Oh, bela bionda, t’è in ritard, Cristu! T’è purtami l’bianchin?»
La predatrice dai capelli neri apre la sacca ed estrae una bottiglia di plastica colma di liquido giallognolo. La lancia al Livio, che la afferra al volo e la vuota in un paio di sorsate. Vercessi, terra del Barbera. Ogni altro vino è vietato dalla legge del Bicciolano, ma il Livio ha bisogno del suo bianchino. La Mariarita e il Panzer sono i suoi corrieri a tempo pieno.
«Ah, ides sì c’al va ben. T’an ghiè ‘ncura quaicòs?»
«No Livio, l’è capità ‘na roba. Ai’en arestà al Panzer.»
La Mariarita spiega al Livio che il suo amico ha confuso la panissa vercessese con la paniscia noBarese, un errore che viene punito con la morte. Il vecchio mutante, privo di pissa e ora anche di corrieri, appare sconfortato.
«Duman ghi è la sagra d’la panissa. Al to amìs l’è già n’salam.»
«Dimi nen cusì, Livio! Duvuma fè quaicos, su!»
«Eh, duvuma fè quaicos… và campeti n’t la fioca.»
«Ghi è nen la fioca, Livio» risponde la Mariarita. L’ultima neve c’era stata durante l’inverno nucleare, poi solo umidità e inferno agli ultravioletti. «E ghi è gnanca al bianchin se ti m’de mija ‘na man!»
Il Livio pare pensieroso. L’odore dei suoi feromoni imbizzarriti riempie l’aria. La Mariarita afferra al volo il sacchetto di plastica e si mette a respirare al suo interno, come una vittima di un attacco di panico.
«Ghi è la solussion» dice lui dopo un po’.
Oggi
Quando il Livio barcolla nella tenda dei buoi, la Mariarita molla la pistola e s’affretta a tapparsi il naso. L’odore di merda viene spazzato via dall’afrore chimico proveniente dai vestiti del mutante bevi-pissa. L’uomo rana non fa in tempo a difendersi dall’attacco. Il fucile gli scivola tra le mani, poi lui crolla a terra sbavando, con un’espressione sghemba stampata in volto.
«T’è rivà finalment» sussurra la predatrice.
Il Livio non dice nulla, emette solo un lungo fischio e lancia un pacchetto alla donna, che lo afferra con la mano libera.
«Mi sac gnenti ad sa roba, eh.»
«Va tranquil, Livio. Va fòra dai bali, ad pensi mi a liberé al me amìs.»
Il Livio se ne esce, dopotutto anche lui ha diritto al suo piatto di panissa prima che il macello al C4 esploda. La Mariarita piazza il pacco sotto il biroccio imbracato e si allontana in silenzio.
La musica è ripresa, ora le colonne di amplificatori alte otto metri intonano oh munsu che caud mixata con l’amour tojour. La panissa, bollente come il crogiolo di una fonderia, sta venendo servita in piatti di plastica che si squagliano al solo contatto, così da creare quell’aroma di post-apocalisse che dà il tocco in più. Il salamatore viene portato nei pressi degli appesi, e senza troppe cerimonie il primo diavolaccio viene scagliato dentro, che gli insaccati per l’anno prossimo devono essere preparati. Le sue urla si mixano al mixaggio.
La Mariarita è felice che non sia il Panzer.
In breve, i buoi vengono condotti fuori dai loro alloggiamenti e preparati sulla linea di partenza. Assieme ai loro conducenti dovranno percorrere l’intera circonferenza dell’area feste due volte. Sparatorie e colpi bassi sono ovviamente consentiti.
Le quattro coppie di mutanti prescelti per questo onore prendono posto sui birocci, un paio si diserbano prima di iniziare, gli altri caricano i mitragliatori.
La Mariarita si avvicina all’impalcatura degli appesi.
Il Bicciolano si piazza vicino alla linea di partenza, un paio di damigelle si arrampicano sul mostro biomeccanico e ricevono la comunione con i biscotti alla cannella che portano il suo stesso nome. Poi, dai megafoni che gli fanno da corde vocali, il re urla il VIA! alla gara.
I mutanti si riparano dietro pannelli di lamiera e acciaio, i proiettili iniziano a volare tra gli equipaggi.
La Mariarita si fa un tiro di coca, poi estrae il telecomando che era nel pacchetto del Livio. Aspetta che i due birocci in testa giungano a metà del primo giro e preme il pulsante.
L’esplosione sconquassa l’area feste e fonde in un’unica massa gorgogliante le pile di piatti di plastica ancora inutilizzati. I mutanti impazziscono, le risaie-su-gambe più vicine si trovano con le piante in fiamme. Gli animali disintegrati trasformano la festa nella sagra del bue grasso.
Alimentata dalla droga, la Mariarita s’arrampica sull’impalcatura e sgancia il Panzer, che atterra incespicando e reggendosi l’uccello.
«’nduma, stùpid!» gli grida.
Un mutante più sveglio degli altri capisce cosa sta succedendo e si lancia verso i due brandendo un forcone arrugginito. La Mariarita lo fa incespicare, ma questo cade addosso al Panzer, spingendolo verso il salamatore. L’omone allunga un braccio per frenare la caduta, con l’unico risultato di infilarlo nelle fauci trituranti. La macchina si attiva, l’arto superiore sinistro del Panzer viene trasformato in poltiglia e mischiato a pepe, sale, aglio e vino. La donna lo spinge via, con un calcione butta il mutante nel macchinario e tira un paio di schiaffi al suo amico dal braccio mutilato, che sta gridando come uno sbarellato. Dalla sacca delle droghe prêt-à-porter sfodera una siringa di adrenalina e gliela schiaffa direttamente nella ferita sanguinolenta. Il Panzer urla, afferra dal macchinario i salami freschi ricavati dal suo braccio e si lancia verso l’uscita spintonando e schiacciando mutanti.
La Mariarita corre più lenta, e i mutanti hanno ormai capito cosa è accaduto.
Si guadagna l’uscita sparando e bestemmiando. Il gigante-orto è troppo impegnato a piangere i buoi affumicati per accorgersi dei proiettili che gli trapassano il cranio deforme.
Dai megafoni, il Bicciolano ringhia e fa rombare i motori. Le damigelle gli iniettano diserbante in quantità mortali, aprono tutti i serbatoi di diesel agricolo e si lanciano giù dal carro prima che la biomacchina decida che anche loro devono essere pasturate.
Il re del mattatoio travolge umani, mutanti, pentoloni ribollenti e cadaveri fumanti. La Mariarita spara a una vecchia a cavallo di una Graziella, gliela ciula e si lancia in mezzo alla Processione delle Macchine.
Il Panzer, quel coglione monco, s’è defilato. Alla faccia della gratitudine.
I piloti, cristiani ancora in pieno fervore religioso, fanno di tutto per tirarla sotto le ruote. Lei derapa rifacendosi tutta la fiancata destra, che rimane a ornare l’asfalto bollente.
Sbucciata come un bambino a cui hanno appena tolto le rotelline.
Il Bicciolano travolge e fa esplodere la prima delle Macchine Sacre, incurante di ogni conseguenza. A carnevale ogni scherzo vale, e la Mariarita è sua, rea di avergli rovinato la festa.
La donna capisce di avere una sola possibilità.
A testa bassa, pedalando sulla bici bianco sporco, si lancia verso un frontale assicurato con le restanti Macchine. I piloti lanciano un amen, il signore ha ascoltato le loro preghiere.
«An pé, ghi è la parsisiòn!» grida uno dal finestrino.
Il Bicciolano le è alle spalle, lei sente che il trituratore è sempre più vicino.
La predatrice frena, si ferma in mezzo al parcheggio infinito. Attende che i rombi dei motori e le urla del re dei mutanti siano più fastidiose della zanzara che ti ronza nell’orecchio di notte.
Poi, si butta di lato.
Il Bicciolano è potente, ma nemmeno lui può reggere a uno scontro frontale con l’intera Processione delle Macchine. L’esplosione diesel viene ulteriormente alimentata dai diserbanti nervini.
Fuoco atomico verde assenzio.
La metà escoriata della Mariarita viene inghiottita dalle fiamme. Se la sua carriera da spogliarellista era già chiusa, ora c’è proprio da metterci una croce sopra.
Riprende i sensi quando sente qualcosa di caldo carezzarle il volto. Il Panzer è chino su di lei, ancora pieno di adrenalina e altra merda chimica, ma ha avuto la grazia di trovare chissà dove delle mutande. Le sta accarezzando il volto semicarbonizzato con il braccio mutilato.
I salami sanguinolenti sono ancora ben stretti nell’altra mano.
«T’a ste ben?» le chiede.
«Ti t’è propri n’turluburlu.» bofonchia lei.
«Eh.»
Domani
A Vercessi l’umidità ti si attacca addosso, ti entra dentro, ti fonde la materia grigia.
Trovare un posto per far asciugare quei salami sarà un cazzo di casino.
Oggi
La Processione delle Macchine permanente impazza nell’area nuclearizzata ora trasformata in un parcheggio rigorosamente a pagamento. Dopo la scia di distruzione causata dai diserbanti ad alto tasso di mutageni, dalle zanzare giganti, dalla rata vuloira colossale e, infine, dalla bomba H, i gruppi statuari lignei dedicati alla passione di Gesù Cristo sono stati ridotti in cenere e sostituiti da bolidi coperti di spuntoni rugginosi. La nuova passione è messa in scena da tutti coloro che vengono trasformati in scie di sangue sull’asfalto.
La Mariarita attraversa la strada bestemmiando. La sua speranza di non farsi tirare sotto viene esaudita dalla preferenza dei piloti nel prendere di mira i vecchi in bicicletta.
Una coppia di mutanti dalla pelle color merda, sudati come il sottopalla di un maratoneta, si avvicinano alla donna che avanza con aria minacciosa. Hanno dei forconi stretti tra mani abnormi su cui cresce ogni genere di vegetazione contaminata, in particolare il riso che nel Vercessese non può mai mancare. I bulbi piliferi sono stati sostituiti da chicchi ad alto livello di tossine.
«Lon ca t’voeli ti?» dice uno agitando l’arma minaccioso.
«Ch’at levi dai bali sùbit, bidulu.»
Non osano contraddire la Mariarita. Ex-spogliarellista del ConTatto, ex-metalmeccanica, ex-campionessa di lotta greco-romana-druidica, che è come la lotta greco-romana ma con un falcetto stretto tra i denti. Mostra il cannone che porta alla cintura e indica il cannone tra le gambe dei mutanti con un dito.
«Bang-bang» sussurra, e i mutanti si levano di torno.
Un’altra coppia di risaie-su-gambe sta di guardia all’ingresso della vasta piazza invasa dai tendaggi bianchi, da cui provengono urla folli e gieubi di capusin in versione grindcore sparata a volumi da suicidio. Sembrano essere abbastanza quieti, anche se dalla piazza vanno e vengono predoni e merdame umanoide vario. L’enorme cartello tratteggiato con il sangue recita
SAGRA D’LA PANISSA VERCESSESE
NO NOBARESI
DADACHI AS BEV LA BARBERASA
La Mariarita estrae dal sacchetto di plastica un vecchio numero di Vita in Campagna e lo consegna alla guardia all’ingresso, che le stacca un talloncino per un bicchiere di Barbera guardandola in cagnesco con i suoi tre occhi, di cui due ciechi.
Vercessesi, falsi e cortesi. Il fuoco atomico non li ha cambiati.
Nella bolgia infernale della sagra, vecchie ingobbite con più o meno arti del normale si lanciano in passi di danza convulsa con giovanotti che paiono aver smarrito la materia grigia nel vano della mietitrebbia. Per alcuni non è solamente un modo di dire.
La Mariarita lascia correre lo sguardo in cerca di qualcosa di preciso. Al centro della piazza, una fila di risaie-su-gambe si assiepa davanti a un pentolone ribollente e si da una grattata alla pelle marcia, facendo scivolare una cascata di chicchi sudati nell’orgia di fagioli, lardo e salam d’la duja.
Il giusto tributo: se vuoi mangiare, devi essere mangiato. Ormai funziona così.
Dopo essersi fatta riempire il corno di bue da una ragazzina sudaticcia, senza denti in bocca ma con molti denti che le sbucano dalla fronte, la donna dà una sorsata alla barberasa bela spèssa e centra gli occhi sul suo obiettivo.
Il Panzer sembra un incrocio tra il pelato di Brazzers e il Bud Spencer degli anni migliori, ma ora, nudo come un neonato, con un buco rappezzato in pancia e appeso a un’impalcatura di metallo assieme a cinque altri poveri cristi, sembra solo un enorme maiale sudato.
«Varda-là, al farabulon.»
Non avrebbe avuto altre possibilità per salvargli il culo. La Mariarita trangugia ciò che resta del suo vino e si mette all’opera per fare ciò che sa fare meglio.
Tre giorni fa
«Pijé ‘sta strada è stata ‘na gran cagà» strilla la Mariarita.
«Risparmiamo tempo, la cunsegna l’è stasera» borbotta Panzer mentre pedala con il fiatone. «Prima il Livio ha la pissa, prima turnuma a ca cu i sold.»
Le biciclette dei due sfrecciano sulla ex-statale Vercessi-NoBara, territorio di guerra permanente per il controllo delle ultime risaie-su-terra solo vagamente contaminate. Giorno e notte percorsa da bande di predoni mutanti, all’alba e al tramonto invasa da zanzare in grado di prosciugare una vacca di sette quintali in tredici secondi netti.
In ogni momento, un posto di merda.
Il rombo di un motore in lontananza trasforma i due in Pantani quando vinceva, ma non è sufficiente a metterli in salvo. La carne è debole, e gli agricoltori Vercessesi sanno che il metallo è destinato a vincere.
Quando la banda motorizzata sgasa con le gomme lisce sull’asfalto semisciolto è già troppo tardi. Il gruppo di zappaterra mutanti, armati di rastrelli e vecchie spingarde, salta fuori dalla cabina del Kubota V8 che si piazza al centro esatto della strada, bloccando ogni possibile via di fuga che non sia tornare verso NoBara. Ma ciò vorrebbe dire disegnarsi un bersaglio sulla schiena.
Il Panzer avvicina le dita al fucile a canne mozze, ma uno sguardo della Mariarita è sufficiente a placarlo. Gli agricoltori hanno tutti un numero di occhi dispari e svapano diserbanti come se non ci fosse un domani.
«NoBaresi?» chiede il capo, l’unico con cinque occhi e una zappatrice automatica innestata al posto del braccio sinistro.
«Ah, fa che dilu. Mi sun varsleisa.» ironizza la Mariarita.
I mutanti sembrano apprezzare il dialetto della donna. Motozappa indica il Panzer con il capo pentaocchiuto.
«Anca mi sun ad Varsej» risponde lui, incerto. Ma gli agricoltori capiscono dall’accento che qualcosa non torna. La Mariarita sa che il Panzer viene da MilAno e il dialetto della zona l’ha imparato a spizzichi e bocconi, solo perché ha capito che era il modo migliore per sopravvivere.
Il gruppetto avanza, spinge lontano la predatrice e la sua bicicletta, circonda il nerboruto compagno.
«’ntla panissa al va la verza?» chiede uno.
La Mariarita scuote il capo ferocemente, sperando che il suo ignorante amico colga il gesto. Ma lui, incurante del futuro e troppo orgoglioso per giocarsi l’aiuto del pubblico, decide che la mossa più saggia consiste nel rispondere a casaccio.
«Sì».
Il dagli-al-NoBarese è feroce e repentino. Motozappa affonda il braccio meccanico nelle carni molli del Panzer, mentre gli altri ci danno dentro a colpirlo con i rastrelli manco fosse un cane feroce.
La Mariarita estrae il cannone, spara un paio di colpi, ma il gruppo è troppo diserbato per sentire il dolore. I proiettili ronzano più rumorosi delle zanzare. La predatrice viene colpita di striscio a una gamba, monta sulla bici e si lancia in una pedalata feroce. Gli agricoltori perdono troppo tempo per fare inversione con il trattore sulla stretta strada, e lei riesce a defilarsi.
Il Panzer, mezzo dissanguato, perde i sensi ricordandosi che una volta la Mariarita gli aveva detto che in quella provincia la differenza tra panissa e paniscia è fondamentale come la differenza tra acqua e veleno.
Oggi
Il Panzer lancia un’occhiata supplice alla Mariarita, ma proprio in quel momento lo strazio sonoro viene interrotto. Al ritmo dei motori dei trattori truccati, il Bicciolano fa il suo ingresso nel parco feste.
Un tempo maschera dominante del carnevale Vercessese, ora mezzo busto mutante intossicato dai diserbanti, innestato su un carro biomeccanico munito di spara-petardi e fauce triturante a prua. Il tricorno marrone è saldamente bullonato sul cranio esposto.
Da re del carnevale, a re del mattatoio. La carne vale, dopo la bomba H.
Dietro di lui, una parata di fighetti abbruttiti dall’alcol, damigelle imbustate in sacchi della spazzatura, lanciatori di caramelle al gusto biodiesel. Infine, spinto da un mutante largo quanto un minivan messo di traverso, sulla cui schiena cresce un intero orto botanico, spunta il salamatore: un macchinario in grado di frullare, insaccare e mettere sotto grasso cento chili di carne al minuto. I maiali non hanno retto al fallout, ora per fare il salam d’la duja viene usato il porco a due zampe.
Il Panzer è già stato marchiato a fuoco dal suo allevatore.
Lesta, la Mariarita abbandona i festeggiamenti e si dirige verso un tendaggio che emana un odore di merda che le ricorda la campagna dei bei vecchi tempi. I mutanti sono così presi a incensare la loro maschera che nessuno la nota, mentre si muove sull’asfalto con la grazia di una nutria rabbiosa.
Nella grossa tenda, gli escrementi riempiono l’aria. La Mariarita si riempie i polmoni, perché un profumo così naturale potrebbe non sentirlo mai più. Suddivisi a coppie in quattro grosse stalle colme di paglia e separate da transenne, otto buoi ruminano da un trogolo colmo di resti vegetali e umani ridotti a una polvere fine, roba da sindrome della mucca pazza. Ma, a parte un numero sbagliato di corna e un feto siamese che spunta da una gobba, gli esemplari sono perfetti e robusti come non se ne erano mai visti.
Allineati in fondo alla tenda, quattro birocci sono pronti a essere utilizzati per la tipica corsa dei buoi. Sono sempre stati legati alle tradizioni, i Vercessesi e, da quando i paesi dei dintorni sono stati fatti saltare in aria, hanno deciso di adottare tutte quelle che erano le usanze tipiche della provincia.
La Mariarita intinge un dito nel trogolo e lo lecca. Custi chi mangiu mej che mi, si trova a pensare.
È nervosa, si guarda intorno per qualche istante, poi si avvicina ai birocci. Dalla busta della spesa estrae un insieme di vecchie cinghie e cavi di trasmissione, e inizia ad armeggiare per produrre un’imbracatura. Con la coda dell’occhio vede la tenda scostarsi. Istintivamente porta la mano all’arma, e un mutante dalla pelle viscida fa il suo ingresso.
Sudori freddi, gambe arcuate, sguardo da batrace. Un altro che ha esagerato con il fritto di rane.
«Eh madamin, scusemi, lon ca t’fè ti chi denta?» chiede, e in quel momento la donna si accorge che l’avversario stringe già un fucile da caccia al cinghiale tra le zampe. Alzare l’arma significherebbe trovarsi bruciata.
«Mi? Ah, son ciuca.»
«Eh, chi dent l’è area riservata. Ma dimi n’poc, ti t’è la dona del Vasetu?»
«Eh» biascica lei, sperando di prendere la rana al laccio.
L’uomo-rana alza il fucile.
«Par mi ti t’è na scapà d’ca.»
La predatrice fa scattare le dita verso la pistola.
Poi la tenda si scosta nuovamente, e un altro mutante arriva a dare manforte.
Ieri
I colpi secchi della Mariarita sulla serranda blindata svegliano l’intera popolazione della palazzina cadente, composta principalmente da piccioni inferociti dalla mancanza di monumenti su cui cacare. Dopo due giorni passati a pedalare e a nascondersi nei fossi, la donna è riuscita ad arrivare a destinazione con tutti gli arti al loro posto.
«Livio, apri! So che t’è chi denta! Son la Marita!»
Un paio di fischi consecutivi provengono dall’interno.
«Cristu!» risponde lei al segnale convenuto.
La saracinesca motorizzata viene sollevata il necessario a farla passare. La Mariarita sguscia all’interno, e subito trova i ratti a farle compagnia. I cani da guardia sono inaffidabili, distratti dai troppi odori chimici. I roditori funzionano meglio, e sono anche buoni da mangiare.
Il Livio lo sa bene.
Il mutante si presenta sulla cima della prima rampa di scale. Occhiali rossi dalla montatura spessa su un viso vecchio e cadente, baffetti all’ultima moda del Terzo Reich, completo da domenica in chiesa più largo di due taglie. La Mariarita sa che è meglio non stargli troppo vicino – l’odore emesso dalle sue ghiandole sudorifere ultramutate è in grado di portare un uomo alla follia.
«Oh, bela bionda, t’è in ritard, Cristu! T’è purtami l’bianchin?»
La predatrice dai capelli neri apre la sacca ed estrae una bottiglia di plastica colma di liquido giallognolo. La lancia al Livio, che la afferra al volo e la vuota in un paio di sorsate. Vercessi, terra del Barbera. Ogni altro vino è vietato dalla legge del Bicciolano, ma il Livio ha bisogno del suo bianchino. La Mariarita e il Panzer sono i suoi corrieri a tempo pieno.
«Ah, ides sì c’al va ben. T’an ghiè ‘ncura quaicòs?»
«No Livio, l’è capità ‘na roba. Ai’en arestà al Panzer.»
La Mariarita spiega al Livio che il suo amico ha confuso la panissa vercessese con la paniscia noBarese, un errore che viene punito con la morte. Il vecchio mutante, privo di pissa e ora anche di corrieri, appare sconfortato.
«Duman ghi è la sagra d’la panissa. Al to amìs l’è già n’salam.»
«Dimi nen cusì, Livio! Duvuma fè quaicos, su!»
«Eh, duvuma fè quaicos… và campeti n’t la fioca.»
«Ghi è nen la fioca, Livio» risponde la Mariarita. L’ultima neve c’era stata durante l’inverno nucleare, poi solo umidità e inferno agli ultravioletti. «E ghi è gnanca al bianchin se ti m’de mija ‘na man!»
Il Livio pare pensieroso. L’odore dei suoi feromoni imbizzarriti riempie l’aria. La Mariarita afferra al volo il sacchetto di plastica e si mette a respirare al suo interno, come una vittima di un attacco di panico.
«Ghi è la solussion» dice lui dopo un po’.
Oggi
Quando il Livio barcolla nella tenda dei buoi, la Mariarita molla la pistola e s’affretta a tapparsi il naso. L’odore di merda viene spazzato via dall’afrore chimico proveniente dai vestiti del mutante bevi-pissa. L’uomo rana non fa in tempo a difendersi dall’attacco. Il fucile gli scivola tra le mani, poi lui crolla a terra sbavando, con un’espressione sghemba stampata in volto.
«T’è rivà finalment» sussurra la predatrice.
Il Livio non dice nulla, emette solo un lungo fischio e lancia un pacchetto alla donna, che lo afferra con la mano libera.
«Mi sac gnenti ad sa roba, eh.»
«Va tranquil, Livio. Va fòra dai bali, ad pensi mi a liberé al me amìs.»
Il Livio se ne esce, dopotutto anche lui ha diritto al suo piatto di panissa prima che il macello al C4 esploda. La Mariarita piazza il pacco sotto il biroccio imbracato e si allontana in silenzio.
La musica è ripresa, ora le colonne di amplificatori alte otto metri intonano oh munsu che caud mixata con l’amour tojour. La panissa, bollente come il crogiolo di una fonderia, sta venendo servita in piatti di plastica che si squagliano al solo contatto, così da creare quell’aroma di post-apocalisse che dà il tocco in più. Il salamatore viene portato nei pressi degli appesi, e senza troppe cerimonie il primo diavolaccio viene scagliato dentro, che gli insaccati per l’anno prossimo devono essere preparati. Le sue urla si mixano al mixaggio.
La Mariarita è felice che non sia il Panzer.
In breve, i buoi vengono condotti fuori dai loro alloggiamenti e preparati sulla linea di partenza. Assieme ai loro conducenti dovranno percorrere l’intera circonferenza dell’area feste due volte. Sparatorie e colpi bassi sono ovviamente consentiti.
Le quattro coppie di mutanti prescelti per questo onore prendono posto sui birocci, un paio si diserbano prima di iniziare, gli altri caricano i mitragliatori.
La Mariarita si avvicina all’impalcatura degli appesi.
Il Bicciolano si piazza vicino alla linea di partenza, un paio di damigelle si arrampicano sul mostro biomeccanico e ricevono la comunione con i biscotti alla cannella che portano il suo stesso nome. Poi, dai megafoni che gli fanno da corde vocali, il re urla il VIA! alla gara.
I mutanti si riparano dietro pannelli di lamiera e acciaio, i proiettili iniziano a volare tra gli equipaggi.
La Mariarita si fa un tiro di coca, poi estrae il telecomando che era nel pacchetto del Livio. Aspetta che i due birocci in testa giungano a metà del primo giro e preme il pulsante.
L’esplosione sconquassa l’area feste e fonde in un’unica massa gorgogliante le pile di piatti di plastica ancora inutilizzati. I mutanti impazziscono, le risaie-su-gambe più vicine si trovano con le piante in fiamme. Gli animali disintegrati trasformano la festa nella sagra del bue grasso.
Alimentata dalla droga, la Mariarita s’arrampica sull’impalcatura e sgancia il Panzer, che atterra incespicando e reggendosi l’uccello.
«’nduma, stùpid!» gli grida.
Un mutante più sveglio degli altri capisce cosa sta succedendo e si lancia verso i due brandendo un forcone arrugginito. La Mariarita lo fa incespicare, ma questo cade addosso al Panzer, spingendolo verso il salamatore. L’omone allunga un braccio per frenare la caduta, con l’unico risultato di infilarlo nelle fauci trituranti. La macchina si attiva, l’arto superiore sinistro del Panzer viene trasformato in poltiglia e mischiato a pepe, sale, aglio e vino. La donna lo spinge via, con un calcione butta il mutante nel macchinario e tira un paio di schiaffi al suo amico dal braccio mutilato, che sta gridando come uno sbarellato. Dalla sacca delle droghe prêt-à-porter sfodera una siringa di adrenalina e gliela schiaffa direttamente nella ferita sanguinolenta. Il Panzer urla, afferra dal macchinario i salami freschi ricavati dal suo braccio e si lancia verso l’uscita spintonando e schiacciando mutanti.
La Mariarita corre più lenta, e i mutanti hanno ormai capito cosa è accaduto.
Si guadagna l’uscita sparando e bestemmiando. Il gigante-orto è troppo impegnato a piangere i buoi affumicati per accorgersi dei proiettili che gli trapassano il cranio deforme.
Dai megafoni, il Bicciolano ringhia e fa rombare i motori. Le damigelle gli iniettano diserbante in quantità mortali, aprono tutti i serbatoi di diesel agricolo e si lanciano giù dal carro prima che la biomacchina decida che anche loro devono essere pasturate.
Il re del mattatoio travolge umani, mutanti, pentoloni ribollenti e cadaveri fumanti. La Mariarita spara a una vecchia a cavallo di una Graziella, gliela ciula e si lancia in mezzo alla Processione delle Macchine.
Il Panzer, quel coglione monco, s’è defilato. Alla faccia della gratitudine.
I piloti, cristiani ancora in pieno fervore religioso, fanno di tutto per tirarla sotto le ruote. Lei derapa rifacendosi tutta la fiancata destra, che rimane a ornare l’asfalto bollente.
Sbucciata come un bambino a cui hanno appena tolto le rotelline.
Il Bicciolano travolge e fa esplodere la prima delle Macchine Sacre, incurante di ogni conseguenza. A carnevale ogni scherzo vale, e la Mariarita è sua, rea di avergli rovinato la festa.
La donna capisce di avere una sola possibilità.
A testa bassa, pedalando sulla bici bianco sporco, si lancia verso un frontale assicurato con le restanti Macchine. I piloti lanciano un amen, il signore ha ascoltato le loro preghiere.
«An pé, ghi è la parsisiòn!» grida uno dal finestrino.
Il Bicciolano le è alle spalle, lei sente che il trituratore è sempre più vicino.
La predatrice frena, si ferma in mezzo al parcheggio infinito. Attende che i rombi dei motori e le urla del re dei mutanti siano più fastidiose della zanzara che ti ronza nell’orecchio di notte.
Poi, si butta di lato.
Il Bicciolano è potente, ma nemmeno lui può reggere a uno scontro frontale con l’intera Processione delle Macchine. L’esplosione diesel viene ulteriormente alimentata dai diserbanti nervini.
Fuoco atomico verde assenzio.
La metà escoriata della Mariarita viene inghiottita dalle fiamme. Se la sua carriera da spogliarellista era già chiusa, ora c’è proprio da metterci una croce sopra.
Riprende i sensi quando sente qualcosa di caldo carezzarle il volto. Il Panzer è chino su di lei, ancora pieno di adrenalina e altra merda chimica, ma ha avuto la grazia di trovare chissà dove delle mutande. Le sta accarezzando il volto semicarbonizzato con il braccio mutilato.
I salami sanguinolenti sono ancora ben stretti nell’altra mano.
«T’a ste ben?» le chiede.
«Ti t’è propri n’turluburlu.» bofonchia lei.
«Eh.»
Domani
A Vercessi l’umidità ti si attacca addosso, ti entra dentro, ti fonde la materia grigia.
Trovare un posto per far asciugare quei salami sarà un cazzo di casino.
Ultima modifica di maurizio.ferrero il venerdì 17 maggio 2019, 10:44, modificato 1 volta in totale.
- maurizio.ferrero
- Messaggi: 529
Re: Salam d'la duja e altre specialità locali
Mi metto in lizza per entrambi i bonus: Italia Napalm e Dialetto (entrambi del Vercellese)
- Luca Nesler
- Messaggi: 727
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Re: Salam d'la duja e altre specialità locali
Ciao Maurizio! La sfida è il tuo pane, eh? Il tuo racconto mi è piaciuto un sacco. Per alcuni versi il tuo e quello di Eugene sono quelli coi mutanti più schifomerdamaledetta. Davvero disgustosi, da leccarsi i baffi.
L'ambientazione della sagra è davvero figa e anche lo stile colorito e sporco funziona molto bene per renderla al meglio.
Carino l'intreccio e interessante lo svolgimento e l'azione. Molto "sangue e merda".
Unico appunto che si apre ad una discussione sui bonus: il tuo è l'unico racconto in cui, nelle parti dialettali, non ho capito nulla.
O meglio, è l'unico in cui mi è sembrato di perdermi qualcosa. Ammetto che, essendo bolzanino, i dialetti in generale sono davvero ostici. Non ne parlo nessuno. Il fatto è che le soluzioni per il bonus che ho individuato erano 3:
1- scrivo parti in dialetto anche se qualcuno non le capirà, perché resto coerente all'ambientazione;
2- scrivo poco dialetto e in cose che anche se non si capiscono fa lo stesso (come imprecazioni, p.es.) giusto per toccare il bonus;
3- metto un personaggio che traduca le frasi per qualche altro personaggio.
Ogni soluzione presenta pregi e difetti. Non mi sento di dirti che hai sbagliato, ma ti segnalo solo il fatto.
Per il resto non ho proprio nulla da dire. Complimenti!
dimenticavo i bonus: presenti entrambi!
L'ambientazione della sagra è davvero figa e anche lo stile colorito e sporco funziona molto bene per renderla al meglio.
Carino l'intreccio e interessante lo svolgimento e l'azione. Molto "sangue e merda".
Unico appunto che si apre ad una discussione sui bonus: il tuo è l'unico racconto in cui, nelle parti dialettali, non ho capito nulla.
O meglio, è l'unico in cui mi è sembrato di perdermi qualcosa. Ammetto che, essendo bolzanino, i dialetti in generale sono davvero ostici. Non ne parlo nessuno. Il fatto è che le soluzioni per il bonus che ho individuato erano 3:
1- scrivo parti in dialetto anche se qualcuno non le capirà, perché resto coerente all'ambientazione;
2- scrivo poco dialetto e in cose che anche se non si capiscono fa lo stesso (come imprecazioni, p.es.) giusto per toccare il bonus;
3- metto un personaggio che traduca le frasi per qualche altro personaggio.
Ogni soluzione presenta pregi e difetti. Non mi sento di dirti che hai sbagliato, ma ti segnalo solo il fatto.
Per il resto non ho proprio nulla da dire. Complimenti!
dimenticavo i bonus: presenti entrambi!
- maurizio.ferrero
- Messaggi: 529
Re: Salam d'la duja e altre specialità locali
Grazie per il commento, Luca.
Sulla questione dialetto ho scelto la soluzione 1 tra quelle che hai evidenziato, ben consapevole che non sarebbe stato capito da nessuno. Il dialetto vercellese risulta abbastanza incomprensibile a chi non è della provincia, pure i Torinesi fanno fatica a capirci. Per assurdo ha molte più somiglianze con il francese che con l'italiano (forse perché siamo dei mangiarane pure noi).
Ti rassicuro però su una cosa: detto fuori dai denti, i dialoghi non sono importanti. Per godere del racconto è sufficiente capire il senso generale di ciò che i personaggi si dicono. Ho tentato oltretutto di tenerli al minimo e far sì che tutti i contesti venissero resi immediatamente chiari dalle situazioni di contorno, anche se il dettaglio di ogni singola parola dei personaggi può mancare.
Ci sono riuscito? Non lo so, dovete dirmelo voi. Sono pronto a risolvere ogni dubbio.
Sulla questione dialetto ho scelto la soluzione 1 tra quelle che hai evidenziato, ben consapevole che non sarebbe stato capito da nessuno. Il dialetto vercellese risulta abbastanza incomprensibile a chi non è della provincia, pure i Torinesi fanno fatica a capirci. Per assurdo ha molte più somiglianze con il francese che con l'italiano (forse perché siamo dei mangiarane pure noi).
Ti rassicuro però su una cosa: detto fuori dai denti, i dialoghi non sono importanti. Per godere del racconto è sufficiente capire il senso generale di ciò che i personaggi si dicono. Ho tentato oltretutto di tenerli al minimo e far sì che tutti i contesti venissero resi immediatamente chiari dalle situazioni di contorno, anche se il dettaglio di ogni singola parola dei personaggi può mancare.
Ci sono riuscito? Non lo so, dovete dirmelo voi. Sono pronto a risolvere ogni dubbio.
Re: Salam d'la duja e altre specialità locali
Salam d’la duja e altre specialità locali
La gestione degli spazi ricrea in maniera vivida, locale e paesaggistica, i luoghi del vercellese: la realtà campagnola, rozza ma sincera, accoglie il napalm e i mutanti tra le sue risaie, sfila salami e processioni, ne dopa le zanzare e si fa di diserbanti. Il tema della contaminazione gioca con i tratti intrinseci del territorio e li denuncia, esaltandoli: il Crollo è già cominciato, e i nostalgici lo combattono respirando a pieni polmoni il concime vaccino, naturale e rassicurante. L’utilizzo del dialetto, spontaneo e abbondante, non è sempre di immediata comprensione, ma insaporisce, crea malintesi campanilistici e fomenta la violenza. Questo lo scenario in cui si muove la Mariarita, energica protagonista del racconto. Emblema di una vitalità popolare incrollabile, mai rassegnata, porta avanti la sua missione di salvataggio del Panzer, voluminoso ma defilato partner, nonostante la tragicità della situazione. È rozza ma sincera, come la realtà campagnola che rappresenta: affaccendata e operosa, quasi allegra, nella sua determinazione matriarcale. Comanda lei, fa tutto lei, agisce e non pensa, perché il suo pensiero si traduce immediatamente in azione. Il più delle volte si tratta di azioni violente o imprecazioni che sfociano nel pulp o nello splatter, ma la Mariarita non ne prova vergogna. In effetti, non si sa mai ciò che prova davvero: sia lirismo che introspezione sono sacrificati a favore di un’esteriorità esplosiva, tutta volta alla superficie. Ciò è coerente con il personaggio, ma lo lascia irrisolto, come se mancasse qualcosa di importante. Un’emozione intima, umana, di cui si scorge una traccia solo nell’escoriazione finale, prova di una vulnerabilità che intenerisce, e su cui si poteva insistere di più. Infine, la disposizione degli avvenimenti in un intreccio articolato è segno di ricerca strutturale, interessante, ma forse, per certi aspetti, eccessiva e feticistica. In un racconto in cui campagna e mutagene vanno a spasso in bicicletta, la disposizione dei vari blocchi può avvicinarsi maggiormente alla fabula e spianare la strada per renderla più agevole, spontanea.
(Ok entrambi i bonus)
La gestione degli spazi ricrea in maniera vivida, locale e paesaggistica, i luoghi del vercellese: la realtà campagnola, rozza ma sincera, accoglie il napalm e i mutanti tra le sue risaie, sfila salami e processioni, ne dopa le zanzare e si fa di diserbanti. Il tema della contaminazione gioca con i tratti intrinseci del territorio e li denuncia, esaltandoli: il Crollo è già cominciato, e i nostalgici lo combattono respirando a pieni polmoni il concime vaccino, naturale e rassicurante. L’utilizzo del dialetto, spontaneo e abbondante, non è sempre di immediata comprensione, ma insaporisce, crea malintesi campanilistici e fomenta la violenza. Questo lo scenario in cui si muove la Mariarita, energica protagonista del racconto. Emblema di una vitalità popolare incrollabile, mai rassegnata, porta avanti la sua missione di salvataggio del Panzer, voluminoso ma defilato partner, nonostante la tragicità della situazione. È rozza ma sincera, come la realtà campagnola che rappresenta: affaccendata e operosa, quasi allegra, nella sua determinazione matriarcale. Comanda lei, fa tutto lei, agisce e non pensa, perché il suo pensiero si traduce immediatamente in azione. Il più delle volte si tratta di azioni violente o imprecazioni che sfociano nel pulp o nello splatter, ma la Mariarita non ne prova vergogna. In effetti, non si sa mai ciò che prova davvero: sia lirismo che introspezione sono sacrificati a favore di un’esteriorità esplosiva, tutta volta alla superficie. Ciò è coerente con il personaggio, ma lo lascia irrisolto, come se mancasse qualcosa di importante. Un’emozione intima, umana, di cui si scorge una traccia solo nell’escoriazione finale, prova di una vulnerabilità che intenerisce, e su cui si poteva insistere di più. Infine, la disposizione degli avvenimenti in un intreccio articolato è segno di ricerca strutturale, interessante, ma forse, per certi aspetti, eccessiva e feticistica. In un racconto in cui campagna e mutagene vanno a spasso in bicicletta, la disposizione dei vari blocchi può avvicinarsi maggiormente alla fabula e spianare la strada per renderla più agevole, spontanea.
(Ok entrambi i bonus)
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Re: Salam d'la duja e altre specialità locali
Maurizio utilizza entrambi i bonus con comprovata capacità narrativa, un dialetto oscuro ai miei occhi centro-italici eppure non necessario per apprezzare il racconto, anzi risulta essere un orpello linguistico che aiuta a tratteggiare l'ambientazione pimpante e punk-merda di una sagra di paese post-cataclismatica. Apprezzata la tripartizione ieri/oggi/domani che dà un retrogusto pulp al racconto, buon registro linguistico e ritmo nello sviscerare mutanti e vicende.
Re: Salam d'la duja e altre specialità locali
Probabilmente il racconto più fedele al paradigma Riviera Napalm, truculento, rurale, un po' cafone e molto italico.
Le parti dialettatali, non sempre semplici da interpretare, ma nemmeno di impossibile traduzione, sono molto efficaci per dipingere lo scenario in cui si svolge l'azione.
Trama svolta in modo efficace, molto divertente, si lascia leggere scorrevolmente.
Le parti dialettatali, non sempre semplici da interpretare, ma nemmeno di impossibile traduzione, sono molto efficaci per dipingere lo scenario in cui si svolge l'azione.
Trama svolta in modo efficace, molto divertente, si lascia leggere scorrevolmente.
La frase più pericolosa in assoluto è: Abbiamo sempre fatto così.
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