Semifinale Simona Mangiapelo

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo aprile sveleremo il tema deciso da Luca Verducchi e Danilo Bultrini. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Simona Mangiapelo

Messaggio#1 » domenica 2 maggio 2021, 16:24

Immagine

Eccoci alla seconda parte de La Sfida a 80 voglia di ammazzarti
Combattono in questa semifinale:

Kobayashi Palace, di Pretorian
Vip on demand, di Alessandro Cannella

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: martedì 4 maggio alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 4 maggio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Pretorian
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Re: Semifinale Simona Mangiapelo

Messaggio#2 » martedì 4 maggio 2021, 21:46

Kobayashi Palace

Le cime dei palazzi sono isole che emergono dal mare di smog. Una foschia impenetrabile, che le luci dei neon pubblicitari colorano di viola. Nakamura beve un paio di sorsi di liquore: è forte, gli scalda lo stomaco. Rovescia il resto del contenuto del bicchiere oltre il parapetto e lo osserva scomparire nel muro di nebbia. Un tributo a un’altra vita.
Passi alle sue spalle. Si volta. Nella penombra della terrazza è comparsa una donna. Lunghi capelli biondi. Labbra cremisi incastonate in un volto di porcellana. Curve piene sotto un vestito bianco, sottile come spuma marina.
- Sei in ritardo.
- Un buon lavoro richiede tempo per essere portato a termine.
Nakamura annuisce.
- Sono morti tutti?
Lei fa un passo avanti. Sorride.
- Hanno sofferto?
La donna fa cenno di sì con la testa.
- E il vecchio Kobayashi?
- Lui più di tutti.
Nakamura si avvicina al tavolino. Vi lascia sopra il bicchiere.
- Raccontami tutto.

Su una delle poltrone della hall è seduto un giovane vestito di gessato scuro. Si alza e la raggiunge.
- Buonasera, Vanessa. Le foto dell’agenzia non ti rendono giustizia: dal vivo sei ancora più bella.
- Lei mi lusinga, signor Nakatomi.
L’uomo comincia a toccarla. Le sfiora le cosce, la schiena e il collo, poi le palpa i seni.
- Si, il signor Kobayashi sarà contento della mia scelta…
- Farò del mio meglio per compiacerlo. In fondo, non si fanno ottant’anni tutti i giorni.
Nakatomi scoppia a ridere.
- Hai ragione: meglio far sparare al vecchio le sue ultime cartucce, finché ne ha la possibilità!
Le cinge il collo con un braccio e la conduce verso una porta metallica. È un ascensore panoramico: attraverso le pareti trasparenti si intravede tutta la parte occidentale della città, dalle strade asfiatte dai palazzi alla cappa di smog che oscura il cielo. Nakatomi digita alcuni comandi sulla tastiera e l’apparecchio comincia a salire. L’uomo le si avvicina e appoggia la testa sulle sue spalle.
- Ti piace il panorama?
- Non molto: da questa angolazione si vedono solo i sobborghi e l’area industriale.
- È questo il bello: da qui ci si può rendere conto della distanza che separa quelli come noi dai disgraziati che strisciano lì sotto.
Le si stringe ancora di più. Ricomincia a toccarla. Le sue mani tremano di desiderio. Vanessa lo lascia fare.
- È da molto tempo che non scende ai livelli inferiori, signor Nakatomi?
- Almeno dieci anni: se ne ho bisogno, c’è qualcuno che può farlo al posto mio –indica il cielo coperto. – Quando sarò arrivato lì sopra, potrò dimenticarmi di tutto questo lerciume e fare la vita che merito.
Torna a infilarle entrambe le mani sotto il vestito. Il tocco si fa rude e la sua erezione comincia a premere contro la schiena di Vanessa.
- Un tassello alla volta e mi guadagnerò il mio posto al sole… potrei anche portarti con me, se fai la brava…
Si allontana da lei e preme un comando sulla tastiera. L’ascensore si blocca. Vanessa si volta.
- Cosa sta facendo, signor Nakatomi?
L’uomo torna da lei. La spinge contro il vetro.
- La festa è appena all’inizio, abbiamo tempo.
- Pensavo di essere destinata al signor Kobayashi
– Ho pagato per un’intera notte di servizi e scommetto che il vecchio non sarà in grado di andare oltre una ventina di minuti - Nakatomi tenta di liberare l’erezione dai pantaloni stretti. Le mani sudate scivolano sulla zip. - Direi che c’è spazio per farmi dare un assaggio…
Vanessa sorride e lo abbraccia.
- E se fossi io ad assaggiarti?
Lo bacia. L’uomo risponde infilandole la lingua in bocca fin quasi alla gola. Lei serra le fauci e gliela stacca con un morso.
Nakatomi si fa indietro. Sputa fiotti di sangue. Strabuzza gli occhi. Infila una mano sotto la giacca. Vanessa gliela blocca prima che possa estrarre la pistola e gli punta l’indice della sinistra contro il volto. L’artiglio scatta fuori dal dito, spappola l’occhio dell’uomo e gli affonda fin dentro il cervello.
Nakatomi ha uno spasmo e scivola a terra.
Vanessa gli sputa in faccia la sua lingua.
- Fai persino più schifo di quanto mi aspettassi.
Digita un comando sulla tastiera e l’ascensore ricomincia a risalire.

- Pagherei per poter vedere l’espressione che Nakatomi ha fatto quando gli hai infilato l’artiglio in quella testa di cazzo. Sarà stata simile a quella che facevo io quando lo vedevo arrivare con gli altri picchiatori della Kobayashi ai tempi della gang del Loto Rosso…
Nakamra si volta verso il baratro. Stringe il parapetto finché il braccio non comincia a tremare.
Vanessa si avvicina a lui. Comincia a sbottonargli la camicia nera. L’uomo le accarezza il volto.
- Cosa ne hai fatto del corpo?
- Dopo essere uscita dall’ascensore l’ho spedito nei livelli inferiori. Ho pensato che, dopo tanti anni, un giro da quelle parti gli avrebbe fatto bene.
Nakamura sorride. La donna gli ha aperto la camicia e gli sta accarezzando il torace muscoloso. Gli bacia un capezzolo, strappandogli un gemito. Lui sospira, abbassa la testa e chiude gli occhi.
- Continua. Voglio sentire il resto.

Vanessa spalanca la porta. La stanza è piena di persone che ballano al ritmo di un electriclwave sparato a volume altissimo. A tempo con la musica, alcuni fari illuminano il buio con fasci di luce blu e scarlatta. I danzatori si dimenano nell’estasi, nudi o vestiti con abiti di latex semitrasparente. Vanessa individua i dirigenti della Kobayashi: anche se non ne avesse memorizzato i volti, le sarebbe bastato notare le persone più anziane e con i corpi segnati dagli innesti meccanici più costosi. Uno di loro, al centro della pista, succhia lo champagne che viene versato sui seni di una ragazza calva. La responsabile della cassa parallela è sdraiata sulle ginocchia di tre giovani che non devono avere più della metà dei suoi anni. Baciano e massaggiano il suo corpo secco e rugoso.
Un terzo dirigente, invece, si cimenta in una sfida a braccio di ferro contro un accompagnatore muscoloso come un atleta. Il giovane ansima e trema dalla testa ai piedi. L’anziano sorride. Il suo braccio meccanico spinge fino a piegare la resistenza del colosso.
Takeda Kobayashi è dall’altro lato della stanza, seduto su un enorme seggio di metallo rosso, più simile al trono di un signore feudale che a una poltrona presidenziale. Ha la testa reclinata su uno dei pugni e osserva l’orgia davanti a lui con espressione assente.
Accanto a lui, le sue guardie del corpo: due giovani donne muscolose ma dalle forme armoniche, entrambe poco vestite e armate di lunghi spadoni.
Vanessa sorride: i vertici della Kobayashi sono tutti in quella stanza e l’unica via di fuga visibile è quella che sta chiudendo alle sue spalle.
Il primo bersaglio la raggiunge di sua spontanea volontà. Le si avvicina con passo malfermo e le offre un bicchiere di champagne. Lei accetta e lo sorseggia.
- Sei… sei bellissima, sai? – L’uomo le si avvicina, comincia a giocherellare con la spallina del suo vestito. Il suo alito puzza di alcol. – Come mai non ti sei ancora spogliata? Vuoi… vuoi che lo faccia io?
Lo tira a sé: lui cerca di palparla, lei gli appoggia la mano sul collo e fa scattare gli artigli. Recide di netto carotide e giugulare: il gorgoglio strozzato dell’uomo si perde nella musica ad alto volume e il caos dell’orgia fa sì che nessuno faccia caso al modo in cui si abbandona su di lei. Vanessa appoggia il cadavere in un angolo e prosegue.
Horie Mika, la donna sdraiata sui tre giovani escort, non le presta attenzione, impegnata com’è a godersi le loro cure. Vanessa la sovrasta e porta la destra all’altezza del torace della dirigente. Gli accompagnatori parlottano tra loro. Uno le strizza l’occhio, forse pensando a qualche strano gioco. Li spalanca entrambi nel comento in cui Vanessa sfonda lo sterno di Mika con un pugno. I tre giovani scattano in piedi e fuggono, lasciando cadere a terra il corpo dell’anziana.
La musica si spegne. Le luci si accendono accese. Ospiti ed escort cominciano a scappare in ogni direzione.
Vanessa raggiunge un altro dirigente. L’uomo afferra un giovane seminudo che stava scappando e tenta di nascondersi dietro di lui. Lei calcia la caviglia del ragazzo e lo obbliga a piegarsi: la testa del dirigente si scopre e lei lo colpisce alla base del cranio, tagliandogli la gola.
Ishimoto, il vecchio con il braccio sintetico, prova a colpirla con il suo pugno d’acciaio. Vanessa scarta di lato. L’uomo si gira per colpirla con un manrovescio.
- Ti ammazzo, puttana!!
Vanessa si abbassa e gli recide i tendini di una gamba. Ishimoto urla, perde l’equilibrio e porta le mani in avanti per non finire a terra. Vanessa gli recide i tendini dell’altra gamba e gli sale sulla schiena.
Lui si volta. Le sputa contro.
Vanessa affonda il piede nel cranio, spappolandogli il cervello sul pavimento. Restituisce lo sputo al cadavere e si guarda attorno.
L’ultima dirigente è a pochi metri da lei. È in ginocchio, probabilmente spinta a terra dal flusso di ospiti in fuga che stanno lasciando la stanza. Chiede aiuto, ma nessuno si ferma.
Vanessa si scrolla la materia cerebrale dai piedi e la raggiunge.
La donna si volta verso di lei. Cerca di farsi indietro.
- Ti… ti prego non farlo – Lacrime cominciano a rigarle il volto paffuto. Vanessa fa scattare di nuovo gli artigli. La dirigente striscia ancora più indietro.
- Signor Kobayashi, mi aiuti!
Vanessa si volta. L’anziano li sta osservando. Sposta lo sguardo da un cadavere all’altro. La sua espressione non è più assente, ma esprime più curiosità che rabbia. Anche le due guardie del corpo non si sono mosse.
- La prego, faccia qualcosa! – urla ancora la dirigente. – Non mi lasci da sola!
Kobayashi alza le spalle.
- Se tu fossi davvero utile all’azienda, non avrei bisogno di aiutarti.
La donna resta a bocca aperta. Guarda Kobayashi. Guarda Vanessa. Guarda di nuovo l’uomo.
- Figlio di puttana…
Prova ad alzarsi, ma Vanessa l’afferra per i capelli e la tira indietro. Affonda gli artigli nel suo collo scoperto e la lascia cadere a terra a soffocare nel suo sangue.
Nella stanza cala il silenzio. Gli ospiti sono scappati, i dirigenti sono morti. Vanessa si volta. Kobayashi si è irrigidito sulla schiena e ha appoggiato entrambe le mani sui braccioli del trono.
- Chi sei?
- Cosa te ne importa? Tu sei già morto.
Il vecchio alza il braccio e punta l’indice contro di lei.
- Sonja, Taarna: uccidete quella puttana.

Ad ogni uccisione che Vanessa gli sussurra, Nakamura stringe la presa della mano con cui le sta accarezzando i capelli.
- Horie Mika… Ishimoto Sabo… Jun Sakai… Hirota Akio… schifosi parassiti!
Vanessa gli ha apre la patta dei pantaloni e massaggia l’erezione che ne sta venendo fuori. Nakamura la obbliga a guardarlo negli occhi.
- Noi delle gang eravamo la prima linea della Kobayashi giù nelle strade, ma quei bastardi ci hanno sempre considerato pedine sacrificabili.
Digrigna i denti. Deglutisce. Continua ad accarezzare i capelli di Vanessa, ma il suo sguardo è altrove. Scruta ancora la coltre di smog che si estende oltre il parapetto.
- Si tenevano tutti i guadagni e se qualcuno provava a fare il furbo, mandavano Nakatomi o qualche altro leccalulo dei piani intermedi con una squadra di picchiatori a liquidarlo.
Vanessa continua a stimolare la sua virilità. Bacia il pollice della mano che le sta stringendo la testa.
- È per questo che hai lasciato la Kobayashi e ti sei messo in proprio?
- No: ho deciso di farlo quando mi sono reso conto quanto incompetenti fossero i dirigenti. Non potevo sopportare che simili idioti stessero così in alto mentre io crepavo in quelle strade di merda – Muove il pollice avanti e indietro nella bocca di lei. - Non mi stupisce che Kobayashi non abbia mosso un dito per loro.
Vanessa libera la virilità di Nakamura dagli ultimi vestiti. Ne massaggia la punta grossa e rossa.
- E del vecchio cosa mi dici? Anche lui era un inetto?
- No, Kobayashi è sempre stato un astuto figlio di puttana. L’unico che abbia mai considerato davvero alla mia altezza…
Si toglie i pantaloni, afferra le mani di Vanessa e le appoggia sul pene scoperto.
- Raccontami come l’hai ucciso.

Sonja ha una lunga treccia di capelli rossi ed è vestita con un corpetto metallico. Vanessa evita la lama della sua spada scartando di lato. Taarna, invece, ha i capelli bianchi e indossa un bikini nero e una spalliera rossa. Vanessa le si fa sotto prima che possa scaricare il tondo che stava per tirare. Le blocca la mano della spada colpendole il polso con l’avambraccio sinistro e cerca di artigliarle il volto. Taarna arretra coprendosi la parte sinistra della faccia con una mano. Le sorride.
- Dovrai fare di meglio, sorella.
Abbassa la mano: il colpo subito le ha strappato la pelle attorno all’occhio sinistro, rivelando un teschio metallico.
Le due guardie urlano all’unisono e la attaccano dai lati. Sono perfettamente coordinate e Vanessa è costretta a restare fuori misura per evitare le loro spade. Con la coda dell’occhio vede a terra il corpo di Ishimoto. Si abbassa sulle ginocchia. Attira a sé un fendete di Sonja e lo evita saltando a destra. La lama della guardia affonda nella schiena dell’uomo. Si incastra nelle ossa e negli strati di grasso. Vanessa approfitta dell’attimo in cui la sua avversaria è rallentata per saltarle addosso e colpirla al gomito. Gli artigli riescono a squarciare le giunture dell’avambraccio, separandolo dal resto del corpo. Sonja perde la spada. Arretra. Il suo movimento ostacola quello di Taarna. Vanessa ne approfitta per afferrare la spada di Sonja.
Si alza in piedi. Si fa indietro. le due guardie tornano a minacciarla dai lati. Lei si volta verso Kobayashi. Solleva la spada al di sopra della spalla. Il vecchio spalanca gli occhi. Lei scaglia l’arma in direzione del suo petto. Taarna salta verso sinistra e la intercetta con il suo corpo. La lama la colpisce alla base del collo, quasi staccandolo dal busto. La guardia crolla a terra: i cavi elettrici tranciati sprizzano scintille bluastre e il suo corpo si agita in movimenti scoordinati.
Kobayashi stringe i braccioli del trono.
- Cosa stai aspettando, Sonja? Uccidila!!
La guardia superstite ringhia e si avventa su Vanessa. Lei schiva un calcio alto diretto al volto e le colpisce la gamba d’appoggio. L’androide cade a terra. Prova a rotolare su un fianco per rimettersi in piedi, ma Vanessa le salta addosso e le blocca il torace con le gambe. Le stringe la testa e le infila i pollici artigliati negli occhi. Le dita schiacciano i bulbi sintetici. Spezzano cavi e circuiti. Affondano finché le punte non toccano l’altro lato del cranio metallico.
Sonja non si muove più. Vanessa lascia cadere la testa e si rialza.
Kobayashi è ancora seduto sul suo trono. Gli trema il mento e gli occhi sono iniettati di sangue.
- Ho già dato l’allarme: le guardie di sicurezza arriveranno a momenti – Il suo tono di voce è fermo, ma l’arroganza con cui le aveva parlato in precedenza sembra essersi dissolta. – Se ti arrendi adesso, gli ordinerò di risparmiarti la vita.
Vanessa sorride.
- Il posto di controllo più vicino è quaranta livelli più in basso e dubito che tu ti sia dato pena di chiedere aiuto finché le tue guardaspalle erano ancora in piedi – Avanza verso il trono a passi lenti. – Per come la vedo io, ho tutto il tempo che mi serve per portare a termine questo lavoro.
Kobayashi deglutisce. Si alza in piedi. Muovendo di scatto le pieghe del kimono dorato che indossa, rivela una katana infilata in una guaina nera incrostata di madreperla. La sguaina.
- Allora vieni a prendermi, puttana.
Vanessa scatta in avanti. In due falcate gli è addosso. Sferra un’artigliata in direzione del suo sterno. Kobayashi la colpisce con uno sgualembro al collo. La pelle di Vanessa si indurisce e arresta il taglio della katana senza nemmeno scalfirsi. I suoi artigli squarciano il kimono del vecchio, sfondano la gabbia toracica e affondano dentro di lui fino a spappolargli il cuore.
Kobayashi urla. L’arma gli scivola dalle mani. Vanessa lo stringe con l’altro braccio e lo fa piegare all’indietro fino a farlo sedere sul trono. Avvicina la bocca al suo orecchio.
- Nakamura Osazu ti manda i suoi auguri di buon compleanno.

Nakamura eiacula nello stesso istante in cui Vanessa termina il suo racconto. Sparge il suo seme a terra, mancando di poco l’abito della donna. Comincia a ridere. Si asciuga il sudore dal volto. La giovane si alza in piedi.
- Ti è piaciuto?
- Più di qualsiasi altra cosa – Si appoggia con la schiena alla balaustra. – E poi, ho aspettato per anni di provare un piacere simile.
Reindossa le mutande e chiude i pantaloni. Si volta verso il panorama di guglie e nebbia urbana.
- Morto il vecchio, la sua compagnia andrà in malora in men che non si dica e la mia organizzazione la divorerà– Vanessa lo abbraccia da dietro, lui le accarezza le mani. – Grazie a te, potrò finalmente occupare il posto che merito.
La donna lo stringe.
- Devo ancora finire la mia storia.
Nakamura alza le spalle.
- Kobayashi è morto: cosa potrebbe esserci ancora di così interessante da raccontare?
- Come sono morta io.

Kobayshi sorride.
- Dev’essergli costato molto questo regalo: i tuoi innesti genetici sono roba di prima qualità.
Vanessa sobbalza. Cerca di farsi indietro, ma la mano resta bloccata nel corpo del vecchio. Lo squarcio aperto nel petto si è richiuso e lei può sentire la pressione della carne bloccarle le falangi. Kobayshi le accarezza il braccio immobilizzato.
- Artigli retrattili; pelle in grado di generare uno strato bioceramico per attutire gli urti e un intenso potenziamento muscolare – Si lecca le labbra. – Ti hanno dato davvero dei bei giocattoli…
Vanessa lo colpisce con l’altra mano al volto. Gli artigli affondano nel cranio e distruggono l’occhio sinistro. L’altro bulbo ruota e la fissa.
- Nakamura ha scelto bene: devi essere uno dei migliori sicari sulla piazza, ma il mio committente ha fatto di meglio: ha chiamato il migliore.
Le ferite sul volto del vecchio si ricompongono e immobilizzano la mano di Vanessa. L’uomo la afferra con un braccio e la tira a sé. Vanessa impallidisce: il tocco è anomalo, come se non fosse un arto umano a stringerla. Le sale lungo la sua schiena, le afferra la nuca e la obbliga ad abbassarsi. Tutta la forza dei suoi muscoli potenziati non basta a impedirlo. Anche le sue gambe sono immobilizzate.
Il volto del suo interlocutore è a pochi centimetri dal suo. I lineamenti di Kobayashi sono scomparsi, come disciolti nella cera. Al loro posto, un viso scheletrico, privo di naso e con la dentatura esposta.
- Sei stata gentile a fare il nome del tuo mandante: il vero Kobayashi sarà contento. Ma sono sicuro che ci saranno tante altre cose che potrai farci scoprire.
Vanessa gli sputa in faccia.
- Non ti dirò nulla.
Un altro tentacolo le striscia addosso. Si avvolge attorno alla testa per chiuderle la bocca. La punta si ferma davanti a uno dei suoi occhi: termina con un rostro affilato, circondato da decine di filamenti carnosi simili a capelli.
- Io non ho intenzione di chiedere.

Nakamura sente i tentacoli infilarsi sotto il suo vestito. Si volta. L’abito di colui che si era spacciato per Vanessa è caduto a terra. Al posto del formoso corpo femminile, c’è una figura umanoide in costante mutamento, costellata di occhi e tentacoli. Dove dovrebbe esserci la testa, ci sono solo due fauci verticali spalancate. Nakamura urla. Prova a sferrare un calcio al torace, ma il suo piede viene risucchiato dall’ammasso di carne. I tentacoli lo immobilizzano e lo sollevano in aria.
- Il Signor Kobayashi ti ringrazia del regalo, Nakamura, e ha deciso di ricambiare la gentilezza - la creatura lo solleva ancora più in alto e si fa avanti. Nakamura guarda in basso: sotto di lui si estende la distesa di smog che separa cielo e terra. – Dopo tutti questi anni, potrai finalmente raggiungere la posizione che ti spetta. Quella più adatta a te.
Nakamura urla. Guarda verso il sicario.
- Chi sei?
- Cosa te ne importa? Tu sei già morto.
I tentacoli lasciano la presa. Nakamura precipita nel vuoto. Lascia indietro gli alti livelli. Lascia indietro la coltre di smog. Sprofonda verso le luride strade dov’è nato.

di Agostino Langellotti

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Re: Semifinale Simona Mangiapelo

Messaggio#3 » martedì 4 maggio 2021, 23:22

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Alessandro Canella


David aprì gli occhi e durante i successivi trenta secondi il suo cervello elaborò, in ordine, tre informazioni.
La prima fu, appunto, che il suo nome era David, il che gli sembrò una cosa molto importante da sapere, per quanto ovvia.
La seconda fu che il lampadario appeso al soffitto non gli piaceva. Troppo pacchiano e ingombrante per i suoi gusti, con tutte quelle sfere di varie dimensioni che pendevano dalla corona centrale. Inoltre era bianco, e lui odiava il bianco.
Terza e ultima informazione, per certi versi compendio della seconda, fu che quella non era casa sua.
A essere onesti, non era la prima occasione in cui David si svegliava in qualche luogo che non riconosceva senza un chiaro ricordo di come ci fosse finito, solo che l’ultima volta risaliva a parecchi anni addietro, prima che sua figlia lo costringesse a iniziare la riabilitazione caricando su Internet quel video dove, sbronzo come un irlandese la notte di S. Silvestro, mangiava un cheeseburger disteso sul pavimento della cucina. Quanto era passato da quel giorno? Vent’anni? O era soltanto la settimana prima? E poi lui non ne aveva due di figlie? Si sforzò di ricordare, ma in testa sentiva soltanto una gran confusione, fatta di ricordi che si prendevano a cazzotti gli uni con gli altri per avere diritto di parola.
Si portò una mano a cucchiaio davanti alla bocca e vi alitò contro, aspettandosi il familiare odore di whisky e sigarette. Invece nulla. La sua bocca profumava di dentista.
Ruotò il collo in entrambe le direzioni. La stanza in cui si trovava era ampia, le pareti ricoperte da una fastidiosa carta da parati a motivo floreale interrotta soltanto da un paio di porte che, con molta probabilità, conducevano al resto dell’abitazione. Un lato era occupato da una dozzina di bacheche da esposizione ricolme di action figure e modellini in scala di autovetture di vario tipo, sportive per lo più, ma anche moto d’acqua e massicci autoarticolati. A spiccare era però soprattutto un manichino posto nel mezzo con addosso jeans scuri tenuti su da una cintura dalla vistosa fibbia circolare, una polo rosso acceso e una giacca in pelle nera. L’altra metà della stanza era invece dominata dal diorama di quella che sembrava essere una spiaggia californiana, con tanto di torrette di guardia, bagnini che correvano sul bagnasciuga e surfisti a cavallo d’imponenti onde. Al di là del tavolo su cui era stato costruito il diorama, una porta finestra ad arco si affacciava su un cortile.
David scavò nella memoria, nel tentativo di ricordare quale dei suoi molti amici — e soprattutto amiche — potesse essere il padrone di casa. Ancora una volta il vuoto. Qualche nuova conquista, allora?
Con uno sforzo fisico superiore al previsto, si spinse sui gomiti e sollevò un poco la schiena, ma già dopo pochi centimetri la testa sbatté contro qualcosa, facendolo ricadere supino. David si massaggiò la fronte imprecando, più volte. La sua voce rimbombò in un profondo eco.
Aprì un occhio e allargò le braccia sul bordo del materasso su cui era disteso. Le dita delle mani premettero contro una superficie invisibile e liscia, ne seguirono il contorno, fino a incontrarsi sulla punta di quella che era, a tutti gli effetti, una volta costruita in un qualche materiale ad altissima trasparenza. Cristo Santo, l’avevano chiuso in una cazzo di bara! Si sentì mancare l’aria. Boccheggiò per un altro mezzo minuto abbondante, periodo di tempo necessario al suo cervello per elaborare un nuovo pensiero, ovvero che l’ossigeno era l’ultima cosa che scarseggiava lì dentro.
Recuperata la calma, diede un pugno al vetro. Poi un secondo, e un terzo. Stava per colpire ancora, quando sul vetro lampeggiò una scritta.

SI PREGA DI NON DANNEGGIARE IL POD
ATTENDERE LA CONCLUSIONE DELLE OPERAZIONI DI AVVIO


David restò con il pugno chiuso a mezz’aria, finché non sentì un rumore metallico, simile a quello di una serratura che scatta, seguito da un risucchio ai lati del sarcofago. La teca si sollevò con un fischio in direzione dei piedi.
Immobile, con i muscoli tesi e le pupille fisse su quel cazzo di lampadario, David si domandò cosa fare. Si aspettò di sentire un rumore di passi nella sua direzione, che però non arrivò.
Cauto nel non fare rumore, si sedette sul bordo della bara di cristallo. Con le mani che tremavano, si spinse giù. Appoggiò i piedi sul pavimento e per poco non perse l’equilibrio. I muscoli erano atrofizzati, come dopo un’intera ora passata sulla tazza del cesso a mandare messaggi sconci a qualche ragazza abbordata in un locale la sera prima. Cristo, chissà cosa gli avevano dato per ridurlo così. Forse qualche acido sciolto nel cocktail? Una cosa era certa: doveva fuggire, e subito.
Lanciò un’occhiata alla bara, poi alla porta finestra. Barcollando, si mosse verso il cortile. I piedi non sembravano però voler ancora collaborare. Senza accorgersene, li incrociò e crollò in avanti contro il diorama. Con un movimento istintivo, arpionò una delle sponde del tavolo, evitando per un soffio di fracassarsi la faccia sulla sin troppo fedele riproduzione di un frangiflutti.
Si sollevò e un passetto alla volta si avvicinò alla porta, con la sua immagine in controluce che acquisiva sempre più definizione. David mise a fuoco la vista e si concentrò sul riflesso. Nel vedere il suo volto sentì che qualcosa non andava, come fuori posto, senza però capire di cosa si trattasse. Si passò una mano sulle guance lisce, dagli zigomi pronunciati e allo stesso tempo morbidi, quindi salì sulla fronte, fin su tra i folti capelli ricci. Non c’era dubbio che quella fosse la sua immagine riflessa. Tuttavia, allo stesso tempo, non poteva esserlo. La sua testa era piena di ricordi confusi distribuiti in quasi un secolo di vita, eppure l’uomo che stava fissando sembrava poco più che trentenne.
A turbarlo era però anche qualcos’altro. David abbassò gli occhi, accorgendosi solo in quel momento di essere vestito esattamente come il manichino al centro delle vetrinette.
Prima che il cervello trovasse il tempo per produrre un nuovo pensiero, una delle porte alle sue spalle si aprì. David si girò e vide entrare un uomo con addosso una tuta in poliestere azzurra e bande oblique gialle e fucsia all’altezza del petto e delle cosce, ai piedi un paio di sneakers bianche a caviglia alta. In mano stringeva una borraccia con cannuccia contenente, a giudicare dal colore, un qualche frullato di verdure. Ad attirare la sua attenzione non fu però l’abbigliamento stile anni Ottanta, quanto il volto, identico a quello di David.
«Vedo che sei già sveglio.» L’uomo si avvicinò, fino a trovarsi a meno di un metro da David. «Cristo santo, quelli della V.O.D. mi avevano assicurato che saresti stato uguale, ma non immaginavano fino a questo punto.» Si portò la cannuccia alle labbra e, dopo un rumoroso sorso di frullato, si mise a girare attorno a David. «Ora che ti vedo da vicino, devo ammettere che hanno fatto davvero un gran lavoro. Anche gli abiti sembrano quelli originali.»
David guardò l’uomo con la bocca spalancata. «Ma che cazzo…»
Lo sconosciuto si portò a pochi centimetri dal suo mento. «Pazzesco, persino la cicatrice sono riusciti a riprodurre.»
David indietreggiò di un paio di passi. «Ma tu chi cazzo sei? E di che diamine stai parlando?»
Il suo sosia diede un ultimo sorso, per poi appoggiare la borraccia sul tetto di una delle torrette del diorama. «Cervello ancora in pappa, vero? L’avevano detto che sarebbe potuto accadere. Ma non ti preoccupare, è solo questione di minuti prima che gl’ingranaggi si mettano a girare a pieno regime. Aspetta, ti faccio vedere una cosa. Magari acceleriamo il processo.» Da una tasca dei pantaloni tirò fuori un cellulare e, dopo averci tamburellato sopra, lo passò a David.
Sullo schermo era caricata una foto di Tom Selleck. David inarcò un sopracciglio.
«Vai avanti. Scorri le immagini.»
David fece come gli era stato detto. Una dopo l’altra si susseguirono decine di foto di attori e musicisti famosi: Scott Baio, Corey Feldman, Thomas Anders, Ralph Macchio, Don Johnson… «E tutto questo dovrebbe dirmi qualcosa?»
«Ti ho detto di proseguire.»
Kirk Cameron, Andrew McCarthy, John Travolta, Dav…
David allontanò la punta dell’indice. Sullo schermo una foto lo ritraeva vestito con gli stessi identici abiti che indossava in quel momento.
«Cliccaci sopra.»
David sfiorò lo schermo e la foto ruotò su sé stessa, mostrando una breve biografia con in cima un nome: David Michael Hasselhoff. «Ma questo…»
Il sosia di David soffocò una risata. «Sei tu? Beh, più o meno. Diciamo che condividi un po’ di materiale genetico e qualche ricordo, ma più che altro sei un’imitazione.»
David riconsegnò il cellulare. «Scusa?»
Il sosia si massaggiò il collo, sul volto l’espressione di qualcuno alla ricerca delle parole giuste. «Senti, amico, capisco che tu pensi di essere quello nella foto, ma ho una brutta notizia per te: tu non sei David Hasselhoff.»
«E chi sono allora? Perché, scusa se te lo dico, credo di saper riconoscere una mia foto quando la vedo.»
«Oh, non ne dubito. Solo che la tua è soltanto una convinzione indotta da un software. Non sei tu quello originale. No, tu sei soltanto un VIP-Ganger, un involucro di carne sintetica steso attorno a uno scheletro in titanio mosso da un computer in grado di simulare ricordi e sensazioni fisiche di qualunque celebrità che, per un motivo o per l’altro, — detto tra noi, debiti ed ex mogli per lo più — ha deciso di vendere i diritti sulla sua immagine prima di lasciare questo mondo. E intendo dire tutta la sua immagine, ricordi compresi. In sostanza, sei una copia, una specie di Terminator, solo senza l’istinto omicida e con un senso dell’umorismo migliore. Pensa, sei persino in grado di mangiare. E scopare, se proprio vuoi saperlo.»
David si appoggiò al bordo del tavolo. «Quindi anche tu sei…?»
Il sosia spalancò gli occhi. «Un VIP-Ganger? No, certo che no! Spiacente, ma il sottoscritto è un pezzo originale. E poi nemmeno mi chiamo David.» Tese la mano. «Piacere, Garth. Sono un tuo grande fan, sai? O meglio, un fan dell’Hoff.»
David rimase a fissare la mano fino a quando Garth non la ritrasse con un certo imbarazzo. «Fammi capire, cos’avresti fatto? Una copia dell’Hasselhoff originale da tenerti in casa e mostrare agli amici durante le cene?»
Garth scosse la testa. «No e no. No, non ti ho creato io, ma un’azienda che ho lautamente pagato affinché mi realizzasse una copia esatta dell’Hoff in versione Michael Knight. E no, non ho intenzione di fare di te il mio animaletto domestico.»
«E allora perché cazzo mi trovo qui?» David iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, agitando le braccia. «Insomma, mi sveglio in questo posto con i ricordi dell’Hoff, vestito come l’Hoff e con l’aspetto dell’Hoff nel pieno della sua prestanza fisica. E tutto questo per cosa?» Si fermò. «Non mi dirai che hai qualche perversione sessuale che presuppone te vestito in latex e il sottoscritto con una pallina rossa in bocca?»
«Ma che cazzo ti passa per la testa!» Garth raggiunse una delle bacheche e ci passò sopra un dito. «La mia idea era soltanto di farci quattro chiacchiere insieme, mangiare qualcosa, scattarci un selfie magari…» Strofinò il medio col pollice. «E poi, a fine serata, spararci un colpo in testa e lasciare questo mondo in grande stile.»
Silenzio.
«Scusa? Temo di non aver colto bene l’ultima parte.»
Garth alzò i palmi delle mani. «Tranquillo, tranquillo. Una cosa rapida e indolore, sia chiaro. Un colpo in bocca e via. Non te ne accorgerai nemmeno. Ecco, guarda.» Garth portò una mano dietro la schiena e da sotto la giacca della tuta estrasse una replica perfetta della pistola usata dal David originale in Nick Fury: Agent of SHIELD.
Nel vedere l’arma, David corse sul lato opposto del diorama.
«Bella, vero? Vorrei dirti che mi è costata un occhio, ma temo sarebbe una battuta un po’ scontata. L’hai capita, vero? Nick Fury, occhio della testa…»
David strappò dalla finta spiaggia una mini tavola da surf e la puntò in direzione di Garth a mo’ di coltello. «Tutto ciò è folle! Come si può permettere una cosa del genere?»
Garth guardò la pistola. «Beh, in verità è soltanto una Taurus PT99 modificata, dovresti saperlo anche tu, a sua volta basata sulla Bere—»
«Intendevo il fatto di uccidermi!»
«Ah, quello.» Garth si grattò una tempia con la canna della pistola. «Diciamo che per la legge non sei molto diverso da un tostapane, quindi…» Alzò le spalle.
«Ma io ho una memoria, dei pensieri. Ho una fottuta coscienza! Com’è possibile tutto questo? Cazzo, ricordo persino il mio numero di previdenza sociale.»
Garth sorrise. «Forte, vero? È per questo che la Vip On Demand è la numero uno sul mercato. E comunque, se proprio te la vuoi prendere con qualcuno, prenditela con te stesso. Intendo col David originale. È lui quello che ha deciso di vendere il suo DNA e un backup del cervello. Per questo possiedi i suoi ricordi. Beh, questo e anche perché ho deciso di acquistare il pacchetto», Garth mimò il simbolo delle virgolette con le dita, «”non ufficiale”, così da avere pieno accesso al database mnemonico del donatore, il che crea di fatto una copia della coscienza originale. Ecco, in effetti questo non è del tutto legale, ma — ehi — tanto tra qualche ora ce ne saremo andati entrambi, quindi chi se ne frega, giusto?»
David si premette l’indice sul petto. «Beh, a me frega, se permetti! E comunque non credo che tu possa obbligarmi a crepare con te.»
«A dire il vero…» Garth rifoderò la pistola dietro la schiena e armeggiò di nuovo col cellulare «posso andarci vicino.» Schiacciò un tasto sullo schermo.
Il corpo di David fu attraversato da un impulso elettrico che lo immobilizzò.
«Comunque non vorrei usare questa opzione, devi credermi. Preferirei mantenere l’esperienza la più interattiva possibile.» Garth disattivò il blocco.
David si guardò le dita delle mani, muovendole una a una. «No, davvero, tu sei completamente fuori. Quale cazzo di fan sano di mente vorrebbe mai morire col suo idolo?»
Garth piegò le labbra in una smorfia e annuì. «Su quest’ultima parte ti do ragione. Ma, vedi, è stata la mia psichiatra a consigliarmi questo tipo di terapia.»
«La tua psichiatra ti ha consigliato di compiere un omicidio-suicidio?»
Garth alzò un dito. «A parte il fatto che il tuo non sarebbe tecnicamente un omicidio, le sue parole sono state “Garth, devi sopprimere quella parte di te che non riesce a staccarsi da Judy e dagli anni Ottanta, e soprattutto devi sopprimere il David Hasselhoff che è dentro di te”.»
«Parole testuali?»
«Testuali, lo giuro.»
David rimase in silenzio per alcuni secondi. «Sai, non credo però che con “sopprimere” intendesse davvero “sopprimere”. E poi, chi cazzo sarebbe questa Judy?»
La bocca di Garth si allargò in un sorriso. «La mia fidanzata.» Il sorriso si piegò verso il basso. «Beh, ex fidanzata. Ci siamo mollati sei mesi fa. Non riusciva più a sopportare tutto…» Garth allargò le braccia, come a voler abbracciare l’intera stanza. «tutto questo.»
«Intendi la tua ossessione per me?»
«Per lui» lo corresse Garth.
«Fa lo stesso. Comunque, è per questo che ti ha lasciato, giusto? Non riusciva a sopportare l’idea di vivere con una persona che vorrebbe essere qualcun altro. E tu ti vorresti suicidare soltanto per questo? Per una donna che non è in grado di apprezzarti per quello che sei?»
Garth aggrottò la fronte. «Cosa? No, amico. Guarda che non hai capito proprio un cazzo.» Roteò un indice attorno alla sua faccia. «Tu pensi che questa faccia me la sia fatta fare, vero? Pensi che Garth Barstow sia uno di quei sociopatici che spendono centinaia di migliaia di dollari in chirurgia estetica soltanto per assomigliare a qualche cantante o attore famoso? Beh, non è così. Questo è veramente il mio aspetto, naturale al cento per cento, e se io e l’Hoff siamo due gocce d’acqua è solo per pura casualità. Semmai, è Judy quella che cercava in ogni modo di spingermi ad assomigliare sempre di più al vero David, non solo nell’aspetto.» Garth si mise a girare in mezzo alle vetrinette. «È lei quella davvero fissata con Hasselhoff, mica il sottoscritto. Solo che per quanto mi sforzassi ad assomigliargli anche nel comportamento e nel modo di parlare, per lei non era mai abbastanza. Diceva che ero finto.» Garth si voltò verso David. «Ma tu hai idea di cosa voglia dire vivere con una persona che non vuole la tua compagnia per quello che sei, ma soltanto per quello che lei vorrebbe che tu fossi?»
David si trattenne dal rispondere. Ma mi sta prendendo per il culo?
Garth tornò a contemplare le decine di modellini sparsi per la camera. «Se penso a tutti i soldi e alle settimane spesi per regalarle questo sancta sanctorum.»
David si guardò attorno. «Aspetta, non vorrai dire che…»
«Che questa è casa di Judy? Sì, in effetti è proprio così. Quando ci siamo lasciati mi sono tenuto una copia delle chiavi, anche se lei non lo sa.»
«E tu ti vorresti suicidare a casa della tua ex?»
«È proprio questo il punto, amico! Immagina lo stupore di lei quando stasera rientrerà a casa dal lavoro e ci troverà distesi sul suo letto, ognuno col suo bel buco nella fronte e un cartello incollato sopra la testiera con scritto “Ciao Judy, ti presento David”.» Garth controllò l’orologio. «Abbiamo ancora circa tre ore prima della fine del suo turno al negozio, più altri venti minuti di tragitto in auto. Mi comprenderai quindi se ho una certa fretta. Sai, ho un sacco di domande che vorrei farti prima del grande momento.»
David si passò le mani tra i capelli, gli occhi fissi nel vuoto e il cuore — o qualunque organo artificiale gli fosse stato installato nel petto — che batteva a mille. «Mi pare di capire di non avere molta scelta.»
Garth sollevò il cellulare e annuì. «Già.»
David spostò l’attenzione sulla borraccia appoggiata sulla riproduzione della torretta di guardia di Baywatch. Sospirò. «E va bene, facciamolo.»
Garth fece un salto di gioia. «Grandioso! Davvero, non so come ringraziarti, amico. Mi hai appena reso l’uomo più felice del mondo. Cavolo se mi piacerebbe vedere la faccia di July quando entrerà in camera! Beh, temo che almeno questo non sarà possibile.»
«Temo anch’io.» David deglutì. «Quindi sentiamo: qual è il programma per le prossime ore? Ci mangiamo un boccone mentre ti racconto come mi sono fatto la mia cicatrice?»
Garth sgranò gli occhi. «Oh sì, cazzo, sarebbe fantastico! Non immagini quante volte Judy e io abbiamo cercato informazioni su quella cicatrice. Mi stupisce che nessun giornalista ti abbia mai chiesto nulla al riguardo.»
David si sforzò di sorridere. «Solo una cosa però: sicuro che possa mangiare? Non è che rischio di ritrovarmi con qualche ingranaggio inceppato? Sai, non vorrei rovinarti i piani proprio all’ultimo.» Indicò la borraccia. «Ti spiace? Giusto per provare.»
«Ma certo, amico. Serviti pure.»
David prese la borraccia e diede un sorso veloce, mentre si avvicinava a Garth. «Sai, esiste una storia molto divertente dietro questa cicatrice.» David svitò il tappo della borraccia e annusò il contenuto. Puzzava di spinaci e cetrioli. «Una storia che ha a che fare con un mio fan.»
«Un fan o una fan?» Garth fece l’occhiolino.
David alzò le mani. «Lo ammetto, era una ragazza. Su una cosa devo però ammettere che ti assomigliava. Vuoi sapere cosa?»
Garth mosse la testa su e giù. «Sono tutto orecchie.»
David sorrise. Ormai si trovava di fronte al suo sosia, a meno di un metro di distanza. «Anche lei si era fatta un’idea completamente sbagliata del sottoscritto.»
David lanciò il contenuto della borraccia contro gli occhi di Garth e senza lasciargli il tempo di reagire lo spinse contro la vetrinetta alle sue spalle. Entrambi caddero a terra, con il mobile che esplose in mille frammenti. Con un calcio, David colpì Garth alla mano che teneva il cellulare.
«Figlio di putta—» gridò Garth, ma prima che potesse concludere la frase David lo colpì una seconda volta, questa volta in piena faccia, spaccandogli il naso.
«Non osare muovere un solo muscolo verso la pistola, psicopatico che non sei altro, o giuro sulle mie figlie che ti spacco quella faccia da idiota che ti ritrovi.» David si bloccò, riflettendo su quello che aveva appena detto. «Insomma, ci siamo capiti!»
Garth lo guardò con espressione incredula. «Merda, sapevo che eri stato un coglione nella vita, ma non pensavo fino a questo punto. Cosa cazzo credi di fare una volta fuori di qui? Eh, dimmelo su! Sei un cazzo di robot senza diritti e senza un posto dove andare. Pensi di essere speciale soltanto perché possiedi i ricordi di una vecchia gloria della televisione? Sveglia, amico, là fuori è pieno di tostapane come te. Lasciatelo proprio dire: hai appena preso la peggior decisione della tua vita, seconda soltanto a quando hai rifiutato il ruolo di Superman per lasciarlo a quell’altro imbecille di Christopher Reeve.»
David si piegò sulle ginocchia e raccolse un modellino di KITT con tanto di scanner funzionante. «Forse hai ragione. Ma vedi, come dicevo, la gente tende a farsi un’idea sbagliata del sottoscritto. E per quanto mi riguarda ho sempre trovato più affascinante il ruolo del cattivo.» Si rigirò il modellino tra le dita. «Quindi, per citare Superman II, “inginocchiati davanti a Zod”!» E fracassò il muso dell’auto contro il cranio di Garth.
Il corpo di Garth si dimenò per quasi un intero minuto prima d’immobilizzarsi.
David si rialzò in piedi, meditando sulle opportunità che gli si presentavano ora. A piccoli passi andò a raccogliere il cellulare di Garth, volato dall’altra parte della stanza. Una volta sbloccato lo schermo, scorse la rubrica fino a trovare il numero che lo interessava.
Il telefono squillò un paio di volte prima che una voce femminile rispondesse. «Judy? Ciao, sono Garth. Scusa se ti disturbo al lavoro, ma c’è una cosa di cui ti vorrei parlare. Che ne dici se quando stacchi ci becchiamo per un drink?»
lupus in fabula

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Spartaco
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Re: Semifinale Simona Mangiapelo

Messaggio#4 » venerdì 14 maggio 2021, 18:08

Il verdetto di Simona Mangiapelo:

l mio voto è per
VIP on demand
Il ritmo del racconto è scandito da rapidi dialoghi scritti molto bene. La crudele ironia della storia e la sua originalità rendono il racconto accattivante e la lettura molto piacevole.
Non ci sono descrizioni superflue e la vicenda che viene messa in scena è capace di coinvolgere il lettore senza permettergli di distrarsi né annoiarsi.

Kobayashi Palace, di Pretorian
Racconto surreale, per alcuni versi affascinante, ma poco convincente. Descrizioni che non rendono tangibili i personaggi, ma che sembrano solo esercizi di buona scrittura dell’autore. Poca coerenza nella messa in scena, con sangue ovunque ma vestiti bianchi che restano immacolati.

Accede alla finale: VIP on demand

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