Semifinale Marco Proietti Mancini
Semifinale Marco Proietti Mancini
Eccoci alla seconda parte de La Sfida a 80 voglia di ammazzarti
Combattono in questa semifinale:
Mai incrociare i flussi, di Matteo Mantoani
L'odore della foresta, di Andrea Forlan
In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.
Scadenza: martedì 4 maggio alle 23:59
Limite battute: 21.666
Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 4 maggio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.
Non fatevi sfuggire quest'occasione!
- MatteoMantoani
- Messaggi: 1093
Re: Semifinale Marco Proietti Mancini
La voce di Ray Stanz mi fa saltare il cuore alla testa: «Attento, ragazzo! Ectoplasma in vista: sto misurando 4.5 gaf sul gargarometro.»
Ha ragione, quel maledetto bastardo di Matteo Caldera è poco più avanti, alla fine della strada. Se ne sta in piedi, appoggiato alla moto, a guardarsi attorno con una sigaretta accesa impigliata tra le dita. È lì ad aspettare me, so che è così.
Ray mi appoggia una mano alla spalla. «Hai bisogno d'aiuto, figliolo?»
Scuoto la testa. «No. Andrà tutto ok.»
Le parole mi escono a fatica dalla gola serrata. Avanzo a passo incerto, appoggiandomi al muro in parte al marciapiede. Manca poco.
Eccolo, mi ha visto.
Corre verso di me e mi blocca il passaggio. I suoi occhi azzurri cosparsi di capillari si tingono di nero pece, la sua carnagione si fa cadaverica.
Oddio, no! Non ancora!
Squarci si aprono sulla sua pelle, a formare una griglia sanguinolenta dai cui incroci spuntano chiodi conficcati nella carne.
Merda. Merda.
Mi si rigirano le viscere, distolgo lo sguardo. Devo calmarmi, o non se ne andrà.
Caldera-Pinhead mi prende per il bavero della giacca e mi avvicina alla sua faccia: i chiodi mi sfiorano il viso, il suo alito puzza di sigaretta. «Non ti avevo detto di lasciare in pace la mia ragazza, pidocchio?»
Ho la gola secca, il fiato che non esce. Il ghigno si apre ancora di più a rivelare file di denti marci, gli spuntoni sulla pelle si muovono come se fossero vivi. «Elisa è roba mia. Guai a te se le mandi ancora un solo messaggio»
Mi sguancia un pugno allo stomaco. Tossisco l'anima e cado in ginocchio.
Stringo i denti, respiro e butto l'aria fuori dai polmoni. Ho una voglia, una voglia che mi fa ribollire il sangue. Ray si china e mi sussurra all'orecchio. «No, figliolo. Calmati. Ricorda: mai incrociare i flussi.»
Annuisco. «Mai incrociare i flussi.»
Gli anfibi di Caldera si allontanano. Risale in moto, la marmitta sputacchia pernacchie infernali. Ma perché quelli come lui truccano il motore in quel modo? Che gusto c’è a costringere gli altri a coprirsi le orecchie?
La moto mi passa vicino, gli spuntoni sulla faccia di Caldera sono scomparsi, il viso è quello di sempre. Mi mostra il dito medio e sparisce dietro una curva.
Ray mi aiuta ad alzarmi. «Quel teppista nasconde dentro di sé un ectoplasma uscito da un noto film dell’orrore.» Mi afferra le spalle. «Se avessi avuto il mio zaino protonico, sai che festa gli avrei fatto!»
Lo so. Quel maledetto. Se solo avessi la forza… al solo pensiero che Elisa possa trovare qualcosa di attraente in un merdoso ectoplasma del genere, mi sale il sangue alla testa.
«Fanculo. Andiamo avanti, Ray. Non facciamo tardi a scuola che oggi c'è il compito di chimica.»
Consegno il foglio protocollo con gli esercizi al prof. Bolognese. Lui lo apre, gli dà una scorsa col dito e strizza l’occhio. «Vedo già un voto a due cifre.»
Sorrido. I miei compagni lasciano il loro compito sulla cattedra e mi lanciano un'occhiataccia. Groppo alla gola.
Il prof. si aggiusta gli occhiali. «Stavo pensando: per la gara di Scuole Aperte, avresti un progettino da realizzare?»
Qualche idea in effetti ce l'ho. Annuisco.
Bolognese sorride. «Bene. Allora possiamo contare su di te?»
«Inizierò a lavorarci oggi stesso, e se vuole le porto tutti i miei calcoli.»
«Con calma. Ricorda, dobbiamo battere la sezione tecnica. Verranno le famiglie, le sezioni del liceo scientifico hanno sempre meno iscritti e una buona presentazione potrebbe aiutare.»
«Chi sarà il rappresentante della sezione tecnica?»
«Matteo Caldera.»
Stringo i pugni. Quell'infame. «E per il liceo? Chi c'è?»
«Tu, Elisa Martin della quarta A, e Fabio Bonucci per la B»
Elisa. Che sia la volta buona per farle vedere di che pasta sono fatto? Quando vincerò il premio si accorgerà che si sbaglia, su di me. «Batterò Caldera.»
Bolognese sorride. «Ho fiducia in tutti e tre.»
Egon Spengler borbotta con la sua voce da basso. «La sezione trasversale del modellino non è abbastanza levigata.»
Avvicino il naso al pannello di compensato: ha ragione. «Grazie Egon.»
Raccolgo la carta vetrata e gratto la superficie di legno. «Che ne dici? Ce la faremo?»
Egon mugugna. «Il peso atomico del cobalto, è o non è 58.9?»
Certo che lo è. Egon, se non ci fossi tu! «Sarebbe bello avere del cobalto, il modellino in questo modo potrebbe anche funzionare per davvero.»
«È vero, ma attento: lo zaino protonico non è un giocattolo.»
Soffio sulla polvere del legno, la nuvola di segatura scarica la sua pioggia di frammenti sulla scrivania del laboratorio. «Hai ragione, non è un giocattolo.»
Lo fisso negli occhi, la sua fronte spaziosa si aggrotta. «Tutto ok, ragazzo?»
«Quand'eri piccolo, a cosa giocavi?»
I suoi dentoni spuntano dalle labbra. «I miei non credevano nei giocattoli. Avevo un misirizzi, ma ne estrassi il piombo.»
Rido. «Io e te ci somigliamo molto.»
Egon ammicca. «Lo so. Saresti un ottimo ghostbuster.»
Sospiro, una lacrima mi inumidisce l'occhio destro. «Grazie Egon.» Raddrizzo il pannello di compensato. «Vada come vada, devo ammettere che fare questo modellino è pur sempre più divertente che collezionare spore, muffe e funghi!»
«Puoi dirlo forte, figliolo.»
La porta si apre, la mamma entra. Ha lo sguardo perso e la bottiglia in mano. «Enrico, con chi stai parlando?»
Sbuffo. «Con un mio amico, mamma.»
Barcolla e si appoggia al muro. «Ma non c’è nessuno qui. Ah, è uno dei tuoi amici immaginari?»
«No, mamma.»
Rotea gli occhi, deve girarle tutto. «Che stai combinando? Cos’è quella roba?»
«Una ricerca per la scuola. Tranquilla.»
Si copre la bocca con la mano a soffocare un rutto. «Bravo, tesoro.»
Si gira verso la porta e finalmente se ne va fuori dalle palle.
Il tizio grasso abbassa lo sguardo sul mio modellino. Si gratta la testa e accarezza i bottoni del suo cappotto doppio petto.
«E questo cosa sarebbe?»
Peter Venkman appoggia la mano alla mia spalla: «Coraggio!»
Mi schiarisco la gola. «Un ciclotrone.»
L’omone mi dirige uno sguardo obliquo. «Ciclo… clone?»
«Ciclo-trone.» Prendo un respiro profondo. Infilo il dito tra le due pareti di compensato. «Questi gusci a forma di semicerchio, rappresentano le bobine che generano il campo magnetico.» Scorro il dito da destra a sinistra nella fessura. «Qui invece si sviluppa un forte campo elettrico. Le particelle cariche, i protoni, circolano nel tubo grazie alla forza di Lorentz.»
Il tizio non fa una grinza. Continuo a spiegare. «I protoni dovrebbero fermarsi, perché la forza di Lorentz dissipa energia: qui interviene il campo elettrico, che li accelera ogni volta che oltrepassano la fessura tra i gusci.»
«Ah. Interessante. E a cosa serve?»
Perché non capisce? «Ad-accelerare-i-protoni… è uno zaino protonico, come quello dei Ghostbusters!»
Venkman alza le braccia al cielo. «Inchinatevi alla scienza!»
Accendo l’interruttore sul fucile di plastica, il raggio laser fuoriesce dal circuito a simulare il fascio di protoni dello zaino. «Vede? Una piccola licenza poetica del film sta proprio nel fatto che il fascio in uscita, invece di essere dritto, curva e si attorciglia.»
«Ah! Ok! Bello, grazie.»
Il tizio mi sorride e si dirige verso il banco di Fabio. La sua guidovia a cuscino d’aria è una dimostrazione delle tre leggi di Newton: un giochetto da ragazzi.
Sbuffo. «Se n’è andato prima che potessi mostrargli i miei calcoli.»
Venkman fa spallucce. «Tranquillo, hai visto il cappotto con la doppia fila di bottoni? Dev’essere un marinaio, ed è qui in città. Lo portiamo a scopare e non avremo noie.»
Rido. Butto lo sguardo verso Elisa, che si esibisce in fondo al salone: il suono del suo ukulele ricavato da un cartone del latte si sente fino a qui.
Sospiro. «Una gran bella Guardia di Porta, vero?»
Venkman annuisce. «Eh già, mi piacerebbe capire se dorme a un metro e venti sopra le coperte, come Dana Barrett.»
«A chi lo dici. Vorrei essere il suo Mastro di Chiavi.»
Peter ride. «Non c’è che dire. Una bella pollastra, figliolo.» Mi dà una gomitata. «Quando il premio sarà tuo, cadrà ai tuoi piedi.»
Una fitta allo stomaco. Non vedo l’ora.
Il prof. Bolognese si avvicina al banco. «Enrico! Che bello, ti è venuto proprio bene questo zaino protonico.» Appoggia il dito sulle luci. «Sembra quello del film! E hai curato anche le parti interne. Complimenti!»
Annuisco. «E vede i miei calcoli?» Gli indico la lavagna con la mano. «Ho calcolato con precisione quanta energia occorre per un fascio da dodici KeV.»
Il prof. si spinge gli occhiali sul naso. «Sembra corretto.» Stringe le labbra. «Riesci a spiegare tutto alla gente in visita?»
Venkman incrocia le braccia. «Ma che vuole questo?»
Lo zittisco con un cenno della mano. Bolognese strabuzza gli occhi. «Tutto ok?»
«Non si preoccupi. I Ghostbusters sono popolari, vedrà che la gente apprezzerà la mia presentazione.»
Si incupisce. «Lo spero.» Intreccia le dita sul petto. «La presentazione di Fabio non sta attirando molta gente. Elisa è carina, ma a suonare quell’affare è una frana.» Si carezza la pelata. «Le famiglie stanno votando, ma ho paura che non ci andrà bene.»
E se avesse ragione? No, non è possibile, con tutto il lavoro che ho fatto, la gente deve apprezzare lo zaino. Cazzarola: se mai l’avessero spiegato a me, come funziona uno zaino protonico, avrei fatto salti di gioia. «E Caldera?»
«Vai a vedere tu stesso. Anzi, adesso chiamo gli altri e ci andiamo assieme.»
Non capisco, mi volto a guardare Venkman. Peter si gratta la testa perplesso.
Mi faccio largo tra la gente e mi avvicino a Elisa. Il suo viso di porcellana mi fa avvampare le guance. Le sue labbra sono schiuse a rivelare la punta della lingua che accarezza gli incisivi, le sue pupille si muovono a destra e a sinistra a seguire Caldera che corre in moto lungo il parcheggio. Tra una derapata e l’altra, il bastardo si solleva sulla ruota posteriore e manda gesti di saluto alla folla, i dannati capelli biondi gli sventolano in testa come una bandiera di guerra.
Venkman grugnisce. «Un pochino sfacciatello.»
Stringo il pugno. «Non devo incrociare i flussi.»
Elisa si volta, i suoi occhi azzurrissimi mi allentano le viscere. «Hai detto qualcosa?»
Mi schiarisco la gola. «Dicevo che… non capisco perché la gente preferisca guardare lui, piuttosto che noi. Gioca solo con la sua moto.»
Elisa si volta a guardarlo. «Però è proprio bravo.»
Venkman alza gli occhi al cielo. «Porca vaccamiseria.»
La moto si avvicina alla folla, la gente mormora concitata. Caldera spegne il motore, scende e prende lo smartphone: un filo elettrico lo collega alla ruota, lo stacca.
«Signore e signori.» Lo agita sopra alla testa. «Come sapete, prima della mia esibizione la batteria era al quattro percento.»
Dirige lo sguardo verso di noi. «Chiederei a Elisa Martin di venire qui, per piacere.»
Non andare!
Lei obbedisce come un cagnolino tirato da un guinzaglio invisibile.
Un brivido mi corre lungo la schiena. «Venkman.»
«Aspetta, figliolo. Stiamo a guardare.»
Elisa tocca il display, sorride e lo mostra alla folla. «Ventinove!»
Scroscio di applausi.
Scuoto la testa. «Ha solo adattato la dinamo della moto alla batteria dello smartphone!» Deglutisco. «Che cosa avrebbe di speciale come idea?»
Venkman incrocia le braccia. «Ho paura che saranno acidissimi cavoli, ragazzo.»
Applausi, applausi.
Bolognese sale sul palco, cammina con un palo nel culo, il robot dorato di Star Wars è più agile. Consegna la coppa della gara di Scuole Aperte a Matteo Caldera. Mi ribolle lo stomaco. Elisa è in prima fila, lo saluta agitando quella manina dalle unghie laccate. Una lacrima mi offusca la vista. Caldera scende dal podio, scosta i professori, cinge Elisa con le braccia e le schiocca un bacio.
Applausi.
Baci.
Applausi.
Mordo l'interno della guancia, inghiottisco sangue e saliva.
Mai incrociare i flussi: sarebbe male. Molto male. Come se la vita si fermasse istantaneamente e ogni molecola del mio corpo esplodesse alla velocità della luce.
«Che ne dici Egon?»
«In linea puramente teorica, c’è una lievissima probabilità di uscirne indenni.»
Inspiro, è il momento. Esco dall’ombra e mi pianto davanti a loro due. Caldera mi fissa, si stacca dalle braccia di Elisa e la spinge da parte. Alza il mento e si appoggia alla moto. «Pidocchio, sei venuto a rendere omaggio al nuovo re degli dèi?»
Il cuore mi scoppia in petto. «Tu non sei un dio.»
Il lampione fa luccicare i suoi capelli biondi, la faccia è squarciata da tagli sanguinanti percorsi da chiodi che spuntano come funghi metallici.
Qualcosa mi balla nello stomaco. Respiro, posso farcela.
Elisa mi guarda e arriccia il naso. «Ma com’è vestito?»
Caldera-Pinhead mi squadra da capo a piedi. «Bella la tutina color caccarella. E quelle lucine che ti penzolano dal culo?» Si piega dalle risate.
Reprimo un singhiozzo. «Non ridere della mia uniforme, stronzo.»
Non devo ancora incrociare i flussi. Chiudo gli occhi: rumore di anfibi sull’asfalto. «Sparisci, prima che ti faccia sputare le gengive dalle orecchie.»
Spalanco gli occhi. I nostri nasi quasi si toccano, il fiato di sigaretta m’investe la faccia e i chiodi brillano come stelle. Mi colpisce alla costola con un pugno. Faccio un passo indietro, mi piego, sputacchio, ma non smetto di fissarlo. Elisa emette un risolino.
Peter Venkman mi prende un braccio. «Petto in fuori ragazzo, sei un ghostbuster.» Mi aiuta a stare in piedi. «Come mi piace questo piano, e come mi onora farne parte, facciamolo!»
Sorrido. Caldera-Pinhead alza le sopracciglia. «Che hai da ridere?»
I chiodi e il sangue scompaiono, stringo i denti. «Non mi fai più paura, ectoplasma di merda!» Estraggo il fucile protonico dallo zaino, accendo la luce del laser e muovo la puntina rossa sugli occhi di Caldera. La merdaccia si copre il viso con la mano.
Adesso o mai più.
Scatto in avanti e gli afferro la gola. Cadiamo sull’asfalto. «Incrociamo i flussi ragazzi!»
Elisa strilla, Caldera si agita e mi arpiona i polsi. Non mollo. Le mani di Venkman si sovrappongono alle mie. «Incrocia anche tu Spengler!»
Le dita di Egon si stringono attorno al collo, seguite da quelle di Ray. Il muso del bastardo si fa paonazzo e gli esce una schiumetta dalla bocca.
«Incrocia anche tu, Winston!»
Le mani scure di Winston sono le più forti: la cartilagine del pomo d’adamo si accartoccia sotto i nostri polpastrelli. Il bastardo rantola, sono su di lui. «Sei tu un dio?»
La risata di Ray mi rimbomba nelle orecchie. «Noi redivivi, lui redimorto!»
Venkman alza i pugni al cielo. «Venimmo, vedemmo, e lo inculammo!»
Caldera non si muove più: gli occhi fissano il vuoto, le labbra sono inzaccherate da una sostanza melmosa. Lascio la presa. Il dorso della mia mano è impiastricciato di viscido liquame.
Peter emette un verso di disgusto. «Ti ha smerdato.»
Egon si mette a posto gli occhiali. «Bravo ragazzo, prendine un campione.»
La macchina dei carabinieri è ridicola, l’Ecto-1 dei Ghostbusters è cento volte meglio, con la sua sirena stridente che incute rispetto; non come questa, che sembra il rantolo di una gallina moribonda. Gratto la pelle del sedile, un grumo di sporcizia mi si infila sotto le unghie. Una macchina lercia, per giunta.
Ray singhiozza con la fronte appoggiata al mio petto. «Siamo finiti. E chi l’avrebbe detto?»
Peter ha le gambe distese coi piedi appoggiati sulla testa del carabiniere alla guida. «E chissenefrega? Non c’è niente di male a finire così in basso, Einstein fece le cose migliori quando era impiegato all’ufficio brevetti di Berna.»
Ray si raddrizza e aggrotta la fronte. «E questo cosa vorrebbe dire?»
Venkman alza la voce e schiaffeggia l’aria con la mano. «Che ce ne andiamo in prigione, pacifici, felici. Sarà una gioia!» Sorride e mi guarda. «Ma Enrico, tu, hai fottuto alla grande quel gran pezzo di ectoplasma.»
Prendo un respiro profondo, Peter ha ragione. «Era l’unica cosa sensata da fare, ma nessuno lo capirà mai.» Mi appoggio allo schienale. «Cosa ne sarà di voi, ragazzi?»
Il viso di Winston compare al centro del parabrezza dell’auto. «Per quanto mi riguarda, io voglio tenermi il mio lavoro.»
Il mento di Egon si materializza infilato nel portabicchieri del cruscotto. «A questo riguardo, c’è una cosa che è meglio chiarire fin da subito.»
Peter si volta verso di me. «Ben detto, Spengler! E lo sai cosa, figliolo?»
Alzo le spalle. «Dammi una mano tu.»
Peter allarga le labbra in un sorriso. «Che quando piove la merda, e qualcuno deve metterci un ombrello, who you gonna call?»
Tutti all’unisono: «Ghostbusters!»
Ray mi appoggia una mano alla spalla. «Saremo sempre con te, anche Winston. Giusto?»
Il viso nel parabrezza sorride, i denti bianchissimi brillano alla luce della luna. «Se c’è lo stipendio fisso, affronterò per voi ogni pericolo!»
Mi viene da piangere: «Grazie amici.» Mi asciugo una lacrima. «Cari amici.»
Ha ragione, quel maledetto bastardo di Matteo Caldera è poco più avanti, alla fine della strada. Se ne sta in piedi, appoggiato alla moto, a guardarsi attorno con una sigaretta accesa impigliata tra le dita. È lì ad aspettare me, so che è così.
Ray mi appoggia una mano alla spalla. «Hai bisogno d'aiuto, figliolo?»
Scuoto la testa. «No. Andrà tutto ok.»
Le parole mi escono a fatica dalla gola serrata. Avanzo a passo incerto, appoggiandomi al muro in parte al marciapiede. Manca poco.
Eccolo, mi ha visto.
Corre verso di me e mi blocca il passaggio. I suoi occhi azzurri cosparsi di capillari si tingono di nero pece, la sua carnagione si fa cadaverica.
Oddio, no! Non ancora!
Squarci si aprono sulla sua pelle, a formare una griglia sanguinolenta dai cui incroci spuntano chiodi conficcati nella carne.
Merda. Merda.
Mi si rigirano le viscere, distolgo lo sguardo. Devo calmarmi, o non se ne andrà.
Caldera-Pinhead mi prende per il bavero della giacca e mi avvicina alla sua faccia: i chiodi mi sfiorano il viso, il suo alito puzza di sigaretta. «Non ti avevo detto di lasciare in pace la mia ragazza, pidocchio?»
Ho la gola secca, il fiato che non esce. Il ghigno si apre ancora di più a rivelare file di denti marci, gli spuntoni sulla pelle si muovono come se fossero vivi. «Elisa è roba mia. Guai a te se le mandi ancora un solo messaggio»
Mi sguancia un pugno allo stomaco. Tossisco l'anima e cado in ginocchio.
Stringo i denti, respiro e butto l'aria fuori dai polmoni. Ho una voglia, una voglia che mi fa ribollire il sangue. Ray si china e mi sussurra all'orecchio. «No, figliolo. Calmati. Ricorda: mai incrociare i flussi.»
Annuisco. «Mai incrociare i flussi.»
Gli anfibi di Caldera si allontanano. Risale in moto, la marmitta sputacchia pernacchie infernali. Ma perché quelli come lui truccano il motore in quel modo? Che gusto c’è a costringere gli altri a coprirsi le orecchie?
La moto mi passa vicino, gli spuntoni sulla faccia di Caldera sono scomparsi, il viso è quello di sempre. Mi mostra il dito medio e sparisce dietro una curva.
Ray mi aiuta ad alzarmi. «Quel teppista nasconde dentro di sé un ectoplasma uscito da un noto film dell’orrore.» Mi afferra le spalle. «Se avessi avuto il mio zaino protonico, sai che festa gli avrei fatto!»
Lo so. Quel maledetto. Se solo avessi la forza… al solo pensiero che Elisa possa trovare qualcosa di attraente in un merdoso ectoplasma del genere, mi sale il sangue alla testa.
«Fanculo. Andiamo avanti, Ray. Non facciamo tardi a scuola che oggi c'è il compito di chimica.»
Consegno il foglio protocollo con gli esercizi al prof. Bolognese. Lui lo apre, gli dà una scorsa col dito e strizza l’occhio. «Vedo già un voto a due cifre.»
Sorrido. I miei compagni lasciano il loro compito sulla cattedra e mi lanciano un'occhiataccia. Groppo alla gola.
Il prof. si aggiusta gli occhiali. «Stavo pensando: per la gara di Scuole Aperte, avresti un progettino da realizzare?»
Qualche idea in effetti ce l'ho. Annuisco.
Bolognese sorride. «Bene. Allora possiamo contare su di te?»
«Inizierò a lavorarci oggi stesso, e se vuole le porto tutti i miei calcoli.»
«Con calma. Ricorda, dobbiamo battere la sezione tecnica. Verranno le famiglie, le sezioni del liceo scientifico hanno sempre meno iscritti e una buona presentazione potrebbe aiutare.»
«Chi sarà il rappresentante della sezione tecnica?»
«Matteo Caldera.»
Stringo i pugni. Quell'infame. «E per il liceo? Chi c'è?»
«Tu, Elisa Martin della quarta A, e Fabio Bonucci per la B»
Elisa. Che sia la volta buona per farle vedere di che pasta sono fatto? Quando vincerò il premio si accorgerà che si sbaglia, su di me. «Batterò Caldera.»
Bolognese sorride. «Ho fiducia in tutti e tre.»
Egon Spengler borbotta con la sua voce da basso. «La sezione trasversale del modellino non è abbastanza levigata.»
Avvicino il naso al pannello di compensato: ha ragione. «Grazie Egon.»
Raccolgo la carta vetrata e gratto la superficie di legno. «Che ne dici? Ce la faremo?»
Egon mugugna. «Il peso atomico del cobalto, è o non è 58.9?»
Certo che lo è. Egon, se non ci fossi tu! «Sarebbe bello avere del cobalto, il modellino in questo modo potrebbe anche funzionare per davvero.»
«È vero, ma attento: lo zaino protonico non è un giocattolo.»
Soffio sulla polvere del legno, la nuvola di segatura scarica la sua pioggia di frammenti sulla scrivania del laboratorio. «Hai ragione, non è un giocattolo.»
Lo fisso negli occhi, la sua fronte spaziosa si aggrotta. «Tutto ok, ragazzo?»
«Quand'eri piccolo, a cosa giocavi?»
I suoi dentoni spuntano dalle labbra. «I miei non credevano nei giocattoli. Avevo un misirizzi, ma ne estrassi il piombo.»
Rido. «Io e te ci somigliamo molto.»
Egon ammicca. «Lo so. Saresti un ottimo ghostbuster.»
Sospiro, una lacrima mi inumidisce l'occhio destro. «Grazie Egon.» Raddrizzo il pannello di compensato. «Vada come vada, devo ammettere che fare questo modellino è pur sempre più divertente che collezionare spore, muffe e funghi!»
«Puoi dirlo forte, figliolo.»
La porta si apre, la mamma entra. Ha lo sguardo perso e la bottiglia in mano. «Enrico, con chi stai parlando?»
Sbuffo. «Con un mio amico, mamma.»
Barcolla e si appoggia al muro. «Ma non c’è nessuno qui. Ah, è uno dei tuoi amici immaginari?»
«No, mamma.»
Rotea gli occhi, deve girarle tutto. «Che stai combinando? Cos’è quella roba?»
«Una ricerca per la scuola. Tranquilla.»
Si copre la bocca con la mano a soffocare un rutto. «Bravo, tesoro.»
Si gira verso la porta e finalmente se ne va fuori dalle palle.
Il tizio grasso abbassa lo sguardo sul mio modellino. Si gratta la testa e accarezza i bottoni del suo cappotto doppio petto.
«E questo cosa sarebbe?»
Peter Venkman appoggia la mano alla mia spalla: «Coraggio!»
Mi schiarisco la gola. «Un ciclotrone.»
L’omone mi dirige uno sguardo obliquo. «Ciclo… clone?»
«Ciclo-trone.» Prendo un respiro profondo. Infilo il dito tra le due pareti di compensato. «Questi gusci a forma di semicerchio, rappresentano le bobine che generano il campo magnetico.» Scorro il dito da destra a sinistra nella fessura. «Qui invece si sviluppa un forte campo elettrico. Le particelle cariche, i protoni, circolano nel tubo grazie alla forza di Lorentz.»
Il tizio non fa una grinza. Continuo a spiegare. «I protoni dovrebbero fermarsi, perché la forza di Lorentz dissipa energia: qui interviene il campo elettrico, che li accelera ogni volta che oltrepassano la fessura tra i gusci.»
«Ah. Interessante. E a cosa serve?»
Perché non capisce? «Ad-accelerare-i-protoni… è uno zaino protonico, come quello dei Ghostbusters!»
Venkman alza le braccia al cielo. «Inchinatevi alla scienza!»
Accendo l’interruttore sul fucile di plastica, il raggio laser fuoriesce dal circuito a simulare il fascio di protoni dello zaino. «Vede? Una piccola licenza poetica del film sta proprio nel fatto che il fascio in uscita, invece di essere dritto, curva e si attorciglia.»
«Ah! Ok! Bello, grazie.»
Il tizio mi sorride e si dirige verso il banco di Fabio. La sua guidovia a cuscino d’aria è una dimostrazione delle tre leggi di Newton: un giochetto da ragazzi.
Sbuffo. «Se n’è andato prima che potessi mostrargli i miei calcoli.»
Venkman fa spallucce. «Tranquillo, hai visto il cappotto con la doppia fila di bottoni? Dev’essere un marinaio, ed è qui in città. Lo portiamo a scopare e non avremo noie.»
Rido. Butto lo sguardo verso Elisa, che si esibisce in fondo al salone: il suono del suo ukulele ricavato da un cartone del latte si sente fino a qui.
Sospiro. «Una gran bella Guardia di Porta, vero?»
Venkman annuisce. «Eh già, mi piacerebbe capire se dorme a un metro e venti sopra le coperte, come Dana Barrett.»
«A chi lo dici. Vorrei essere il suo Mastro di Chiavi.»
Peter ride. «Non c’è che dire. Una bella pollastra, figliolo.» Mi dà una gomitata. «Quando il premio sarà tuo, cadrà ai tuoi piedi.»
Una fitta allo stomaco. Non vedo l’ora.
Il prof. Bolognese si avvicina al banco. «Enrico! Che bello, ti è venuto proprio bene questo zaino protonico.» Appoggia il dito sulle luci. «Sembra quello del film! E hai curato anche le parti interne. Complimenti!»
Annuisco. «E vede i miei calcoli?» Gli indico la lavagna con la mano. «Ho calcolato con precisione quanta energia occorre per un fascio da dodici KeV.»
Il prof. si spinge gli occhiali sul naso. «Sembra corretto.» Stringe le labbra. «Riesci a spiegare tutto alla gente in visita?»
Venkman incrocia le braccia. «Ma che vuole questo?»
Lo zittisco con un cenno della mano. Bolognese strabuzza gli occhi. «Tutto ok?»
«Non si preoccupi. I Ghostbusters sono popolari, vedrà che la gente apprezzerà la mia presentazione.»
Si incupisce. «Lo spero.» Intreccia le dita sul petto. «La presentazione di Fabio non sta attirando molta gente. Elisa è carina, ma a suonare quell’affare è una frana.» Si carezza la pelata. «Le famiglie stanno votando, ma ho paura che non ci andrà bene.»
E se avesse ragione? No, non è possibile, con tutto il lavoro che ho fatto, la gente deve apprezzare lo zaino. Cazzarola: se mai l’avessero spiegato a me, come funziona uno zaino protonico, avrei fatto salti di gioia. «E Caldera?»
«Vai a vedere tu stesso. Anzi, adesso chiamo gli altri e ci andiamo assieme.»
Non capisco, mi volto a guardare Venkman. Peter si gratta la testa perplesso.
Mi faccio largo tra la gente e mi avvicino a Elisa. Il suo viso di porcellana mi fa avvampare le guance. Le sue labbra sono schiuse a rivelare la punta della lingua che accarezza gli incisivi, le sue pupille si muovono a destra e a sinistra a seguire Caldera che corre in moto lungo il parcheggio. Tra una derapata e l’altra, il bastardo si solleva sulla ruota posteriore e manda gesti di saluto alla folla, i dannati capelli biondi gli sventolano in testa come una bandiera di guerra.
Venkman grugnisce. «Un pochino sfacciatello.»
Stringo il pugno. «Non devo incrociare i flussi.»
Elisa si volta, i suoi occhi azzurrissimi mi allentano le viscere. «Hai detto qualcosa?»
Mi schiarisco la gola. «Dicevo che… non capisco perché la gente preferisca guardare lui, piuttosto che noi. Gioca solo con la sua moto.»
Elisa si volta a guardarlo. «Però è proprio bravo.»
Venkman alza gli occhi al cielo. «Porca vaccamiseria.»
La moto si avvicina alla folla, la gente mormora concitata. Caldera spegne il motore, scende e prende lo smartphone: un filo elettrico lo collega alla ruota, lo stacca.
«Signore e signori.» Lo agita sopra alla testa. «Come sapete, prima della mia esibizione la batteria era al quattro percento.»
Dirige lo sguardo verso di noi. «Chiederei a Elisa Martin di venire qui, per piacere.»
Non andare!
Lei obbedisce come un cagnolino tirato da un guinzaglio invisibile.
Un brivido mi corre lungo la schiena. «Venkman.»
«Aspetta, figliolo. Stiamo a guardare.»
Elisa tocca il display, sorride e lo mostra alla folla. «Ventinove!»
Scroscio di applausi.
Scuoto la testa. «Ha solo adattato la dinamo della moto alla batteria dello smartphone!» Deglutisco. «Che cosa avrebbe di speciale come idea?»
Venkman incrocia le braccia. «Ho paura che saranno acidissimi cavoli, ragazzo.»
Applausi, applausi.
Bolognese sale sul palco, cammina con un palo nel culo, il robot dorato di Star Wars è più agile. Consegna la coppa della gara di Scuole Aperte a Matteo Caldera. Mi ribolle lo stomaco. Elisa è in prima fila, lo saluta agitando quella manina dalle unghie laccate. Una lacrima mi offusca la vista. Caldera scende dal podio, scosta i professori, cinge Elisa con le braccia e le schiocca un bacio.
Applausi.
Baci.
Applausi.
Mordo l'interno della guancia, inghiottisco sangue e saliva.
Mai incrociare i flussi: sarebbe male. Molto male. Come se la vita si fermasse istantaneamente e ogni molecola del mio corpo esplodesse alla velocità della luce.
«Che ne dici Egon?»
«In linea puramente teorica, c’è una lievissima probabilità di uscirne indenni.»
Inspiro, è il momento. Esco dall’ombra e mi pianto davanti a loro due. Caldera mi fissa, si stacca dalle braccia di Elisa e la spinge da parte. Alza il mento e si appoggia alla moto. «Pidocchio, sei venuto a rendere omaggio al nuovo re degli dèi?»
Il cuore mi scoppia in petto. «Tu non sei un dio.»
Il lampione fa luccicare i suoi capelli biondi, la faccia è squarciata da tagli sanguinanti percorsi da chiodi che spuntano come funghi metallici.
Qualcosa mi balla nello stomaco. Respiro, posso farcela.
Elisa mi guarda e arriccia il naso. «Ma com’è vestito?»
Caldera-Pinhead mi squadra da capo a piedi. «Bella la tutina color caccarella. E quelle lucine che ti penzolano dal culo?» Si piega dalle risate.
Reprimo un singhiozzo. «Non ridere della mia uniforme, stronzo.»
Non devo ancora incrociare i flussi. Chiudo gli occhi: rumore di anfibi sull’asfalto. «Sparisci, prima che ti faccia sputare le gengive dalle orecchie.»
Spalanco gli occhi. I nostri nasi quasi si toccano, il fiato di sigaretta m’investe la faccia e i chiodi brillano come stelle. Mi colpisce alla costola con un pugno. Faccio un passo indietro, mi piego, sputacchio, ma non smetto di fissarlo. Elisa emette un risolino.
Peter Venkman mi prende un braccio. «Petto in fuori ragazzo, sei un ghostbuster.» Mi aiuta a stare in piedi. «Come mi piace questo piano, e come mi onora farne parte, facciamolo!»
Sorrido. Caldera-Pinhead alza le sopracciglia. «Che hai da ridere?»
I chiodi e il sangue scompaiono, stringo i denti. «Non mi fai più paura, ectoplasma di merda!» Estraggo il fucile protonico dallo zaino, accendo la luce del laser e muovo la puntina rossa sugli occhi di Caldera. La merdaccia si copre il viso con la mano.
Adesso o mai più.
Scatto in avanti e gli afferro la gola. Cadiamo sull’asfalto. «Incrociamo i flussi ragazzi!»
Elisa strilla, Caldera si agita e mi arpiona i polsi. Non mollo. Le mani di Venkman si sovrappongono alle mie. «Incrocia anche tu Spengler!»
Le dita di Egon si stringono attorno al collo, seguite da quelle di Ray. Il muso del bastardo si fa paonazzo e gli esce una schiumetta dalla bocca.
«Incrocia anche tu, Winston!»
Le mani scure di Winston sono le più forti: la cartilagine del pomo d’adamo si accartoccia sotto i nostri polpastrelli. Il bastardo rantola, sono su di lui. «Sei tu un dio?»
La risata di Ray mi rimbomba nelle orecchie. «Noi redivivi, lui redimorto!»
Venkman alza i pugni al cielo. «Venimmo, vedemmo, e lo inculammo!»
Caldera non si muove più: gli occhi fissano il vuoto, le labbra sono inzaccherate da una sostanza melmosa. Lascio la presa. Il dorso della mia mano è impiastricciato di viscido liquame.
Peter emette un verso di disgusto. «Ti ha smerdato.»
Egon si mette a posto gli occhiali. «Bravo ragazzo, prendine un campione.»
La macchina dei carabinieri è ridicola, l’Ecto-1 dei Ghostbusters è cento volte meglio, con la sua sirena stridente che incute rispetto; non come questa, che sembra il rantolo di una gallina moribonda. Gratto la pelle del sedile, un grumo di sporcizia mi si infila sotto le unghie. Una macchina lercia, per giunta.
Ray singhiozza con la fronte appoggiata al mio petto. «Siamo finiti. E chi l’avrebbe detto?»
Peter ha le gambe distese coi piedi appoggiati sulla testa del carabiniere alla guida. «E chissenefrega? Non c’è niente di male a finire così in basso, Einstein fece le cose migliori quando era impiegato all’ufficio brevetti di Berna.»
Ray si raddrizza e aggrotta la fronte. «E questo cosa vorrebbe dire?»
Venkman alza la voce e schiaffeggia l’aria con la mano. «Che ce ne andiamo in prigione, pacifici, felici. Sarà una gioia!» Sorride e mi guarda. «Ma Enrico, tu, hai fottuto alla grande quel gran pezzo di ectoplasma.»
Prendo un respiro profondo, Peter ha ragione. «Era l’unica cosa sensata da fare, ma nessuno lo capirà mai.» Mi appoggio allo schienale. «Cosa ne sarà di voi, ragazzi?»
Il viso di Winston compare al centro del parabrezza dell’auto. «Per quanto mi riguarda, io voglio tenermi il mio lavoro.»
Il mento di Egon si materializza infilato nel portabicchieri del cruscotto. «A questo riguardo, c’è una cosa che è meglio chiarire fin da subito.»
Peter si volta verso di me. «Ben detto, Spengler! E lo sai cosa, figliolo?»
Alzo le spalle. «Dammi una mano tu.»
Peter allarga le labbra in un sorriso. «Che quando piove la merda, e qualcuno deve metterci un ombrello, who you gonna call?»
Tutti all’unisono: «Ghostbusters!»
Ray mi appoggia una mano alla spalla. «Saremo sempre con te, anche Winston. Giusto?»
Il viso nel parabrezza sorride, i denti bianchissimi brillano alla luce della luna. «Se c’è lo stipendio fisso, affronterò per voi ogni pericolo!»
Mi viene da piangere: «Grazie amici.» Mi asciugo una lacrima. «Cari amici.»
- Andrea Furlan
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Re: Semifinale Marco Proietti Mancini
L’odore della foresta
di Andrea Furlan
La giungla puzza.
Puzza terribilmente. Materia organica in decomposizione, sempre bagnata, umido schifoso che ti entra nelle ossa, ti fa marcire i piedi provati da giornate di cammino. E anche i pensieri.
Ci sono nato, cresciuto. È il posto dove lavoro. Ma l’ho sempre odiata.
Mentre la guardo dall’alto, attraverso il finestrino dell’aereo, prendo la decisione. Sento che sto diventando troppo vecchio per rischiare: questa è l’ultima volta che ci metto piede.
Le palpebre mi si chiudono mentre guardo fuori: sono stanco, ho ancora nella testa e nelle gambe la fatica di sfuggire per giorni alla polizia. Immagini e sensazioni dei lavori precedenti si affollano nella mia mente, scivolano nel sogno: trasportare armi e droga, catturare animali rari, aiutare i contadini a bruciare la foresta per coltivare. È diventato troppo pericoloso, nonostante l’aiuto di Bolsonaro, che sia benedetto.
La mia attenzione torna, a fatica, sul sito dell’agenzia immobiliare che sto consultando: haciendas in vendita, in mezzo alla pampa, dove di giungla non c’è nemmeno l’ombra. Alcune di loro sono interessanti, ma serve un mucchio di soldi.
Niente da fare, sono troppo distratto, nervoso: chiudo il computer. Il volo è pieno, e rumoroso. Non c’è niente di peggio dei sudamericani in vacanza. Chiasso terribile, gente che va avanti e indietro senza sosta. Il bambino seduto davanti piange da quando abbiamo lasciato S. Paolo. I genitori non sanno più come farlo smettere, sono tesi, parlano solo per comunicazioni di servizio: un’altra famiglia infelice. Chissà chi diavolo gliel’ha fatto fare.
La testa rimbomba, ma non riesco a dormire anche se ho passato quasi tutta la notte in bianco. Le nuove ragazze dell’Orquídea branca non volevano lasciarmi andare via. Lascio mance troppo generose, come sempre. Ripenso ai seni pesanti di Ophelia che oscillano mentre la guido sopra di me, le mani sui suoi fianchi larghi. Devo ricordarmi il suo nome, per la prossima volta.
«Iniziamo la discesa verso Cartagena, la temperatura è di 28 gradi. Allacciate le cinture.»
L’annuncio del pilota quasi non si sente in mezzo al baccano infernale. Finalmente.
***
La città è immersa in mezzo agli alberi, come se la giungla cercasse di soffocarla a partire dai sobborghi. Sento il suo odore rancido mentre il taxi mi lascia di fronte a un vecchio caffè. Scritte colorate, muri sbrecciati, clienti anziani che passano la giornata a bere rum e giocare a scacchi.
Ci sono cinque sconosciuti che mi aspettano a un tavolino, un gruppo scombinato che stona con il contesto. Uno alto, biondo con i capelli a spazzola e gli occhi azzurri. Alla sua destra, un secondo indossa una cuffietta nera e gli occhiali da sole, sta immobile a fissare il muro, potrebbe essere cieco. Mentre lo fisso incuriosito, sento il nero con i baffetti scoppiare in una risata strana, trascinante. Non posso fare a meno di sorridere, cosa che non succede a quello con cui sta parlando, uno grande e grosso con i capelli corti e una giacca di pelle nera.
L’ultimo si alza e mi viene incontro. Alto, pallido, guance cadenti, stretto in un completo scuro gessato che starebbe bene a un impiegato di banca.
«Louis, piacere.» Mi sorride. Riconosco l’accento americano: è quello che mi ha telefonato per propormi l’incarico.
«Hugo. Piacere mio.» Il mio tono è secco. Non mi piace dare confidenza al primo incontro.
Mi siedo con gli altri, ci presentiamo, ordino qualcosa. Parlando, indovino le loro nazionalità, un po’ da quello che dicono, un po’ dal loro accento: il biondo è russo, cuffia e occhiali francese, il culturista è austriaco, gli altri due americani, ma di posti diversi. Li ho inquadrati subito, tutti militari a pagamento: aspetto anonimo, sguardi diffidenti. L’internazionale dei mercenari. Mi assomigliano, in cerca di soldi facili come me.
Louis spiega i dettagli essenziali del lavoro, poi termina in modo rassicurante.
«Non vi preoccupate: pochi giorni di cammino, prendiamo la roba e torniamo qui. Facile, dobbiamo solo stare attenti alla polizia e a quelli del Cartello. Se li dovessimo incontrare, tocca a voi. Avete domande?»
La conversazione che segue è veloce: interesse solo per la ricompensa e i dettagli tecnici. Un appuntamento sbrigativo per la mattina dopo, nessun saluto.
Me ne vado con le tasche un po’ più gonfie.
***
La giungla puzza soprattutto quando ci sei dentro da giorni. Ancora di più mentre apri la strada col machete e i succhi delle piante ti sporcano le mani. Ci fermiamo a riposare su tronchi ingombri di liane. Neanche fumare riesce a coprire il suo odore.
Camminiamo dall’alba. Non sono stanco, ma fa bene togliersi il poncho e lo zaino per qualche minuto. Per fortuna ha appena smesso di piovere.
Da dietro il fumo della sigaretta li osservo tutti. Ora so i loro nomi, di alcuni anche il loro passato. Più diversi delle foglie della foresta, pericolosi come felini predatori. Una bomba che rischia di esplodere.
Louis si asciuga gli occhiali pieni di gocce, poi mi chiama per controllare la mappa.
«Vedi, abbiamo fatto bene a non venire in auto, sarebbe stato troppo rischioso. Ancora due ore, poi arriveremo a San Jose.» Annuisco: nonostante l’aspetto è abbastanza affidabile. Conosce la zona e il lavoro, per il momento non ha fatto errori.
Axel si avvicina con un sorrisetto, vuole guardare. «Non ho mai capito niente di carte. Se fossi qui da solo mi metterei a girare in tondo come un idiota.» Poi ride, ancora una volta. Ormai mi sono abituato: non riesce più a darmi buon umore, come i primi giorni. Adesso rompe solo i coglioni.
«Voi poliziotti cittadini dovreste stare nei vostri sporchi sobborghi» Arnold è seduto in disparte, parla con l’aspro accento tedesco «qui nella foresta non durate due secondi. Meglio che torni a Detroit, o a Beverly Hills, prima di farti male sul serio.» Non si muove, ma vedo i suoi muscoli possenti guizzare sotto la maglietta mimetica, percepisco la sua tensione.
Axel mima lo sparo di pistola con una mano, mentre pronuncia qualcosa solo con le labbra, sorridendo, senza parlare: «Fuck you!»
«Adesso basta! Non ricominciate come ieri sera.» Ivan si alza dalla radice su cui sta seduto, pronunciando le parole in tono secco, perentorio. Fa impressione, quasi due metri di ex pugile professionista, sguardo glaciale e mano appoggiata sul pugnale da caccia.
«Ivan ha ragione. Adesso ripartiamo, cercate di stare calmi, cazzo!» Decido di sostenere il russo: non voglio avere problemi, solo portare a termine quello che dobbiamo fare e dimenticarmi di questi quattro disadattati.
Si riferisce alla cena del giorno prima, finita in rissa. Arnold ci ha mostrato le foto del suo passato da body builder in Europa. Axel ha cominciato a punzecchiarlo con battute sconce, condite dalla sua solita risata. Hanno cominciato a insultarsi, la tensione è salita, finché Leon, quello che non toglie mai gli occhiali da sole neanche di sera, è scattato. Mentre sputava mezze frasi in francese, ha puntato il coltello alla gola del nero. Solo per poco abbiamo evitato il morto.
Io e Ivan rimaniamo in piedi finché non stanno zitti.
«Andiamo, sta per ricominciare a piovere.» Li apostrofo, schiacciando la cicca sotto al tallone.
Mi incammino, prendendo come al solito la testa della fila.
Estraggo di nuovo il machete e mi faccio strada, seguendo il sentiero appena accennato.
***
Questa volta la puzza non è quella della giungla.
Corpi bruciati, fumo nero di pneumatici. Attraverso il binocolo, il piccolo villaggio immerso nella foresta è quasi completamente distrutto. Case e auto incendiate, persone immobili a terra, alcuni di loro smembrati. Braccia e gambe staccate dal corpo, la testa che non è più al suo posto.
Il sudore mi brucia gli occhi, devo smettere di guardare.
«What a mess! Grande casino, fratello.» La voce di Arnold è allarmata. Mi giro mentre arrivano tutti. I loro sguardi attoniti mi colpiscono forse più della distruzione a cui ho appena assistito. Credevo fossero dei duri.
Louis è più sconvolto degli altri. «L’appuntamento è fra un’ora. Ma loro sono già lì, quella è la loro macchina.» Indica un grosso pick up che sta terminando di bruciare.
Mentre lo cerco con lo sguardo un boato scuote l’aria. Uno dei pneumatici è scoppiato.
«Cazzo!» Louis salta indietro, come se l’avesse morso un serpente.
In due passi, Leon lo afferra per il collo, quasi sollevandolo.
«Shut up, connard… chiunque ha fatto questo è ancora lì. Dobbiamo stare ben nascosti qui, al sicuro. Ora ci spieghi dove si trova il nostro maledetto carico, lo prendiamo e ce ne andiamo. Putain!»
«Che diavolo ne so, l’appuntamento era nel villaggio,» cerca di spiegare Louis «dovevamo vedere il mio contatto e prendere la droga. Facile. Qui abitano solo contadini che coltivano l’oppio, ci sono già venuto altre volte, mai avuto problemi.»
«Sì, questo ce l’hai già detto. Un lavoro facile e pulito. Invece di pulito non c’è un cazzo. Shit!» È la prima volta che vedo Axel nervoso, impugna la sua colt puntandola in modo distratto verso Louis. Per un attimo temo che voglia sparare. Allora sarebbe un vero casino.
«Zitti ora. Guardate là. Dietro l’angolo di quella casa gialla.» Sdraiato a terra più in basso, Ivan ci fa cenno con la mano guantata.
Mi asciugo la fronte, metto a fuoco.
Teste. Un piccolo mucchio di teste giace sul terreno in mezzo a una delle strade sterrate. Uomini, vecchi, madri, figli. Qualcuno ha ancora il cappello, altri la bocca spalancata in un urlo silenzioso, capelli imbrattati di sangue, occhi sbarrati, annichiliti dal terrore.
Resisto a un conato di vomito, chiudo gli occhi, contando fino a cento, come mi hanno insegnato durante l’addestramento per entrare nell’esercito. Respiro. Ritrovo la calma.
Ritorno con lo sguardo sul villaggio. Questa volta una visione d’insieme, dai margini della foresta alla piccola chiesa che sorge al centro. Passo in rassegna le case, le vie, i campi, i mezzi bruciati. Riesco a intravedere le due strade che danno accesso alla radura.
All’improvviso noto il particolare strano, quello che mi fa capire.
Entrambe le strade sono chiuse da macchine ferme, due o tre in colonna, come se avessero cercato di scappare. Sembra che siano le uniche non incendiate. Controllo meglio col binocolo.
«Ehi, venite qui. Guardate le strade. Qualcuno li ha intrappolati.» Li chiamo: in breve tutti si rendono conto della presenza dei grossi alberi tagliati, a terra. Bloccano ogni accesso carrabile.
***
Sto scendendo la collina con Ivan dopo un’altra, inutile discussione.
Passiamo da un albero all’altro senza fare rumore, i mitragliatori pronti all’uso. Cerco di mantenere la mente sgombra, senza pensare allo sguardo offuscato dal panico di Louis, le sue stupide giustificazioni e il continuo ripetere: «un lavoro pulito, un lavoro facile e pulito…»
Leon lo voleva accoltellare sul posto, lo abbiamo dovuto bloccare in tre. Axel rideva da solo da una parte, in modo nervoso, senza partecipare. Arnold ha tenuto fermo il francese, bloccandolo a forza.
Nessuno decideva nulla. Poi noi due siamo partiti verso il villaggio per controllare, anche se gli altri erano contrari.
Ci fermiamo dietro alle ultime piante. Mi sporgo, individuo la meta: l’edificio dove stivano la droga. Stimo duecento metri fra case e piccole strade sterrate. Siamo in pieno sole dopo giorni passati nella giungla. Comincio a sudare, non solo per il caldo.
Iniziamo una lenta gimcana fra piante, recinti, case in fiamme, cadaveri a terra. Nessun segno di ostilità. Il villaggio sembra deserto. L’ultimo tratto attraversa una strada larga, poi siamo al magazzino.
Entro, trovandomi nell’oscurità. Il fresco incolla vestiti e sudore. Rabbrividisco.
Aspetto che gli occhi si abituino, chinato a lato della porta. Alla luce tenue che filtra dalle piccole finestre, posso vedere una specie di laboratorio ingombro di cadaveri, ne conto almeno dieci. La testa manca da tutti, mentre braccia e gambe sono sparse in punti assurdi del capannone.
Louis ci ha spiegato: la droga per la spedizione si trova dall’altro lato. Mi muovo con precauzione lungo il muro più libero. Cerco di non guardare i corpi, mitragliatore spianato.
Alla fine entro nell’ampio magazzino, dove c’è solo un carico di sacchi di plastica pieni di una sostanza bianca, preparati su un pallet.
Ci guardiamo stupiti, abbassiamo un attimo la guardia avvicinandoci alla droga. Poi vedo il pallino rosso sulla fronte di Ivan. Diversi laser si accendono sul suo corpo. Anche io vengo accecato per un attimo. Sono sotto tiro come lui.
Un suono imprevisto viene dalle ombre vicino alle pareti, dura a lungo, come se qualcuno parlasse una lingua sconosciuta.
L’aria vibra all’improvviso: vedo comparire dall’ombra delle figure diafane che diventano solide dopo pochi secondi. Sono alti due metri e mezzo, ricoperti di metallo. Non sembrano umani.
***
Odore di paura, di morte: viene da noi due, seduti in mezzo alla polvere.
Ci hanno spogliato di armi e vestiti, legato a dei pali infilati nel terreno. Ho sete, ci hanno tenuto sotto il sole per almeno due ore. Le creature che ci hanno catturato nel magazzino sono vicine, in piedi attorno a un circolo tracciato nel terreno, pieno di chiazze scure.
In tutto questo tempo ho pensato a come fuggire, ma i tizi sembrano troppo pericolosi. Parlano fra loro in quella lingua aliena, hanno movimenti precisi, abitudinari, come se avessero fatto la stessa cosa decine di volte. Ogni tanto indicano il mucchio di teste, ma non capisco il motivo.
I nostri compagni ci avranno visto dalla collina e saranno già scappati a Cartagena. Non ci possiamo aspettare aiuto da loro.
I bastardi sono in cinque: ora che li vedo bene è evidente che portano un’armatura di metallo grigio verde. La testa è sproporzionata, più grande rispetto al corpo, con il volto celato da una maschera squadrata e delle protuberanze che sembrano capelli rasta, come quelli dei giamaicani. Hanno delle specie di pugnali appuntiti che spuntano da un polso e un congegno che di sicuro è un’arma da fuoco sull’altro: i puntatori laser venivano da lì. Legate all’armatura, una serie di teschi e ossa che sembrano di animali.
Senza preavviso, uno di loro si avvicina, taglia i nostri legacci e ci tira in piedi. Ci fa cenno di entrare nel cerchio.
Un altro prende i nostri coltelli e li butta in mezzo. Poi rimangono immobili, in attesa.
«Una maledetta arena. La roda…» penso confuso.
Un ricordo vivido del mio passato mi torna in mente. Sono nella favela, per strada. Il ritmo martellante di tamburi e berimbau riempie la piccola via, dandomi energia. Il sudore mi acceca mentre danzo nel cerchio. Una serie di attacchi e schivate, entro nella difesa del mio avversario, che infine cade. Le persone che battono le mani a tempo e delimitano il cerchio della roda urlano il mio nome da capoeirista: «Cascudo! Cascudo!»
Mentre sono distratto Ivan si china a raccogliere il pugnale, poi mi fissa.
Io non faccio lo stesso, lasciando il mio a terra. Mi avvicino intuendo quello che vuole fare, un segno di rispetto fra combattenti. Sollevo i pugni, pronto a opporre resistenza.
«I must brake you!» Esclama.
Colpisce i miei pugni dall’alto al basso. Le mie mani non resistono all’impatto.
Sono stupito dalla sua forza, ma cerco di mascherarlo facendo un passo indietro: lo tengo sott’occhio cominciando a girargli attorno. Scaldo collo e polsi. Lo faccio prima di ogni roda.
Si mette in posizione di attacco e comincio la mia danza.
Ginga, la base della capoeira: muovo le gambe su una base triangolare, difendendomi con le braccia, senza dargli un bersaglio fisso. Schivo facilmente i primi due affondi per capire come si muove, poi cado a terra evitando il colpo. Tenendomi in equilibrio sulle mani, spazzo la sabbia, colpendo la sua gamba d’appoggio. Cade con un grido, annullato da un calcio rotante che lo colpisce in pieno volto. Perde il pugnale, ma riesce a bloccarmi con un grugnito. Con uno sforzo, faccio leva dietro al suo braccio potente, lo stringo in una morsa che non si aspetta. Ma riesce a sollevarmi di peso, mi scaraventa per terra. Prendo un pugno in faccia e lo trovo sopra di me. Lottiamo.
La sparatoria comincia all’improvviso: dalla foresta qualcuno mira alle creature che seguono la nostra lotta. Ci stendiamo, coprendoci la testa con le mani. Due di loro vengono colpiti, un liquido fluorescente che esce dalle loro ferite. Cadono, senza più muoversi.
Gli altri scompaiono nel nulla come per magia.
Io e Ivan scattiamo appena gli spari si diradano, raccogliendo i pugnali. Fuggiamo dietro a una casa.
Per un po’, solo il nostro respiro riempie il silenzio.
Axel compare al limite della giungla, fluttuando a mezz’aria, gridando dal dolore. Non capisco come sia possibile, lo fisso incredulo, mentre il sangue sgorga dal suo petto. Qualcuno spara dalla giungla, mettendo fine alle sue urla. Posso intravedere una delle creature comparire per un secondo dietro di lui: lo ha accoltellato con uno dei suoi lunghi pugnali, ma ora cade immobile sulla sabbia, tornando visibile.
I puntatori rossi si accendono nella foresta. Richiami umani, grida, rumori alieni, gli spari delle creature. Scoppia una bomba a mano, poi più nulla.
Aspetto qualche minuto. Mi giro verso Ivan.
«Andiamo. Dobbiamo controllare…»
Il suo sguardo sbarrato è l’unica risposta. Ha una mano insanguinata che copre un foro sul petto. Dev’essere stato colpito da un proiettile vagante.
Raccolgo anche il suo pugnale e vado, facendo un largo giro di lato.
Arrivo nel punto del combattimento, al limitare della giungla. Quasi inciampo nella testa di Louis, staccata dal resto del corpo. Leon è seduto per terra, occhi spalancati, per una volta non protetti dalle lenti scure. Un foro di venti centimetri, cauterizzato, si apre nel suo petto.
Poco più in là, un paio di creature giacciono in mezzo allo scoppio della bomba. Mentre guardo, una delle due si muove.
Faccio appena in tempo a raccogliere l’unico mitragliatore vicino che quello è già in piedi. Ha l’armatura bruciata, la maschera spezzata. Cerca di azionare una tastiera sul polso sinistro. La sua immagine scompare un secondo, poi riappare.
«Figlio di puttana, ti vedo!» Dico con una risata. Apro il fuoco, scaraventandolo di nuovo a terra.
Ma i proiettili finiscono subito e lui se ne frega, si rialza. Attendo e se la prende comoda: mette le mani dietro alla testa, si sente un sibilo, getta via la maschera. Il suo volto verde, orribile, ha due occhi piccolissimi e una bocca con quattro zanne. Urla, un suono alieno che mi fa rabbrividire. Poi aziona una delle sue lame, che sporge. Trenta centimetri di metallo da un altro mondo. Si avvicina.
Getto via l’arma inutile e impugno i due pugnali. Gli giro intorno, scaldo collo e polsi. Comincio a danzare, poi aspetto che si sbilanci, voglio che sia lui il primo a colpire.
Il maledetto è forte, veloce, anche se zoppica. Nei primi affondi mi ferisce al torace, ma la seconda volta trovo un varco nell’armatura. Sangue verde sgorga.
Scendo a terra, mi metto in posizione di negativa. Rotolo di lato un paio di volte, mentre cerca di inchiodarmi per terra con la sua lama, sbagliando. Lo calcio su un ginocchio, si sbilancia, poi torno in piedi, faccio per allontanarmi ma mi prende con un colpo dall’alto al basso, nella pancia. Mi solleva verso di sé, urlandomi in faccia. Preso dal panico, non trovo niente di meglio di affibbiargli una testata in pieno volto.
Il suo odore è orribile, ma sento anche qualcosa che si spezza. Mi lascia cadere, portandosi le mani alla faccia.
Tento il tutto per tutto. Salto in avanti in una tesoura, abbracciandogli il corpo con le gambe e spingendo indietro. Cade. Il pugnale mette fine alla sua sofferenza.
Ansimando, recupero una camicia da uno dei cadaveri e mi fascio alla meglio la ferita, poi lo esamino per qualche minuto: mi sfiora la curiosità di sapere che diavolo ci faccia un mostro simile nel bel mezzo della giungla colombiana, ma in realtà non mi interessa. Basta che stia fermo, ad affogare nel suo maledetto sangue fluorescente.
Devo andarmene presto, prima che succedano altri casini. Poi sento un lamento.
Solo ora noto Arnold, il corpo semi bruciato sul lato sinistro.
Mentre mi avvicino, emette un suono soffocato, tossisce. Mi guarda con gli occhi socchiusi.
«Aiut..a…mi…»
Mi chino, verifico la gravità delle ferite. Potrebbe cavarsela.
«Tranquillo, è tutto a posto. Ora ti porto via da qui» gli dico mentre pulisco il suo viso dai residui dell’esplosione.
Il suo volto si distende, sorride. Devo salvarlo, tornare appena possibile a Cartagena, portarlo all’ospedale.
Mentre mi alzo per sollevarlo, l’immagine del carico di droga pronto nel magazzino mi torna in mente. Assieme agli annunci per l’hacienda che ho guardato sull’aereo.
***
La jeep sobbalza sulla pista in mezzo alla foresta. Medicarmi da solo è stata la parte più difficile. Spostare il tronco e caricare la roba un gioco da ragazzi: sono partito in meno di due ore.
Guidando, fisso la strada, preso da un senso di angoscia: ripenso al volto urlante dell’alieno, ai maledetti puntatori nel buio del magazzino, alle facce dei miei compagni morti.
Non posso fare a meno di fissare le tracce del sangue di Arnold sulla mano destra, quella con cui l’ho pugnalato al cuore.
Poi però cerco di essere pratico, allontano i pensieri negativi, rifletto su quale sia la persona migliore a cui piazzare la droga: ho diversi contatti in città, con calma riuscirò a venderla tutta.
Troverò una bella fattoria in mezzo alla pampa, su una collina da cui posso vedere ogni giorno alba e tramonto. Belle ragazze, una mandria di manzi per fare soldi, cavalli. Adoro i cavalli.
Sorrido mentre bevo un sorso da una bottiglia di whisky e fumo con calma.
L’odore della giungla che entra dal finestrino aperto non è poi così male.
di Andrea Furlan
La giungla puzza.
Puzza terribilmente. Materia organica in decomposizione, sempre bagnata, umido schifoso che ti entra nelle ossa, ti fa marcire i piedi provati da giornate di cammino. E anche i pensieri.
Ci sono nato, cresciuto. È il posto dove lavoro. Ma l’ho sempre odiata.
Mentre la guardo dall’alto, attraverso il finestrino dell’aereo, prendo la decisione. Sento che sto diventando troppo vecchio per rischiare: questa è l’ultima volta che ci metto piede.
Le palpebre mi si chiudono mentre guardo fuori: sono stanco, ho ancora nella testa e nelle gambe la fatica di sfuggire per giorni alla polizia. Immagini e sensazioni dei lavori precedenti si affollano nella mia mente, scivolano nel sogno: trasportare armi e droga, catturare animali rari, aiutare i contadini a bruciare la foresta per coltivare. È diventato troppo pericoloso, nonostante l’aiuto di Bolsonaro, che sia benedetto.
La mia attenzione torna, a fatica, sul sito dell’agenzia immobiliare che sto consultando: haciendas in vendita, in mezzo alla pampa, dove di giungla non c’è nemmeno l’ombra. Alcune di loro sono interessanti, ma serve un mucchio di soldi.
Niente da fare, sono troppo distratto, nervoso: chiudo il computer. Il volo è pieno, e rumoroso. Non c’è niente di peggio dei sudamericani in vacanza. Chiasso terribile, gente che va avanti e indietro senza sosta. Il bambino seduto davanti piange da quando abbiamo lasciato S. Paolo. I genitori non sanno più come farlo smettere, sono tesi, parlano solo per comunicazioni di servizio: un’altra famiglia infelice. Chissà chi diavolo gliel’ha fatto fare.
La testa rimbomba, ma non riesco a dormire anche se ho passato quasi tutta la notte in bianco. Le nuove ragazze dell’Orquídea branca non volevano lasciarmi andare via. Lascio mance troppo generose, come sempre. Ripenso ai seni pesanti di Ophelia che oscillano mentre la guido sopra di me, le mani sui suoi fianchi larghi. Devo ricordarmi il suo nome, per la prossima volta.
«Iniziamo la discesa verso Cartagena, la temperatura è di 28 gradi. Allacciate le cinture.»
L’annuncio del pilota quasi non si sente in mezzo al baccano infernale. Finalmente.
***
La città è immersa in mezzo agli alberi, come se la giungla cercasse di soffocarla a partire dai sobborghi. Sento il suo odore rancido mentre il taxi mi lascia di fronte a un vecchio caffè. Scritte colorate, muri sbrecciati, clienti anziani che passano la giornata a bere rum e giocare a scacchi.
Ci sono cinque sconosciuti che mi aspettano a un tavolino, un gruppo scombinato che stona con il contesto. Uno alto, biondo con i capelli a spazzola e gli occhi azzurri. Alla sua destra, un secondo indossa una cuffietta nera e gli occhiali da sole, sta immobile a fissare il muro, potrebbe essere cieco. Mentre lo fisso incuriosito, sento il nero con i baffetti scoppiare in una risata strana, trascinante. Non posso fare a meno di sorridere, cosa che non succede a quello con cui sta parlando, uno grande e grosso con i capelli corti e una giacca di pelle nera.
L’ultimo si alza e mi viene incontro. Alto, pallido, guance cadenti, stretto in un completo scuro gessato che starebbe bene a un impiegato di banca.
«Louis, piacere.» Mi sorride. Riconosco l’accento americano: è quello che mi ha telefonato per propormi l’incarico.
«Hugo. Piacere mio.» Il mio tono è secco. Non mi piace dare confidenza al primo incontro.
Mi siedo con gli altri, ci presentiamo, ordino qualcosa. Parlando, indovino le loro nazionalità, un po’ da quello che dicono, un po’ dal loro accento: il biondo è russo, cuffia e occhiali francese, il culturista è austriaco, gli altri due americani, ma di posti diversi. Li ho inquadrati subito, tutti militari a pagamento: aspetto anonimo, sguardi diffidenti. L’internazionale dei mercenari. Mi assomigliano, in cerca di soldi facili come me.
Louis spiega i dettagli essenziali del lavoro, poi termina in modo rassicurante.
«Non vi preoccupate: pochi giorni di cammino, prendiamo la roba e torniamo qui. Facile, dobbiamo solo stare attenti alla polizia e a quelli del Cartello. Se li dovessimo incontrare, tocca a voi. Avete domande?»
La conversazione che segue è veloce: interesse solo per la ricompensa e i dettagli tecnici. Un appuntamento sbrigativo per la mattina dopo, nessun saluto.
Me ne vado con le tasche un po’ più gonfie.
***
La giungla puzza soprattutto quando ci sei dentro da giorni. Ancora di più mentre apri la strada col machete e i succhi delle piante ti sporcano le mani. Ci fermiamo a riposare su tronchi ingombri di liane. Neanche fumare riesce a coprire il suo odore.
Camminiamo dall’alba. Non sono stanco, ma fa bene togliersi il poncho e lo zaino per qualche minuto. Per fortuna ha appena smesso di piovere.
Da dietro il fumo della sigaretta li osservo tutti. Ora so i loro nomi, di alcuni anche il loro passato. Più diversi delle foglie della foresta, pericolosi come felini predatori. Una bomba che rischia di esplodere.
Louis si asciuga gli occhiali pieni di gocce, poi mi chiama per controllare la mappa.
«Vedi, abbiamo fatto bene a non venire in auto, sarebbe stato troppo rischioso. Ancora due ore, poi arriveremo a San Jose.» Annuisco: nonostante l’aspetto è abbastanza affidabile. Conosce la zona e il lavoro, per il momento non ha fatto errori.
Axel si avvicina con un sorrisetto, vuole guardare. «Non ho mai capito niente di carte. Se fossi qui da solo mi metterei a girare in tondo come un idiota.» Poi ride, ancora una volta. Ormai mi sono abituato: non riesce più a darmi buon umore, come i primi giorni. Adesso rompe solo i coglioni.
«Voi poliziotti cittadini dovreste stare nei vostri sporchi sobborghi» Arnold è seduto in disparte, parla con l’aspro accento tedesco «qui nella foresta non durate due secondi. Meglio che torni a Detroit, o a Beverly Hills, prima di farti male sul serio.» Non si muove, ma vedo i suoi muscoli possenti guizzare sotto la maglietta mimetica, percepisco la sua tensione.
Axel mima lo sparo di pistola con una mano, mentre pronuncia qualcosa solo con le labbra, sorridendo, senza parlare: «Fuck you!»
«Adesso basta! Non ricominciate come ieri sera.» Ivan si alza dalla radice su cui sta seduto, pronunciando le parole in tono secco, perentorio. Fa impressione, quasi due metri di ex pugile professionista, sguardo glaciale e mano appoggiata sul pugnale da caccia.
«Ivan ha ragione. Adesso ripartiamo, cercate di stare calmi, cazzo!» Decido di sostenere il russo: non voglio avere problemi, solo portare a termine quello che dobbiamo fare e dimenticarmi di questi quattro disadattati.
Si riferisce alla cena del giorno prima, finita in rissa. Arnold ci ha mostrato le foto del suo passato da body builder in Europa. Axel ha cominciato a punzecchiarlo con battute sconce, condite dalla sua solita risata. Hanno cominciato a insultarsi, la tensione è salita, finché Leon, quello che non toglie mai gli occhiali da sole neanche di sera, è scattato. Mentre sputava mezze frasi in francese, ha puntato il coltello alla gola del nero. Solo per poco abbiamo evitato il morto.
Io e Ivan rimaniamo in piedi finché non stanno zitti.
«Andiamo, sta per ricominciare a piovere.» Li apostrofo, schiacciando la cicca sotto al tallone.
Mi incammino, prendendo come al solito la testa della fila.
Estraggo di nuovo il machete e mi faccio strada, seguendo il sentiero appena accennato.
***
Questa volta la puzza non è quella della giungla.
Corpi bruciati, fumo nero di pneumatici. Attraverso il binocolo, il piccolo villaggio immerso nella foresta è quasi completamente distrutto. Case e auto incendiate, persone immobili a terra, alcuni di loro smembrati. Braccia e gambe staccate dal corpo, la testa che non è più al suo posto.
Il sudore mi brucia gli occhi, devo smettere di guardare.
«What a mess! Grande casino, fratello.» La voce di Arnold è allarmata. Mi giro mentre arrivano tutti. I loro sguardi attoniti mi colpiscono forse più della distruzione a cui ho appena assistito. Credevo fossero dei duri.
Louis è più sconvolto degli altri. «L’appuntamento è fra un’ora. Ma loro sono già lì, quella è la loro macchina.» Indica un grosso pick up che sta terminando di bruciare.
Mentre lo cerco con lo sguardo un boato scuote l’aria. Uno dei pneumatici è scoppiato.
«Cazzo!» Louis salta indietro, come se l’avesse morso un serpente.
In due passi, Leon lo afferra per il collo, quasi sollevandolo.
«Shut up, connard… chiunque ha fatto questo è ancora lì. Dobbiamo stare ben nascosti qui, al sicuro. Ora ci spieghi dove si trova il nostro maledetto carico, lo prendiamo e ce ne andiamo. Putain!»
«Che diavolo ne so, l’appuntamento era nel villaggio,» cerca di spiegare Louis «dovevamo vedere il mio contatto e prendere la droga. Facile. Qui abitano solo contadini che coltivano l’oppio, ci sono già venuto altre volte, mai avuto problemi.»
«Sì, questo ce l’hai già detto. Un lavoro facile e pulito. Invece di pulito non c’è un cazzo. Shit!» È la prima volta che vedo Axel nervoso, impugna la sua colt puntandola in modo distratto verso Louis. Per un attimo temo che voglia sparare. Allora sarebbe un vero casino.
«Zitti ora. Guardate là. Dietro l’angolo di quella casa gialla.» Sdraiato a terra più in basso, Ivan ci fa cenno con la mano guantata.
Mi asciugo la fronte, metto a fuoco.
Teste. Un piccolo mucchio di teste giace sul terreno in mezzo a una delle strade sterrate. Uomini, vecchi, madri, figli. Qualcuno ha ancora il cappello, altri la bocca spalancata in un urlo silenzioso, capelli imbrattati di sangue, occhi sbarrati, annichiliti dal terrore.
Resisto a un conato di vomito, chiudo gli occhi, contando fino a cento, come mi hanno insegnato durante l’addestramento per entrare nell’esercito. Respiro. Ritrovo la calma.
Ritorno con lo sguardo sul villaggio. Questa volta una visione d’insieme, dai margini della foresta alla piccola chiesa che sorge al centro. Passo in rassegna le case, le vie, i campi, i mezzi bruciati. Riesco a intravedere le due strade che danno accesso alla radura.
All’improvviso noto il particolare strano, quello che mi fa capire.
Entrambe le strade sono chiuse da macchine ferme, due o tre in colonna, come se avessero cercato di scappare. Sembra che siano le uniche non incendiate. Controllo meglio col binocolo.
«Ehi, venite qui. Guardate le strade. Qualcuno li ha intrappolati.» Li chiamo: in breve tutti si rendono conto della presenza dei grossi alberi tagliati, a terra. Bloccano ogni accesso carrabile.
***
Sto scendendo la collina con Ivan dopo un’altra, inutile discussione.
Passiamo da un albero all’altro senza fare rumore, i mitragliatori pronti all’uso. Cerco di mantenere la mente sgombra, senza pensare allo sguardo offuscato dal panico di Louis, le sue stupide giustificazioni e il continuo ripetere: «un lavoro pulito, un lavoro facile e pulito…»
Leon lo voleva accoltellare sul posto, lo abbiamo dovuto bloccare in tre. Axel rideva da solo da una parte, in modo nervoso, senza partecipare. Arnold ha tenuto fermo il francese, bloccandolo a forza.
Nessuno decideva nulla. Poi noi due siamo partiti verso il villaggio per controllare, anche se gli altri erano contrari.
Ci fermiamo dietro alle ultime piante. Mi sporgo, individuo la meta: l’edificio dove stivano la droga. Stimo duecento metri fra case e piccole strade sterrate. Siamo in pieno sole dopo giorni passati nella giungla. Comincio a sudare, non solo per il caldo.
Iniziamo una lenta gimcana fra piante, recinti, case in fiamme, cadaveri a terra. Nessun segno di ostilità. Il villaggio sembra deserto. L’ultimo tratto attraversa una strada larga, poi siamo al magazzino.
Entro, trovandomi nell’oscurità. Il fresco incolla vestiti e sudore. Rabbrividisco.
Aspetto che gli occhi si abituino, chinato a lato della porta. Alla luce tenue che filtra dalle piccole finestre, posso vedere una specie di laboratorio ingombro di cadaveri, ne conto almeno dieci. La testa manca da tutti, mentre braccia e gambe sono sparse in punti assurdi del capannone.
Louis ci ha spiegato: la droga per la spedizione si trova dall’altro lato. Mi muovo con precauzione lungo il muro più libero. Cerco di non guardare i corpi, mitragliatore spianato.
Alla fine entro nell’ampio magazzino, dove c’è solo un carico di sacchi di plastica pieni di una sostanza bianca, preparati su un pallet.
Ci guardiamo stupiti, abbassiamo un attimo la guardia avvicinandoci alla droga. Poi vedo il pallino rosso sulla fronte di Ivan. Diversi laser si accendono sul suo corpo. Anche io vengo accecato per un attimo. Sono sotto tiro come lui.
Un suono imprevisto viene dalle ombre vicino alle pareti, dura a lungo, come se qualcuno parlasse una lingua sconosciuta.
L’aria vibra all’improvviso: vedo comparire dall’ombra delle figure diafane che diventano solide dopo pochi secondi. Sono alti due metri e mezzo, ricoperti di metallo. Non sembrano umani.
***
Odore di paura, di morte: viene da noi due, seduti in mezzo alla polvere.
Ci hanno spogliato di armi e vestiti, legato a dei pali infilati nel terreno. Ho sete, ci hanno tenuto sotto il sole per almeno due ore. Le creature che ci hanno catturato nel magazzino sono vicine, in piedi attorno a un circolo tracciato nel terreno, pieno di chiazze scure.
In tutto questo tempo ho pensato a come fuggire, ma i tizi sembrano troppo pericolosi. Parlano fra loro in quella lingua aliena, hanno movimenti precisi, abitudinari, come se avessero fatto la stessa cosa decine di volte. Ogni tanto indicano il mucchio di teste, ma non capisco il motivo.
I nostri compagni ci avranno visto dalla collina e saranno già scappati a Cartagena. Non ci possiamo aspettare aiuto da loro.
I bastardi sono in cinque: ora che li vedo bene è evidente che portano un’armatura di metallo grigio verde. La testa è sproporzionata, più grande rispetto al corpo, con il volto celato da una maschera squadrata e delle protuberanze che sembrano capelli rasta, come quelli dei giamaicani. Hanno delle specie di pugnali appuntiti che spuntano da un polso e un congegno che di sicuro è un’arma da fuoco sull’altro: i puntatori laser venivano da lì. Legate all’armatura, una serie di teschi e ossa che sembrano di animali.
Senza preavviso, uno di loro si avvicina, taglia i nostri legacci e ci tira in piedi. Ci fa cenno di entrare nel cerchio.
Un altro prende i nostri coltelli e li butta in mezzo. Poi rimangono immobili, in attesa.
«Una maledetta arena. La roda…» penso confuso.
Un ricordo vivido del mio passato mi torna in mente. Sono nella favela, per strada. Il ritmo martellante di tamburi e berimbau riempie la piccola via, dandomi energia. Il sudore mi acceca mentre danzo nel cerchio. Una serie di attacchi e schivate, entro nella difesa del mio avversario, che infine cade. Le persone che battono le mani a tempo e delimitano il cerchio della roda urlano il mio nome da capoeirista: «Cascudo! Cascudo!»
Mentre sono distratto Ivan si china a raccogliere il pugnale, poi mi fissa.
Io non faccio lo stesso, lasciando il mio a terra. Mi avvicino intuendo quello che vuole fare, un segno di rispetto fra combattenti. Sollevo i pugni, pronto a opporre resistenza.
«I must brake you!» Esclama.
Colpisce i miei pugni dall’alto al basso. Le mie mani non resistono all’impatto.
Sono stupito dalla sua forza, ma cerco di mascherarlo facendo un passo indietro: lo tengo sott’occhio cominciando a girargli attorno. Scaldo collo e polsi. Lo faccio prima di ogni roda.
Si mette in posizione di attacco e comincio la mia danza.
Ginga, la base della capoeira: muovo le gambe su una base triangolare, difendendomi con le braccia, senza dargli un bersaglio fisso. Schivo facilmente i primi due affondi per capire come si muove, poi cado a terra evitando il colpo. Tenendomi in equilibrio sulle mani, spazzo la sabbia, colpendo la sua gamba d’appoggio. Cade con un grido, annullato da un calcio rotante che lo colpisce in pieno volto. Perde il pugnale, ma riesce a bloccarmi con un grugnito. Con uno sforzo, faccio leva dietro al suo braccio potente, lo stringo in una morsa che non si aspetta. Ma riesce a sollevarmi di peso, mi scaraventa per terra. Prendo un pugno in faccia e lo trovo sopra di me. Lottiamo.
La sparatoria comincia all’improvviso: dalla foresta qualcuno mira alle creature che seguono la nostra lotta. Ci stendiamo, coprendoci la testa con le mani. Due di loro vengono colpiti, un liquido fluorescente che esce dalle loro ferite. Cadono, senza più muoversi.
Gli altri scompaiono nel nulla come per magia.
Io e Ivan scattiamo appena gli spari si diradano, raccogliendo i pugnali. Fuggiamo dietro a una casa.
Per un po’, solo il nostro respiro riempie il silenzio.
Axel compare al limite della giungla, fluttuando a mezz’aria, gridando dal dolore. Non capisco come sia possibile, lo fisso incredulo, mentre il sangue sgorga dal suo petto. Qualcuno spara dalla giungla, mettendo fine alle sue urla. Posso intravedere una delle creature comparire per un secondo dietro di lui: lo ha accoltellato con uno dei suoi lunghi pugnali, ma ora cade immobile sulla sabbia, tornando visibile.
I puntatori rossi si accendono nella foresta. Richiami umani, grida, rumori alieni, gli spari delle creature. Scoppia una bomba a mano, poi più nulla.
Aspetto qualche minuto. Mi giro verso Ivan.
«Andiamo. Dobbiamo controllare…»
Il suo sguardo sbarrato è l’unica risposta. Ha una mano insanguinata che copre un foro sul petto. Dev’essere stato colpito da un proiettile vagante.
Raccolgo anche il suo pugnale e vado, facendo un largo giro di lato.
Arrivo nel punto del combattimento, al limitare della giungla. Quasi inciampo nella testa di Louis, staccata dal resto del corpo. Leon è seduto per terra, occhi spalancati, per una volta non protetti dalle lenti scure. Un foro di venti centimetri, cauterizzato, si apre nel suo petto.
Poco più in là, un paio di creature giacciono in mezzo allo scoppio della bomba. Mentre guardo, una delle due si muove.
Faccio appena in tempo a raccogliere l’unico mitragliatore vicino che quello è già in piedi. Ha l’armatura bruciata, la maschera spezzata. Cerca di azionare una tastiera sul polso sinistro. La sua immagine scompare un secondo, poi riappare.
«Figlio di puttana, ti vedo!» Dico con una risata. Apro il fuoco, scaraventandolo di nuovo a terra.
Ma i proiettili finiscono subito e lui se ne frega, si rialza. Attendo e se la prende comoda: mette le mani dietro alla testa, si sente un sibilo, getta via la maschera. Il suo volto verde, orribile, ha due occhi piccolissimi e una bocca con quattro zanne. Urla, un suono alieno che mi fa rabbrividire. Poi aziona una delle sue lame, che sporge. Trenta centimetri di metallo da un altro mondo. Si avvicina.
Getto via l’arma inutile e impugno i due pugnali. Gli giro intorno, scaldo collo e polsi. Comincio a danzare, poi aspetto che si sbilanci, voglio che sia lui il primo a colpire.
Il maledetto è forte, veloce, anche se zoppica. Nei primi affondi mi ferisce al torace, ma la seconda volta trovo un varco nell’armatura. Sangue verde sgorga.
Scendo a terra, mi metto in posizione di negativa. Rotolo di lato un paio di volte, mentre cerca di inchiodarmi per terra con la sua lama, sbagliando. Lo calcio su un ginocchio, si sbilancia, poi torno in piedi, faccio per allontanarmi ma mi prende con un colpo dall’alto al basso, nella pancia. Mi solleva verso di sé, urlandomi in faccia. Preso dal panico, non trovo niente di meglio di affibbiargli una testata in pieno volto.
Il suo odore è orribile, ma sento anche qualcosa che si spezza. Mi lascia cadere, portandosi le mani alla faccia.
Tento il tutto per tutto. Salto in avanti in una tesoura, abbracciandogli il corpo con le gambe e spingendo indietro. Cade. Il pugnale mette fine alla sua sofferenza.
Ansimando, recupero una camicia da uno dei cadaveri e mi fascio alla meglio la ferita, poi lo esamino per qualche minuto: mi sfiora la curiosità di sapere che diavolo ci faccia un mostro simile nel bel mezzo della giungla colombiana, ma in realtà non mi interessa. Basta che stia fermo, ad affogare nel suo maledetto sangue fluorescente.
Devo andarmene presto, prima che succedano altri casini. Poi sento un lamento.
Solo ora noto Arnold, il corpo semi bruciato sul lato sinistro.
Mentre mi avvicino, emette un suono soffocato, tossisce. Mi guarda con gli occhi socchiusi.
«Aiut..a…mi…»
Mi chino, verifico la gravità delle ferite. Potrebbe cavarsela.
«Tranquillo, è tutto a posto. Ora ti porto via da qui» gli dico mentre pulisco il suo viso dai residui dell’esplosione.
Il suo volto si distende, sorride. Devo salvarlo, tornare appena possibile a Cartagena, portarlo all’ospedale.
Mentre mi alzo per sollevarlo, l’immagine del carico di droga pronto nel magazzino mi torna in mente. Assieme agli annunci per l’hacienda che ho guardato sull’aereo.
***
La jeep sobbalza sulla pista in mezzo alla foresta. Medicarmi da solo è stata la parte più difficile. Spostare il tronco e caricare la roba un gioco da ragazzi: sono partito in meno di due ore.
Guidando, fisso la strada, preso da un senso di angoscia: ripenso al volto urlante dell’alieno, ai maledetti puntatori nel buio del magazzino, alle facce dei miei compagni morti.
Non posso fare a meno di fissare le tracce del sangue di Arnold sulla mano destra, quella con cui l’ho pugnalato al cuore.
Poi però cerco di essere pratico, allontano i pensieri negativi, rifletto su quale sia la persona migliore a cui piazzare la droga: ho diversi contatti in città, con calma riuscirò a venderla tutta.
Troverò una bella fattoria in mezzo alla pampa, su una collina da cui posso vedere ogni giorno alba e tramonto. Belle ragazze, una mandria di manzi per fare soldi, cavalli. Adoro i cavalli.
Sorrido mentre bevo un sorso da una bottiglia di whisky e fumo con calma.
L’odore della giungla che entra dal finestrino aperto non è poi così male.
Re: Semifinale Marco Proietti Mancini
Marco Proietti Mancini così si è espresso:
Iniziamo dalla fine; il racconto che si aggiudica la finale è “L’odore della foresta”, con una minima notazione che faccio sorridendo mentre la scrivo. Non è un’idea eccezionale quella di intitolare un racconto (o quel che sia) con “L’odore della foresta” e poi, nel testo, ripetere come un mantra “L’odore della... giungla”
Ma a parte questa piccola imperfezione più editoriale che sostanziale, il racconto prevale per una maggiore maturità letteraria, per una forma di narrazione che si dimostra più compiuta, completa e per come lo sviluppo della storia, pur nella sua brevità e concentrazione in pochi, rilevanti fatti, riesce a dare completezza anche a un “prima” non narrato e a un dopo appena intravisto, nelle aspettative del protagonista. Anche il tratteggio degli altri personaggi, nelle poche righe in cui vengono delineati, è efficace e sufficiente a dare di loro l’immagine che serve ai fini della narrazione.
Questo non toglie nulla alla qualità potenziale e in parte espressa del racconto “Mai incrociare i flussi”, che offre un buono spunto che si potrebbe sviluppare meglio, dando un risultato ancora migliore di quello che già – comunque – è anche in questa versione.
Buoni in entrambi i racconti i richiami alle ispirazioni, senza esagerazioni e smaccate citazioni che avrebbero stonato con le originalità delle storie. Diciamo che così come sono sviluppati, entrambi i racconti potrebbero essere degli spin-off delle storie originali.
Iniziamo dalla fine; il racconto che si aggiudica la finale è “L’odore della foresta”, con una minima notazione che faccio sorridendo mentre la scrivo. Non è un’idea eccezionale quella di intitolare un racconto (o quel che sia) con “L’odore della foresta” e poi, nel testo, ripetere come un mantra “L’odore della... giungla”
Ma a parte questa piccola imperfezione più editoriale che sostanziale, il racconto prevale per una maggiore maturità letteraria, per una forma di narrazione che si dimostra più compiuta, completa e per come lo sviluppo della storia, pur nella sua brevità e concentrazione in pochi, rilevanti fatti, riesce a dare completezza anche a un “prima” non narrato e a un dopo appena intravisto, nelle aspettative del protagonista. Anche il tratteggio degli altri personaggi, nelle poche righe in cui vengono delineati, è efficace e sufficiente a dare di loro l’immagine che serve ai fini della narrazione.
Questo non toglie nulla alla qualità potenziale e in parte espressa del racconto “Mai incrociare i flussi”, che offre un buono spunto che si potrebbe sviluppare meglio, dando un risultato ancora migliore di quello che già – comunque – è anche in questa versione.
Buoni in entrambi i racconti i richiami alle ispirazioni, senza esagerazioni e smaccate citazioni che avrebbero stonato con le originalità delle storie. Diciamo che così come sono sviluppati, entrambi i racconti potrebbero essere degli spin-off delle storie originali.
- Andrea Furlan
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Re: Semifinale Marco Proietti Mancini
Grazie mille Marco per il tuo giudizio estremamente positivo e l'ammissione in finale.
Sono contento di essere riuscito a tratteggiare il personaggio e dare il senso del prima e del dopo rispetto alla storia narrata in modo più efficace, adattando il racconto dopo i preziosi consigli ricevuti durante la prima fase.
Terrò a mente anche il suggerimento sul titolo per altre volte.
Devo dire che essere passato alla fase successiva mi da ancora più soddisfazione, visto che ritengo il racconto di Matteo molto ben strutturato e originale rispetto ai riferimenti dei film anni 80 su cui l'ha costruito.
Sono contento di essere riuscito a tratteggiare il personaggio e dare il senso del prima e del dopo rispetto alla storia narrata in modo più efficace, adattando il racconto dopo i preziosi consigli ricevuti durante la prima fase.
Terrò a mente anche il suggerimento sul titolo per altre volte.
Devo dire che essere passato alla fase successiva mi da ancora più soddisfazione, visto che ritengo il racconto di Matteo molto ben strutturato e originale rispetto ai riferimenti dei film anni 80 su cui l'ha costruito.
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