
Amori imposti, una Società che fa finta di non vedere per nascondersi dietro un’aura d’ipocrita civiltà. Un racconto di Mario Pippia.
Il momento è arrivato.
Da come si guarda intorno si vede che ha capito. Gli occhi spalancati, la testa che si muove lentamente, come una tartaruga.
Ha capito che non c’è più niente da fare: sta morendo.
E questa volta non potrà prendersela con me; anche se in effetti mi sarebbe piaciuto essere vedova per mia scelta. Sarebbe stata la prima nella mia vita.
Be’, la seconda.
Cinquant’anni fa il bastardo mi ha stuprato. Allora si usava così: se l’uomo accettava di sposare la donna, il reato si estingueva automaticamente. E lui – figurati! – ne ha approfittato: non ero proprio da buttare via, sapevo far da mangiare e tenere una casa, avevo una dote discreta, ed ero soprattutto abituata a stare zitta.
Usanze da piccoli paesi.
Come le botte.
«È per il tuo bene: ti devo correggere, se no cresci storta» mi diceva sempre.
E giù calci e sberle. Pugni mai, perché lasciano i lividi, e lui è sempre stato bastardo, ma furbo.
E dopo avermi picchiata per bene, mi stuprava. Perché stupro era, non amore. Amore mai. Amore non è mai stato.
Dopo qualche mese ho preso la prima decisione della mia vita: avrei avuto pazienza.
Non quella stanca da cane che non sa fare altro, ma quella incazzata di chi aspetta il momento giusto. Quello in cui si sarebbe distratto, avrebbe abbassato la guardia. Allora avrebbe trovato la mia furia ad aspettarlo sulla strada che porta al bar, o durante la cena, o di notte, dopo che aveva preso quello che riteneva di sua proprietà.
Non sapevo quando sarebbe successo, ma ero tranquilla. Perché pazienza vuole dire non solo aspettare, ma anche sapere che l’attesa non è vana, che quel momento arriva.
Prima o poi.
Cinquant’anni: ho aspettato mezzo secolo.
Sembra tanto, ma avevo vicino a me le mie due amiche che mi aiutavano: pazienza e rabbia. E intanto subivo: cameriera, puttana, cuoca, sarta. Capro espiatorio.
E il momento alla fine è arrivato.
Steso sul letto, con il cancro che lo sta mangiando lentamente, un boccone per volta.
«Ormai ci siamo» mi dice il dottore, con una voce contrita che mi fa venire voglia di ridere, perché non sa quanto mi faccia piacere quello che mi ha detto.
Chiedo a tutti di uscire.
«Lasciatemi sola con lui». Si muovono in fretta: a nessuno piace stare dove c’è un moribondo.
Avvicino la bocca al suo orecchio. Il momento che ho aspettato per cinquant’anni è arrivato.
«Non…» inizio a dire, ma lui gira la testa verso di me e mormora poche parole.
«Sei stata una moglie meravigliosa. Perdonami, se puoi».
Lo guardo negli occhi. La fine della frase che mi ero preparata per tutto questo tempo mi rimane in gola, mentre osservo gli occhi che perdono fuoco, le pupille che si dilatano.
«… ti ho mai amato», mi escono lo stesso: tracimano, come le lacrime di rabbia.
Comincio a urlare, forte, più forte che posso.
Sento che entrano, che mi portano via; sento qualcuno che dice “È andato”, altre voci, un ago che mi buca la spalla. Un senso di torpore mi invade.
E mentre crollo, penso al bastardo che, dopo la vita, si è portato via anche la mia vendetta.
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