
Detenuti socialmente, diversamente, utili. Un racconto di Alessia Martinis.
Il commissario mi fa cenno di sedere su una poltroncina sfondata di pelle; spegne il sigaro nel posacenere e si strofina le mani. «Allora che ne devo fare di te?» sbatte sul tavolo un fascicolo con appiccicata sopra la mia foto. «Truffa aggravata, rapina con scasso, ferimento di due agenti, spaccio di droga, la lista è davvero lunga. Lo sai cosa significa questo?» Mi punta addosso gli occhi scuri. «Ne abbiamo pizzicati tanti di bastardi come te e li sbattiamo dentro a vita. Ma, e dico ma, c’è una possibilità di venirsi incontro.» Alza gli indici verso il soffitto. «Le carceri qui sono piene e per gli agenti è una gran scocciatura star dietro a tanta gente come te. Ti proponiamo un grosso sconto di pena, un affare tra noi, che non passerà ai piani superiori.» Mi strizza l’occhio. «Un anno nel paese di Ilirney, in Siberia, e fra un anno sarai di nuovo un cittadino libero.»
«E dove sta la fregatura?» Aggrotto le sopracciglia.
«Nessuna fregatura, solo vantaggi, per tutti: noi avremo le carceri un po’ più sgombre e tu la possibilità di scontare più in fretta la pena.»
«E che farò lì?»
«Taglialegna e piccole riparazioni. Hanno bisogno di uomini forti e in salute.»
Aggrotto le sopracciglia. «E non avete paura che riesca a scappare?»
Scoppia in una risata. «In mezzo al nulla? E’ più sicuro di un carcere e, perlomeno, potrai renderti utile. È un’offerta niente male, nessuno è tornato da me per lamentarsi.» Mi strizza l’occhio.
«E fra un anno?”
“Sarai libero di andartene oppure potrai decidere di restare a vivere lì; non è male tutto sommato, potresti pensare di metter su famiglia, prima o poi.” alza le spalle. “La trans-siberiana parte domattina, ti ho già fatto il biglietto. Che ne dici?»
Porto la mano al mento e mi gratto il pizzetto. «E’ un’offerta davvero allettante.»
«Allora, accetti?» Mi porge la mano.
«D’accordo.» La stringo.
Vengo scortato da due secondini che salgono assieme a me sul treno e si siedono al mio fianco.
Mi affaccio al finestrino, il panorama scorre sotto i miei occhi: attraversiamo steppe, laghi, prati gelati e costeggiamo pareti rocciose di montagne, fino a fermarci nel mezzo di un bosco innevato.
Il secondino con la testa rasata mi dà un colpo sulla spalla. «Scendiamo qui» grugnisce.
Mi alzo e li seguo alla porta, la guardia mi assesta un calcio tra gli stinchi che mi fa barcollare in avanti.
«Per te è arrivato il momento di scendere» ghigna.
«Già, bastardo.» L’altro mi lancia delle chiavi argentate, manco la presa e finiscono nella neve. «Ora puoi liberarti, verranno presto a prenderti.» Scoppia in una risata, il caschetto di capelli biondi gli copre gli occhi.
Scendo le scalette di metallo e mi ritrovo immerso nella neve fino ai ginocchi, nel mezzo del nulla.
Batto i denti, le mani tremano. E ora cosa faccio?
«Ma qui non c’è nessuna stazione!» esclamo.
Troppo tardi: la porta si richiude e il treno riparte.
Il vento sibila tra i rami e solleva mulinelli di neve che si depositano sul giaccone e sulle sopracciglia congelate.
Le luci di un fuoristrada mi abbagliano, si ferma a pochi metri da me; un uomo nerboruto spalanca la portiera e scende. «Tu sei Ivan Checkniev?» Solleva il bavero del cappotto a coprirgli la bocca.
Annuisco.
«Sali. Ti stavamo aspettando. Sono Boris, il capo del villaggio di Ilirney.»
Lo seguo sul fuoristrada e partiamo; si infila in una stradina di ghiaia, coperta da uno strato di ghiaccio, che serpeggia tra gli alberi.
«Ci vuole un giorno di viaggio, per arrivare al villaggio. Hai mangiato?»
Scuoto la testa. «Non c’è stato tempo.»
«Sul sedile dietro c’è una gamella con del borsh, qualche pezzo di storione secco e del kvas, se vuoi bere.»
«Grazie.» Allungo la mano verso la ciotola e ci intingo il cucchiaio di metallo.
«Avrai modo di ringraziarci, a suo tempo.»
Il villaggio è formato da un gruppetto di case di legno che spuntano tra gli alberi, dai camini escono serpentine di fumo che si disperdono nell’aria.
Dei bambini si lanciano palle di neve e giocano a rincorrersi, ma quando esco dall’auto si fermano a fissarmi. Un bambino dagli occhi azzurri e la faccia equina si lecca le labbra.
Le porte delle case man mano si aprono e volti anonimi di donne e uomini si affacciano e mi scrutano.
Boris si pianta nel centro della piazzetta, mi stritola il polso. «È arrivato.»
Altri due uomini mi sono addosso, mi stringono braccia e caviglie, e mi sollevano.
Mi portano di peso in una capanna buia.
Boris arriva con una torcia e appicca il fuoco ai tizzoni del caminetto, la stanza si illumina.
Ho un sussulto, do degli strattoni per divincolarmi ma la presa di questi uomini è salda.
Alle pareti sono appesi dei ganci con delle carcasse sventrate: non sono di animali, sono umane.
Boris si accarezza la barba. «Tenetelo fermo.» Apre il cassetto della madia e tira fuori un coltellaccio, imbrattato di sangue.
Gli uomini mi sbattono su un tavolo di legno, al centro della stanza. Ho un conato di vomito, sto soffocando.
Boris si avvicina e mi punta la lama alla gola. «Mi spiace, sai. Ma qui l’inverno è lungo e i bambini hanno fame.»