
Un sorriso capace di sconvolgere in ogni epoca. Un racconto di Angela Catalini.
Durante il breve soggiorno a Parigi, ospite di alcuni amici, ero alla disperata ricerca di un’ispirazione che mi tirasse fuori da un periodo buio: da mesi non scrivevo più nulla e il mio editore aveva smesso di cercarmi.
I proventi dell’ultimo libro, che aveva avuto un buon successo di vendite, si stavano esaurendo. Quel viaggio era l’unica occasione per riprendere in mano la mia vita, per ritrovare le energie perdute e magari una buona idea.
Come molto turisti, ero tornato più volte a visitare il museo del Louvre perché ero sicuro che in mezzo a tanta bellezza si celassero anche delle buone opportunità. Tuttavia, finivo per trascorrere gran parte del mio tempo nella contemplazione di un unico dipinto protetto da una teca di vetro antiproiettile.
Un’intera parete era destinata a quel quadro, perché gente da tutto il mondo veniva lì per guardarlo. Monna Lisa, o chiunque fosse la donna del dipinto, sorrideva da secoli custodendo un segreto di cui soltanto lei era a conoscenza.
Un segreto che Leonardo aveva ritratto con maestria attraverso una tecnica sublime in grado di trasformare lo sguardo indecifrabile, come se la donna potesse mutare espressione. La guardavo con una domanda muta sulle labbra e lei, inarrivabile, mi osservava comodamente seduta con le mani in grembo prendendosi gioco di me.
Una sera, poco prima dell’orario di chiusura, mi accorsi che c’era una donna con lo chador impegnata a osservare la Gioconda con un’espressione di sorpresa sul volto. Rimirava il dipinto da ogni angolazione e ogni volta si portava le mani alla bocca e scuoteva la testa. La sua reazione davanti alla Gioconda era davvero singolare: era incredula, spaventata.
Mi avvicinai e lei mi guardò con gli occhi spalancati solcati da folte sopracciglia.
«Conoscevo quella donna» disse. Poi scoppiò a piangere.
*** ***
Il caffè a quell’ora era affollato e il cameriere ci mise un po’ prima di venire al nostro tavolino. Lei aveva smesso di piangere, ma continuava a tenere il fazzoletto vicino alla bocca che continuava a tremare.
Offrire la cena a una signora attempata non era nei miei programmi, considerando anche il fatto che le mie finanze erano esigue, ma ero incuriosito da quella donna e volevo saperne di più. Ero convinto che avesse una storia da raccontare e forse poteva essere l’idea che cercavo da tempo per tornare a scrivere e rimettermi in carreggiata.
Mi disse di chiamarsi Esmeray, era una donna turca che si era stabilita a Parigi da qualche anno presso alcuni parenti. Non voleva parlare del suo passato, ma sentiva la necessità di parlarmi della donna del dipinto.
«Si presume sia Lisa Gherardini» osservai «ma non ci sono certezze al riguardo. In ogni modo il ritratto è stato terminato nel 1500. Di sicuro nessuno di noi ha mai incontrato da viva la donna del dipinto».
Lei corrugò la fronte e mi guardò seria. Il viso senza un filo di trucco era ancora bello, aveva i tratti marcati che facevano risaltare il fascino di un tempo ormai passato.
«Lei assomigliava a Monna Lisa» disse.
Quello era il momento più atteso. Se avessi avuto un taccuino avrei potuto prendere appunti, ma ero certo che non mi sarei perso un dettaglio della storia che Esmeray stava per raccontarmi.
Il cameriere ci servì del pollo con contorno di verdure; lei non lo toccò neppure. Le ombre della sera erano scivolate su di noi allungandosi come lingue scure sul selciato.
«Non ricordo il suo nome perché era una schiava. Il Sultano mise gli occhi su di lei e la volle» disse.
Poi fece una pausa abbassando gli occhi e tormentando la tovaglia. Mi accorsi di trattenere il fiato, cercai una posizione più rilassata e mi accinsi ad ascoltare il resto senza interromperla.
«Nessuno poteva toccarla tranne le vergini. Fu lavata, asciugata e cosparsa di oli fragranti».
Ogni frase terminava con un lungo silenzio durante il quale Esmeray si irrigidiva. Doveva costarle molto ricordare.
«Non era di pelle scura come le altre, era bianca e aveva lunghi capelli color miele».
Un’occidentale alla corte del Sultano come schiava. Era stata rapita? Mille domande si affollavano nella mia mente e finalmente qualcosa si era messo in moto. Quella donna aveva la chiave per risvegliare la creatività sopita, avevo visto giusto.
«Accendemmo alcune candele e la lasciammo sul letto in attesa. Aveva lo stesso sguardo della donna del dipinto e un sorriso lieve. Un sorriso amaro».
Attesi che Esmeray terminasse il suo racconto, ma lei cadde in un ostinato silenzio.
«Cosa ne è stato di quella donna?» la incalzai.
Lei mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, poi si alzò in piedi e si aggiustò il velo fin sotto gli occhi. La sua voce era un sussurro adesso.
«Il Sultano fuggì dalla stanza in preda al terrore. Lei era morta con quell’espressione dipinta sul volto».
«Qualcuno le ha fornito il veleno?» chiesi.
Ma Esmeray si era allontanata, ombra tra le ombre.