Betta, il pesce siamese

L’ombra dell’amore a volte può estendersi come una maledizione su ogni aspetto della propria vita. Un racconto di Alessandra Corrà.

 
L’orchestra ha iniziato a suonare la nona sinfonia di Beethoven, quando il cellulare si mette a vibrare, un messaggio: “Betta non sta bene. Boccheggia, sembra soffocare.”.
Simulo un colpo di tosse per attirare l’attenzione di Carlo. Niente, lui ha lo sguardo fisso sul palco. Gli sfioro il braccio.
«Devo tornare a casa. C’è un problema.»
Lui mi guarda turbato: «Anche questa volta ci è riuscita.»
Poco dopo, entro in casa con il fiato in gola. Le luci sono spente. Mi sfilo il cappotto, lo getto su una sedia e mi dirigo in salotto.
Betta giace esanime in fondo l’acquario. Betta splenders, un esemplare maestoso di pesce siamese, uno dei più belli, dalle squame turchesi come diamanti e con le pinne simili a piumini di velluto. Lo chiamano “il combattente” perché è un’animale molto forte. Un guerriero. Me lo ha regalato Carlo e stava bene, com’è possibile che improvvisamente?
Mi siedo a terra. Sento un vuoto dentro. Mi è difficile pensare, ma la consapevolezza arriva lo stesso. Io ci tenevo tanto e LEI lo sapeva!
Ecco perché ha deciso di avvelenarlo. Non c’è ombra di dubbi, ora mi è chiaro, attraverso il pesce ha colpito me per punirmi perché avevo iniziato a uscire con Carlo. Questi giochetti li conosco. Lei non tollera chi si mette in mezzo a noi. La sua gelosia, paradossale.
Ora di certo si starà fregando le mani trasudando tutta la sua meschinità.
Questa sarebbe stata l’ultima volta. Non mi avrebbe più impietosita. Avrebbe potuto piangere, digrignare i denti, minacciare il suicidio.
Aveva iniziato a soffrire di depressione quando papà era morto. Forse proprio per i farmaci assunti, una sera aveva perso il controllo della macchina. Era rimasta semi paralizzata dalla parte sinistra del corpo. Da quel momento si era affidata solo a me. D’allora avevo perso ogni contatto con il resto del mondo. A parte il lavoro, non avevo altre distrazioni. Mi ero rinchiusa in quella casa dove gli unici ospiti erano gli spettri.
E ogni volta che cercavo di venirne fuori succedeva qualcosa. Captati i miei punti deboli, li colpiva dilaniandoli.
Ma non l’avrebbe avuta ancora vinta, questa volta no.
In camera presi una valigia e alla rinfusa iniziai a gettare dentro quello che capitava: maglie, calze, camice. Quella sera sarei andata in Hotel, o anche all’inferno fosse stato necessario. Poi avrei assunto una balia e avrei iniziato a vivere, fregandomene.
«Ada, sei tu? Sei tornata?»
Sentivo la sedia a rotelle muoversi fuori dalla camera. Il suo respiro affannoso.
«Lo so che sei lì, aprimi. Fai la brava, accompagnami in bagno. Sai che faccio fatica, mi fa tanto male la gamba.»
Questa volta sarò forte.
Decisa apro la porta, gli occhi di mia madre catturano i miei. Il suo amore, il suo maledetto amore.
«Eccomi, sono qui.»
Inconsciamente, come una sonnambula, inizio a spingere la carrozzina verso il bagno e in una frazione di secondo scorgo il volto materno in uno specchio del corridoio, ed è come una scossa improvvisa quel ghigno insolente celato nelle sue labbra secche.

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