
Ogni epoca ha bisogno dei suoi eroi. Un racconto di Adriano Muzzi, sesto classificato nella Steampunk Edition.
L’ultimo funi-ascensore stava per partire dal mega-condominio 3523, mancavano solo tre minuti alla chiusura delle porte; Lisa poteva vedere lo scorrere dei secondi negli enormi orologi a vapore incastonati nelle pareti. Correva come una forsennata nei corridoi infiniti del palazzo, schivando persone, animali e carretti elettrici impazziti. Conosceva a memoria il percorso, ma doveva concentrarsi per non imboccare una svolta sbagliata: era tutto uguale, tutto si ripeteva all’infinito come un gioco di specchi. Lo zaino pesava parecchio sulle esili spalle della ragazza e la rallentava, ma il contenuto valeva la fatica.
Vide l’ascensore che stava chiudendo le porte, con un balzo si mise tra i due battenti e li fermò; le persone a bordo iniziarono a fare commenti stizziti. Lisa si guardò intorno, come al solito la cabina era strapiena: famiglie con bambini, operai, e impiegati chini sulle loro mecca-calcolatrici. Il manovratore la fissò dai suoi occhialoni rotondi da aviatore, cappello a cilindro e giacca a coda lunga con gilè damascato; gli strizzò l’occhio di vetro e azionò delle leve a frizione. Ci fu uno strattone e l’ascensore iniziò a salire fino al centoquindicesimo piano; una volta sul terrazzo, attraverso uno scambio, si collegò alle funi dell’alta velocità; la cabina accelerò in orizzontale, iniziando ad attraversare la città.
Lo skyline era un susseguirsi di grattacieli, dirigibili e mongolfiere. Vapore denso e nero fuoriusciva dalle fabbriche, altrettanto ne veniva sparato nel cielo dai comignoli arrugginiti delle navi-città che solcavano il vicino deserto radioattivo. Lisa rimaneva sempre inorridita da quella visione e sentiva montare dentro di sé una grande tristezza per la totale assenza di spazi verdi per il gioco.
Un altro scossone confermò l’avvenuto scambio a una stazione aerea intermedia: pulegge ed enormi ruote dentate piene di morchia sfrigolarono a folle velocità unendo funi provenienti da vari condomini.
Era il momento: con le lacrime agli occhi Lisa si chinò per prendere la bomba dallo zaino. Il suo sguardo incrociò quello di una bambina, che le chiese:
«Come ti chiami tu? Che fai?»
«Mi chiamo Lisa. E questa serve per liberare il nostro futuro.»
La bimba la squadrò con aria interrogativa, poi si concentrò sulla sua bambola.
Lisa con un gesto secco ruppe il vetro di emergenza e tirò la leva di apertura della porta. Si tuffò, aprendo le braccia come gli angeli nelle chiese; i palazzi sotto di lei sembravano tanti cubetti di ghiaccio rovesciati su un labirinto. Tolse la sicura alla bomba e premette un bottone rosso: un telo gigante si dispiegò nell’aria, tutte le cam-mongolfiera in zona l’avrebbero ripresa e trasmessa in tutto il globo.
La scritta colorata rimase nel cielo per molti minuti:
Siamo farfalle. La Terra è la nostra crisalide.”
Lisa continuò la caduta libera con le braccia aperte, il vento forte nei capelli e un sorriso finalmente di felicità sul suo viso da bambina.