Un’estate di borgata

Combattere per la giusta causa: basta scegliere di farlo. Il racconto di Alberto Della Rossa vincitore della Di Giulio Edition del 2015.

Sento il sapore metallico del sangue. Prendo spazio e mi passo la lingua sul labbro spaccato, sorridendo. Fatti i cazzi tuoi, mi dicono sempre gli amici. Smettila di metterti nei guai, mi ricorda mia madre. Ricorda di indignarti sempre, mi diceva mio nonno. Credo sia superfluo dirvi che mio nonno, per me, era un mito.
Le borgate di Roma non sono un gran posto dove crescere. Una rapina qua e là, la droga, la crisi. Tutte stronzate, il problema più grande della periferia di Roma sono i borgatari, me compreso. Una massa di personaggi pasoliniani, incazzerecci, pronti a litigare per un piatto di spaghetti o per una precedenza non rispettata. A sentire noi è sempre colpa di qualcun altro, salvo il fatto che quel qualcun altro è il vicino di casa o i ragazzi del parchetto in fondo alla strada, il tassinaro o il capofficina. Il borgataro combatte contro sé stesso.
In mezzo a questa pletora d’umanità dolente stanno personaggi come mio nonno, operaio metalmeccanico con la passione per il pugilato e un pessimo carattere. Mi ha messo un paio di guantoni in mano verso i dodici anni, e non mi ha più permesso di toglierli, tra il disinteresse di mia madre, sempre più affaticata dalla vita, e il disappunto dei miei insegnanti alle medie, che mi vedevano arrivare di tanto in tanto con la faccia pesta e una luce spavalda negli occhi. Dicevano che un’educazione simile potesse portare solo ad un’inclinazione alla violenza. Balle. Non sono violento, solo che, pur lamentandomi delle sfuriate del nonno, ho ereditato il suo caratteraccio e la sua rabbia.
Il mio momento di sfiga si presenta verso fine agosto, puntuale come un esattore delle tasse. Sto tornando dal lavoro, quando sento i guaiti. Allungo il passo, temendo che qualche cane possa essere rimasto ferito da qualche parte sulla strada. In lontananza invece vedo diverse figure riunite in cerchio, al centro del quale sta un cane randagio. Assomiglia a un pitbull, forse leggermente più piccolo, col mantello panna e nocciola. Guaisce a ogni calcio, cosa che accade ogni volta che cerca di uscire dal cerchio. Intorno a loro ci sono anche le ragazze del gruppo, ad osservare la scena. Un paio ridacchiano pure divertite, ‘ste troie.
In pochi istanti sento la rabbia montare, e mi ritrovo in mezzo a loro.
«Il cane è tuo?» mi chiede il capo del gruppo. È il più belloccio tra tutti, con una specie di crestina da calciatore. Carnagione scura per l’abbronzatura e l’aria spavalda di chi raramente si sente dire di no. Digrigno, detesto i fighetti.
«Vi state divertendo?» chiedo a denti stretti.
«Il cane è tuo?» incalza.
«No.»
«E allora fatti i cazzi tuoi.»
Gira la testa di lato, sorridendo, per cercare l’approvazione delle ragazze. Poi allunga la mano verso di me, per spintonarmi.
Il nonno lo diceva sempre: corretti sul quadrato, animali per strada. Gli do un pugno a martello sul polso, mentre col destro alzo un montante che colpisce sotto il bicipite. Ondeggio e riemergo sul lato destro, sferrando un gancio basso sul costato. Nel tragitto la mia bocca incontra il suo pugno, ma poco importa: è in ginocchio e non ride più.
I suoi compari si sono dileguati. Il cane corre via, a sopravvivere un altro giorno nella calura dell’estate romana.
Il sole sta tramontando dietro ai colli: è quasi ora di cena.

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