
Terribili segreti di famiglia in questo racconto di Diego Martelli, sesto classificato nella 114° Edizione di Minuti Contati con Andrea Cavaletto come guest star.
Strinsi i denti al cigolìo della porta: ero tutta un fascio di nervi. Dio! Non volevo essere lì, ma mi imposi di non fuggire. Dovevo entrare e ricordare.
Nessuno più viveva in quella vecchia casa: era abbandonata da quando i creditori l’avevano presa a mio padre, e le aste erano andate deserte dopo tutto quello che era stato scritto sui giornali. Lui ci aveva vissuto fino all’ultimo e dopo che mia madre se ne era andata non aveva più nemmeno dovuto fingere. Ci aveva portato una donna dopo l’altra, anche dopo i processi, le voci e gli scandali.
Camminavo alzando la polvere, e mi pareva di vedere su quelle assi i miei piedi di bambina. Mi vedevo nascondermi ridendo dietro il grande divano, dove mamma mi mandava quando papà era nervoso. Il gioco diventava brutto perché loro gridavano, io mi spaventavo, e quando mamma veniva a prendermi aveva le guance bagnate e gli occhi rossi. Se le chiedevo se papà l’aveva picchiata diceva sempre di no.
Urla, dicevano adesso i vicini. Certe notti si sentivano urla provenire da lì: forse ragazzini con un brutto senso dell’umorismo, forse uno strano effetto del vento. Io le urla le avevo sentite davvero, in quella casa: nella cucina ora drappeggiata da ragnatele polverose, dove mio padre mi diceva che ero stupida e inutile come la mamma e come Becky; nello studio mangiato dalla muffa, dove mia sorella gli urlava che non voleva i suoi baci, che ormai era grande e aveva capito; nella mia cameretta dal tetto crollato, dove mamma gli gridava di non guardarmi così, di venire via, di non osare nemmeno solamente pensare…
Mi appoggiai a uno stipite, debole. Avevo fatto solo pochi passi. La mia mano, diafana, smosse polvere anche dall’asse dove da bambine misuravamo la nostra altezza. C’erano ancora tutte le tacche.
Potevo quasi vederci, proprio lì in salotto: quando ero ancora piccola, non capivo e tutto andava bene. Non era così male ricordare, ora che avevo iniziato. Mia madre era là, a leggere sulla poltrona bassa così composta, così bella. Becky era ai suoi piedi, a disegnare fiori con i pennarelli. E lui era in piedi vicino al caminetto, con la pipa accesa… ma non faceva paura mentre lo ricordavo così: non mi faceva paura nemmeno ora, mentre lentamente si voltava a guardarmi.
Ricordavo, ora! Perché avere paura? Era un porco, solo un porco e un poco di buono. Ero scappata da quella casa, e non me ne era importato niente di quello che avrebbe detto la gente in chiesa, o dei suoi soldi, o di cosa sarebbe successo alla famiglia! Ero andata via ed ero stata meglio senza pensare a loro. Ed era inutile ora che lui sorridesse e tendesse verso di me la mano fumosa, nera, come se volesse afferrarmi; che mia madre, traslucida, si coprisse il volto; che mia sorella mi guardasse immobile e atterrita, mollando i pennarelli. Io ricordavo! Ricordavo tutto di quella sera: di come mamma gli avesse detto di non toccarmi, del vaso di fiori che gli avevo lanciato addosso, di come avessi preso le chiavi della macchina.
Mi raggiunse proprio sulla porta di casa. Le sue mani erano crudeli, forti come il ferro, e non c’era nessuno a difendermi. Becky era già morta e poteva solo guardare: come mamma, che era stata uccisa per prima.
Ricordavo. Ricordavo! Ero sempre rimasta qui, con mamma, con mia sorella. E con papà.
Quella mano nera, la sua mano, mi ghermì come allora.
Chiusi gli occhi e urlai. Urlai! Urlai e urlai! Urlai fino a dimenticare.