Tenera è la notte

Quando ad avere paura è il Babau… Quinto classificato nella 117° Edizione con il collettivo Valery Esperian come guest star, un racconto di Mario Pacchiarotti.

 
Quando ero piccola, e spegnevo la luce, il Babau si chiudeva a chiave nell’armadio.
(Vera Q)

 
Vera trangugiò l’ultimo boccone e fece un lungo sbadiglio.
«Hai sonno?»
Lei annuì con vigore. Il padre guardò l’ora.
«È tardi. Vai in camera che vengo a darti la buona notte.»
La bambina non si fece pregare.
«Deve avere proprio sonno» commentò la mamma, divertita.
«Oggi siamo stati in campagna e non è stata ferma un minuto.»
«Almeno si è divertita.»
«Visto? E tu che temevi si sarebbe annoiata.»
«Pensavo si sarebbe sentita sola, e invece…»
«Invece non si riesce a tenerla ferma. Vado a darle la buona notte.»
 
Quando il padre entrò nella stanza Vera tenne gli occhi chiusi. Lui si avvicinò al letto, la baciò sulla fronte, spense la luce e uscì. La bambina aspettò. Sentì i rumori dei genitori che finivano di sistemare. Li sentì andare in bagno. Ascoltò il brusio che venne per un po’ dalla camera da letto. Poi la luce si spense.
Con pazienza attese ancora, tenendo d’occhio le lancette fosforescenti della sveglia. Aspettò mezz’ora. Si sentiva il russare del padre, un rumore integrato con gli altri suoni notturni. Poteva percepirli tutti e riconoscerne la provenienza. La goccia nel lavabo, un pluc sordo. Un gufo in lontananza, che lanciava il suo richiamo. Il sibilo appena percettibile del vento tra gli stipiti. E tra i tanti, quel grattare.
 
Erano lì in vacanza da quattro notti e da quattro notti lei lo sentiva. Ogni notte aveva aspettato che i genitori dormissero e ne aveva cercato la fonte. Con prudenza, evitando di fare rumore, leggera come una fata, si alzò a sedere sul letto, infilò le calze pesanti di lana, scese dal letto.
Per tutto il giorno aveva studiato il da farsi. Andò in cucina e nella luce impalpabile della luna individuò il ceppo dei coltelli. Ne scelse due e tornò nell’ingresso. Dalla bisaccia del padre prese la torcia. Non l’accese. Andò invece verso la porta della cantina, aveva girato la chiave nella toppa per aprirla prima di andare a letto, così non le rimase che spingerla con delicatezza per spalancarla. Fece i primi gradini e se la richiuse alle spalle. Accese la torcia.
Scese fino al locale più profondo, girò intorno alla seconda botte della fila. Ci si infilò dietro, c’era giusto lo spazio necessario. Era di fronte alla piccola porta, alta poco più di lei, che aveva individuato la notte precedente.
La fonte del rumore era lì dietro.
 
Poggiò la torcia a terra in modo che la illuminasse. Con uno dei coltelli cominciò a ripulire la fessura che separava la porta di pietra dallo stipite di tufo, movimenti veloci ed efficaci. Il raspare dall’altra parte accelerò il ritmo, mano mano che lei scrostava il terriccio accumulato nei secoli. Quando Vera si fermò il grattare era indiavolato, parossistico.
La bambina sorrise soddisfatta e con un colpo di ginocchio dalla potenza sovrumana fece schizzare la porta dall’altra parte.
La luce della torcia illuminò l’ambiente. Era una stanza circolare, scolpita nel tufo, una sorta di orcio al centro, spaccato. Simboli ben conosciuti incisi ovunque. Sul lato opposto, qualcosa di troppo orrido per essere descritto fremeva agitando artigli e unghie contro la roccia, nel vano tentativo di aprirsi una via di fuga.
Vera sogghignò.
 
«Sveglia dormigliona, sono già le nove.»
Vera si girò dall’altra parte.
«Lasciala dormire, è solo una bambina» disse il padre dalla cucina.