
Rimanere se stessi nonostante o cedere e perdersi cercando chissà cosa? Terzo classificato nella 117° Edizione di Minuti Contati con il collettivo Valery Esperian come guest star, un racconto di Linda De Santi.
Mi chiedete se riesco a perdonarmi?
In vita mia mi sono perdonato tante cose.
Le giornate trascorse nell’ozio, il mio vivere senza regole. Il modo in cui ingannavo i miei nemici con tranelli e travestimenti, quello in cui li colpivo al cuore e li vedevo cadere a terra. Lui – l’unico essere verso cui, dopo tanti anni, provo ancora stima – sorrideva, compiaciuto.
E tutto questo l’ho fatto quando ancora non avevo dieci anni.
A lungo ho vissuto senza preoccupazioni, se non uccidere più pirati possibile.
Non scorderò mai quei giorni. Il mio letto d’erba fresca nell’albero cavo, le corse nel bosco, i canti delle fate alla sera mentre lui suonava il flauto (Pennino lo ascoltava sempre con gli occhi lucidi).
Devo dirlo, allora ero quasi un eroe. Ero il suo braccio destro, e lui, lo so, preferiva me tra tutti.
Non come adesso. Ora sono uno schiavo della società, un ingranaggio del sistema.
Mi alzo ogni mattina in un letto freddo, vado a lavoro con la borsa e l’ombrello, leggo scartoffie uggiose e scrivo documenti inutili. Sorrido al direttore, quel vecchio insopportabile; mi vesto con abiti scomodi, tutto per uno stipendio da fame.
Sia dannato il giorno in cui ho deciso di venire a Londra. Dio maledica questa città tetra, che rigurgita pioggia e nebbia, tossica come lo scarico di una ciminiera.
Ho una moglie, Ashley, una donna apatica che parla solo dei vicini di casa. Ho anche due figli, David e Jane, che a stento mi parlano.
Loro non sanno da dove vengo e chi ero un tempo.
Non sanno neppure della stanza.
L’ho scoperta staccando alcune assi di legno dalla parete. Di fianco al nostro appartamento doveva essercene un altro, un tempo. Tutto ciò che ne rimane è una piccola stanza con una finestra, non più alta di un pirata con la testa mozzata, accanto al mio studio.
Di nascosto, ho coltivato qui i miei sogni. In tutti questi anni, ogni notte. Meditando e architettando, e rimettendo sempre a posto le assi alla fine.
Adesso i miei sogni stanno per avverarsi.
Seduta davanti a me, legata e imbavagliata, lei piange.
Ashley e i bambini dormono; comunque non gli verrebbe in mente di raggiungermi qui, nella stanza segreta.
Mi ha implorato, quando l’ho portata qui.
Ha detto che l’ha fatto per me, voleva che non fossi più un bimbo sperduto.
Le ho risposto che l’unico motivo per cui sono venuto qui è che lei mi ha fatto credere che il mondo non fosse l’orrore che è.
Non avrebbe dovuto. Non si sveglia un bambino che sogna.
Lei e le sue dannate ghiande. L’ho costretta a guardare fuori dalla finestra.
Seconda stella a destra, te lo ricordi, vecchia? Ci hai rinunciato, e in cambio hai avuto la noia, i giorni tutti uguali, e ci hai trascinato anche noi bimbi sperduti (lui però no, non l’hai cambiato. È rimasto sull’isola).
Lei geme più forte, i singhiozzi soffocati dal bavaglio, mentre sollevo in alto il cacciavite.
Mi perdonerò anche per questo.
Il cacciavite cade a terra. Lei mi fissa sorpresa, con gli occhi anziani.
In fondo non c’è bisogno di farlo. Lei ora è vecchia e sola, e, ne sono certo, rimpiange di aver rinunciato a Peter.
Il mio più grande rimorso è aver creduto a ciò che raccontano tutti: cresci, trova un lavoro, diventa uno schiavo, uccidi la fantasia per la ricchezza e la stabilità.
Mi pento di aver aspettato che per me, che un tempo ero Piumino, fosse troppo tardi.
Questo, lo giuro, non me lo perdonerò mai.