L’uomo che non ricordava più il futuro

Benjamin si sveglierà e griderà: «Lasciatemi stare!»
Volti tutti uguali, attorno a lui, così belli e perfetti da incutere terrore. Strane divise bianche e lucide. Un ambiente ampio e luminoso, forse un laboratorio, colmo di apparecchiature sconosciute e invadenti.
Lo prenderanno con la forza e lo costringeranno a uscire dall’antica capsula criogenica. Maledirà il giorno in cui ha deciso di ibernarsi, eoni fa.
Lo condurranno in un altro posto (una stanza bianca con un letto e un cilindro vuoto per le necessità corporali) dove lo analizzeranno e lo nutriranno, poi lo lasceranno solo. Dopo interminabili ore, arriverà un altro sconosciuto in divisa e Benjamin chiederà: «Cosa sta succedendo?» Chiederà anche che anno sia e l’altro gli risponderà: «20 maggio 2119». Si sentirà mancare la terra sotto i piedi e piangerà, perché tutto sarà perduto. Entrerà un altro inserviente che, senza preavviso, lo afferrerà mentre il collega gli farà un’iniezione; Benjamin scalcerà e si dimenerà, ma sarà inutile.
Calerà un sipario nero sui suoi sensi. Precipiterà in un placido nulla.
 
Aprì gli occhi: la testa gli rimbombava come dopo una sonora sbornia. Sopra di lui un volto gentile. Una ragazza, molto giovane, capelli castani, occhi verdi, sorriso raggiante. «Benvenuto.» gli disse. «Mi chiamo Louise.» Si tirò a sedere sul letto. Si guardò intorno, sembrava una casa di campagna, tutta fatta di legno e olio di gomito. C’era una grande finestra. Fuori, alberi, prati e un sole radioso. «Io mi chiamo…» Un buco nero al centro della testa. Si sforzò di ricordare, e ci riuscì. «Benjamin.» Non c’era altro, solo un sottofondo informe di memoria sopita.
«Vieni con me.» Louise lo aiutò ad alzarsi e lo portò nel cortile, dove c’era una tavola imbandita, piena di leccornie dimenticate. Lui mangiò tutto con avidità, come se fosse l’ultimo pasto.
«Rifocillati» lo esortò lei. «Avremo tante cose da fare oggi.»
«Dove siamo?» le chiese, beandosi dell’ultimo boccone di un delizioso biscotto.
«Gli Anziani lo chiamano l’Eden» rispose Louise, con entusiasmo. «È il posto della felicità. Ci risvegliamo qui, abbiamo quello che desideriamo, viviamo sereni. Ci innamoriamo…»
«In che anno siamo?» domandò lui, inquieto e preoccupato.
«Anno? 2019. Perché?»
Quello non era il suo tempo. Dov’erano finite le città? E perché non ricordava niente? E cos’era quel posto assurdamente paradisiaco? Troppe domande. Gli scoppiava il cervello!
Fu sopraffatto dall’impulso di fuggire. Di capire. Aveva fame di risposte. Si lanciò verso la porta e cominciò a correre. Veloce, sempre più veloce, fino a incendiarsi i polmoni. Superò un boschetto, attraversò un ruscello, e si perse in una distesa immensa di prati verde smeraldo. In lontananza scorse una barriera – forse una catena montuosa o un complesso di edifici – ma era sfinito, dolorante, non sapeva se l’avrebbe mai raggiunta. Si lasciò cadere nell’erba e si abbandonò a un sonno ristoratore. Si risveglio col sole, la brezza che gli accarezzava il viso e lo invitava a proseguire. Si diresse alla barriera, senza fermarsi. La raggiunse prima del previsto. Era un muro massiccio, mastodontico, monolitico. Benjamin s’inginocchiò sconfitto. E adesso?
«Ragazzo…» Qualcuno lo chiamava. Si voltò a destra. C’era un buco nel terreno, alla base della barriera. Lui si avvicinò cauto, si sporse intimorito. Due occhi profondi lo fissavano. «Ragazzo, guarda qui.» Non fece in tempo a ritrarsi. Un flash accecante lo stordì.
 
Benjamin spalanca le palpebre e sobbalza. Un uomo calvo dalla barba canuta e incolta lo fissa. Dietro di lui, una folla di individui di ogni razza ed età. Hanno lo sguardo curioso e benevolo. Si trovano in una specie di grotta immensa, rischiarata da globi sfolgoranti, sospesi molto in alto. «Chi siete?» chiede spaventato.
«Umanità» risponde l’altro, enigmatico e sorridente. Poi gli porge la mano. «Ti aiuteremo a ricordare il futuro. I Sintetici ci allevano per prendersi ciò che non hanno più, ma noi gli daremo pane per i loro denti.»
Benjamin gliela stringe.