Trappola di legno

Quando il sole cala e la notte risveglia la nostalgia, il vecchio Armando sale in soffitta, dov’è nascosto il suo segreto.
Sistema sul suo sgabello, al centro della stanza bassa e piena di ombre. Prende bulino e mazzetta e avvicina a sé il pezzo di legno. Lo striscia sul pavimento, pesante e massiccio. Si siede, lo stringe tra le gambe e inizia a sbozzarlo. È buio, ma Armando conosce bene quel ciocco, non gli serve guardarlo. Ricorda ogni nodo, ogni crepa, ogni stortura. Le accarezza per orientarsi e non ha bisogno d’altro per iniziare.
Fa saltare via schegge, trucioli e segatura che si depositano attorno a lui, per terra. L’odore del legno è intenso, la polvere fine si deposita sulla fronte sudata.
Scolpisce finché non gli dolgono le mani, perché le mani del signor Armando sono vecchie e stanche. A vederle direste che non sono mani adatte a scolpire piccoli dettagli minuti. Direste che sono mani grossolane e rudi, e invece man mano che i trucioli si accumulano e le forme escono dal legno, le mani del signor Armando diventano sempre più rapide, precise e raffinate. E doloranti.
I dettagli cambiano, di giorno in giorno. A volte è una ciocca di capelli la prima a mostrarsi, altre il profilo di un orecchio, una piccola ruga che Armando ricorda con tenerezza. Quando è fortunato si affaccia un occhio che subito sembra rispondere agli sguardi.
Ormai però, sempre più spesso a mostrarsi sono denti aguzzi, occhi felini, pelle squamosa e l’odio della prigionia. L’odio e il dolore stanno vincendo. Al signor Armando non piace trovarli su quel viso che per lui è solo felicità e gioia, ma non giudica, non condanna. Non sa, non immagina neppure com’è vivere in quella prigione di legno.
 
Quando il mazzetto inizia a colpire stancamente il bulino più piccolo, quando scivola di lato e i colpi sono scentrati, allora il signor Armando si rassegna, appoggia i suoi strumenti a terra e rimira con tristezza il lavoro del giorno. Da un lato, dall’altro, dal basso e dall’alto. Lucida un dettaglio sfregando un’unghia sulla superficie, spostandosi per cogliere un riflesso delle deboli luci che dalla strada filtrano nella soffitta.
Sfiora una guancia. Accarezza i capelli.
Troppo poco e troppo lentamente. Anche oggi.
Appoggia il ciocco lavorato a terra, si lascia cadere sullo sgabello con la schiena curva e si sfrega gli occhi chiusi con un fazzoletto per ripulirli dalla polvere, pensando a tutto ciò che manca. Sperando di averle dato un po’ di sollievo, una boccata d’aria.
 
Ogni sera il vecchio Armando scolpisce il suo ciocco di legno, batte e incide, modella e lucida. Ogni sera crolla addormentato, pensando a quel viso che ha ritrovato tra le venature. Sempre più l’immagine del legno si sostituisce a quella della carne nei suoi ricordi.
Ogni mattina il legno è ricresciuto, implacabile.
Ogni sera il vecchio Armando riprende a scolpire, sempre più rapido, sempre più efficiente, convinto che quello sarà il giorno in cui la libererà dalla sua prigione.