Padre Endre d’Ungheria

Le mura erano gelide, tutto il castello lo era, nonostante non fosse ancora inverno, forse erano le grandi finestre aperte, o forse era l’odore di sangue e putrescenza a far stringere nelle spalle i migliori soldati di sua maestà.
Era una notte serena, rischiarata dalla luna nuova e dal canto dei lupi. Endre non sarebbe nemmeno dovuto essere lì, comunque desidera essere da tutt’altra parte. Non era un soldato, non era mai stato un temerario e la più grande prova di coraggio nella sua vita, l’aveva data tenendo testa al padre superiore in una discussione sul settimo salmo e il libro di Abacuc. E per quanto nello stesso, il Signore spiegasse la pazienza, lui si vedeva come il profeta: atterrito dal proliferare dei malvagi.
Gli avevano detto di attendere, e lui attendeva. In piedi davanti all’enorme focolare spento, al centro della sala da pranzo. Trasalì al primo grido, si voltò di scatto verso la fonte del rumore. Nel buio della sala sentiva i passi metallici dei soldati al piano di sopra. Sferragliare di spade, ancora un grido, un uomo. Mosse un paio di passi e poggiò la destra sul legno della tavola. Per qualche istante riuscì a sentire il proprio cuore poi di nuovo grida.
Si inerpicò nel primo ballatoio, l’orecchio teso. «Padre! Venite!» La voce era attutita e distorta, strinse saio e cordone e corse lungo la passerella lignea. «Da questa parte.»
Una nenia lontana, non era una melodia, nemmeno una preghiera ma lo sembrava. «Dove?» Sussurrò con un tono di voce troppo flebile per poter essere sentito. Poggiò una mano su una porta dischiusa ma non fece in tempo ad aprirla, scaraventato a terra dalla ragazza che gli cadde addosso. «Aiutatemi, aiutatemi.» Piagnucolò.
La sollevò da sé sorreggendola per le braccia esili. Un fuscello avvolto da una veste lacera. «Che vi è accaduto madonna?» Le parole gli morirono tra le labbra, mentre la pelle tumefatta e disidratata della ragazza gli si strappava sotto le mani. «Signore Onnipotente.»
La lasciò guardandosi d’istinto i palmi. «Perdonatemi, io…» Con una forza cui non avrebbe creduto, il mucchio d’ossa si sollevò per riprendere a correre.
Si alzò allora, la nenia era più forte oltre la porta. Strinse il rosario e si leccò le labbra prima di entrare.
I soldati avevano preso alcuni prigionieri, altrettanti giacevano a terra. Il capitano gli fece cenno di avvicinarsi: la contessa era seduta su una poltrona di legno, nuda e stava cantando.
Prese un respiro sperando di dire qualcosa ma l’odore di sangue glielo impedì, riuscì a contenere un conato in malo modo. Due fanciulle erano appese a una trave del soffitto, per i piedi, scannate come suini, avevano inondato col proprio sangue la loro signora.
Si portò le mani alla bocca mentre abbracciava la stanza con lo sguardo. Una ragazza, poco più che una bambina era stata crocefissa alla parete di fondo e due erano morte, probabilmente da giorni, in un gabbione.
Il capitano lo invitò di nuovo, con un cenno indicò la contessa. «Siete qui per confessarla prima della sentenza padre.»
Un ginocchio cedette di schianto e si ritrovò ai suoi piedi. Alzò lo sguardo su di lei, con un panno umido si stava togliendo il sangue dal viso.
Deglutì cercando di schiarirsi la voce, sperando che non apparisse rotta dalla noce che di sentiva in gola. «Nel nome di Dio, perché?»
La duchessa si leccò l’indice. «Perché potevo.»