L’assalto

Ho davanti gli occhi di mamma. Mi sta parlando: «Arianna, guardami. GUARDAMI. Arriva a quindici e sei qualificata. Chiaro?»
Brutta storia avere come coach la propria madre.
Dai che ce la fai, continuo a ripetermi.
Salgo in pedana, la tipa è già al centro e le vado incontro. Non mi hai fatto niente, ma devo odiarti.
Saluto lei e l’arbitro, provo il fioretto, funziona. Infilo la maschera.
Siamo al terzo tempo. Per tutto il minuto di pausa mi sono chiesta quale sia il limite da oltrepassare per farcela. Quale sia il limite degli uomini, il mio.
E non lo so, cazzo, non-lo-so. Vorrei mollare questo torneo, la scherma, le urla. L’odore di sudore del giubbetto. Pensare solo a studiare, finire la scuola e andare in giro con le amiche. Cose così.
E invece sono pure brava, mi dicono che ho un gran talento. Sono la Will Hunting della scherma.
Non buttare tutto nel cesso, Arianna.
 
Siamo 12-11 per me, tre punti e ho vinto. Tre punti e mi qualifico per i campionati europei.
In guardia.
L’arbitro alza le mani. «A voi!»
Parto diretta: doppio passo-avanti, affondo. Sento che lei sta per andare a parare, cavo e la mia punta gira attorno alla sua, diretta al bersaglio.
Lei para di quarta e risponde: punto. Come ha fatto? Merda.
12-12. La stronza urla, vuole vincere.
E io voglio vincere? Quando dicono che è tutto nella testa, è vero. Mettici l’allenamento, mettici la tecnica: ci vuole testa. Non mollare, cazzo.
«Pronte? A voi!»
Ci riprovo: parto, la mando in difesa. Batto ferro, metto pressione. Finta, finta, rompo il tempo e stoccata al fianco.
Urlo io, adesso. Ti anniento.
L’arbitro mi dà il punto e allora mi giro verso mamma, prima non ho osato guardarla.
Vedo l’espressione da invasata: è contenta.
13-12, ancora due punti.
Non so come, la tizia mi infila quello dopo. Nemmeno l’ho visto.
Di nuovo parità.
Qual è il mio limite? Che sono esausta? L’allenamento prima di cena mi massacra. Sono due settimane che non esco di casa se non con l’attrezzatura.
In guardia. Dai che ce la fai.
La tizia mi sorprende: chiude la distanza, dà un colpo alla coccia, il suo fioretto mi si flette sopra come una lenza da pesca. Sento il colpo leggero sulla scapola: ha compiuto il miracolo.
Il segnalatore si illumina, boato dagli spalti. L’uomo in cravatta le conferma il 13-14.
Ha mandato a segno un fuetto a soli due punti dalla fine. Un gesto atletico che neppure i grandi osano tentare, se c’è in ballo tutto. Ci vogliono eleganza, precisione e un coraggio da leoni.
Chapeau, Rossana.
Perché ti chiami Rossana, questo è il tuo nome, non “tizia” o “la stronza”.
Perché meriti il punto.
Perché hai fatto il passo oltre il tuo limite.
Mi volto verso mia madre: per una volta, una sola volta schifosa, vorrei che fosse dalla mia parte. Che annuisse con ammirazione al gesto tecnico della mia avversaria, che ne riconoscesse la bellezza. Che sollevasse le spalle in modo bonario come a dirmi: «Beh, Arianna, era stupendo, che ci potevi fare?»
Per una scena così, giuro che lotterei fino alla fine.
E invece la sua bocca ringhia, sputa addirittura, mentre mi grida qualcosa sul non fare cazzate.
Eccolo, il mio limite. Finalmente lo vedo, dentro di me. Finalmente capisco.
Dio, che liberazione.
La mia strada è chiara, ora. Tratterò il mio limite come un vecchio amico.
Mi metto in guardia di fronte a Rossana.
Di fronte al punto che segnerà.
Tutto sta per cambiare.