Dark Factory

«Non fare sciocchezze, Perseghetti. Ti prometto che andrà tutto bene» disse il dott. Serra, emergendo dalla folla vociante di curiosi, giornalisti e carabinieri. Lo lasciarono avanzare, sperando che riuscisse a farlo ragionare.
Domenico si sgranchì le braccia per alleviare l’indolenzimento dovuto a ore d’incatenamento. Ma il dolore ormai non era più soltanto fisico. «Non si aggiusterà un cazzo, signò!» sbottò.
«So che sei arrabbiato» ribatté il dott. Serra, accomodante e con le mani ben in vista, «ma quello che sta succedendo è inevitabile. Hanno deciso così. I tempi cambiano. Non è colpa mia.» Un passo alla volta, si era avvicinato fino a dieci metri dal cancello principale dello stabilimento.
«Che ci do magiare a mia figlia e a mia moglie, eh?» domandò Domenico con tono stridulo, sull’orlo del pianto. «Mica le batterie di quelle schifezze meccaniche?»
Serra si mosse ancora verso di lui. «Metti via quella tanica, ti prego. Ti aiuterò. Sei un brav’uomo. Tu sei l’ultimo, è vero, ma non ti abbandoneremo. Il governo ha detto…»
«Ho dato la mia vita per questa azienda» gridò Domenico, e ricacciò a fatica un groppo in gola grosso come un’arancia, poi quasi si sentì svenire, ma tenne duro. Abbassò lo sguardo sulla tanica di benzina. «C’ho buttato il sangue qui dentro e questo è il ringraziamento?» Fissò con odio i cosacci robotici appena scaricati dai camion venuti dalla Cina. Il dolce sole di aprile si rifletteva accecante sui loro torreggianti tentacoli cromati. Non può finire così, si disse. Il dott. Serra non avrebbe capito neanche tra un milione di anni la sua disperazione. Chi è sazio non comprende chi è digiuno. «Voglio solo il mio lavoro, nient’altro.»
«Parlerò col Presidente. Scriverò al ministro» promise il proprietario dell’intera baracca, con un sorriso di plastica, un uomo distinto e impomatato, ostentatamente compiaciuto del suo abito Armani costoso quanto tre sudati stipendi. E non aveva vergogna a vomitare assurdità che non poteva mantenere. «Chiederò una deroga. Contento, uh?, Perseghetti? Fidati di me.»
Domenico detestava essere preso in giro così. Sapeva che sarebbe finito tra quei sette milioni di italiani buttati in mezzo a una strada dalle leggi sul lavoro automatizzato: dark factory, lo chiamavano.
Ora basta, pensò. Era tempo di passare ai fatti. Allentò le catene e si calò ad afferrare la tanica. Svitò il tappo e si versò l’intero contenuto addosso. Il puzzò terrificante del combustibile lo mandò quasi KO, per un lunghissimo minuto fu preda di vorticose vertigini. Sputò saliva acida, poi estrasse dalla tasca dei jeans l’accendino. Scoccò la fiammella e avvertì: «Se non chiamate il Presidente adesso, signò, quant’è vera la Madonna, mi brucio davanti a voi!»
Serra appariva spaventato per davvero. Si era irrigidito, le braccia distese contro i fianchi, e non diceva niente. La folla s’era acquietata.
«Guardate che lo faccio!» minacciò.
Tutti in silenzio. Lo avevano abbandonato sul serio.
Chiese perdono a Carla e, soprattutto, al suo angioletto, Bianca.
Si accostò la fiammella al petto e si chiese com’era il paradiso degli operai.
Serrò le palpebre.
Esplose il calore. Troppo calore. Poi freddo. E gelo.
Riaprì gli occhi. Le macchine erano sparite. Non c’era più nessuno.
Il giorno era bellissimo. Si voltò. I cancelli spalancati erano colmi di fiori.
Ora poteva tornare a lavorare.