Felice

Quarto classificato nella Livio Gambarini Edition, 146° All Time, un racconto di Mario Pacchiarotti.

 
Non ho molto tempo. Di questo mi rendo conto, almeno per un po’. Devo sfruttarlo, potrei non avere un’altra occasione. Devo farlo ora, finché il cervello funziona, prima che sia del tutto spento.
 
Potrei usare la vecchia carabina di mio padre. Ho nascosto una scatola di cartucce. Ora le prendo, carico il fucile, poi lo pianto in terra, con la canna in bocca e via… Finita.
 
Apro il ripostiglio. Le cartucce sono sotto la vecchia credenza, mi metto lentamente in ginocchio, infilo la mano… Non ci sono.
 
Rimango a lungo seduto in terra, contro la credenza, cercando di ricordare dove le ho spostate. Quando andavo a caccia con papà ero felice. Ci alzavano prestissimo, prima dell’alba. E poi una lunga camminata a piedi, l’emozione dell’agguato. Il profumo della polvere… E la cantina, il vino… La sagra, tutte le ragazze con i vestiti buoni… Che dovevo fare? Dare il mangiare al gatto? Ho un gatto?
 
Non so quanto tempo è passato, c’è meno luce. Devo trovare un altro modo. Un altro modo.
 
Le vene. Ho visto un film, c’era una vasca enorme, acqua calda, profumata. Intorno petali di rosa. E il vapore. E poi una donna, si tagliava i polsi e si addormentava. Non sembrava male. Era una bella donna, statuaria, senza difetti. Un po’ come mia moglie. Da giovane era così bella che quando la incrociavo per strada mi sentivo male. Ed è ancora bella, mia moglie, anche ora che ha più di quarant’anni. O cinquanta? Il compleanno dei quaranta me lo ricordo, quello dei cinquanta no. Nostra figlia le ha staccato la testa. Nostra figlia. Ho anche un maschio? Cerco con gli occhi le foto, mi alzo…
 
Che dovevo fare? Ah, sì, non ho molto tempo. Come quella donna, anche se non ho i petali di rosa, ma non fa niente, non si può avere tutto. Sono sempre stato uno che si accontenta. Uno pratico. Non ho lamette, andrà bene un coltello. In cucina ci devono essere. Vado a vedere. Sul tavolo c’è un cesto con la frutta, l’ha portato mio figlio. Mio figlio, ha preso tutto dalla mamma come mia figlia. Ho una figlia? Mi pare di sì. Mi viene rabbia per questa testa malata che non funziona più come si deve. E mi viene da piangere. Proprio a me, un genio. Un genio, me lo dicevano tutti, fin dalla scuola. E come era orgoglioso papà. Non mi ricordo la faccia. Ma era orgoglioso. Il primo della classe, diceva. Il primo della classe.
 
Che devo fare? No, questo non me lo scordo, lo devo fare ora, prima di perdere il coraggio. Prima di dimenticare anche chi sono, prima di non essere più niente.
 
Ci ho messo un po’. Non ricordo dove sono le cose, così ho dovuto cercare. Ma il bagno è pronto, caldo, fumante, profumato di sali. Mi ricorda quello che mi preparava mia madre… Quanto avrò avuto? Dieci anni? Otto? Mi faceva spogliare (mi spoglio), poi mi aiutava a calarmi nella vasca (entro nella vasca), e mentre mi strofinava (mi strofino), cantava (mi sembra di sentirla ancora). Alla fine mi lasciava stare, rilassato ad occhi chiusi, steso mollemente nell’acqua (come ora), pensando a niente…
 
Mi riscuoto. Dovevo fare una cosa… Mi sforzo, ma niente, è volata via, non c’è più… Che volevo fare? Sentire la radio? Ho una radio? Cucinare? So cucinare? Chiudo gli occhi, sorrido. Non riesco proprio a ricordare.
 
Oh, bè, al diavolo, l’acqua è bellissima.
 
Come quella volta al mare, che avrò avuto? Tre anni? Due?
Ero felice. Questo me lo ricordo.
Felice.