Qualcuno deve pur farlo…

Ma guardali, quegli scemi. Due vestiti firmati comprati coi traffici di papà e si credono dei duri.
Uno sfigatello con più rotoli di grasso che anni sta seduto sul muretto. Testa bassa, sguardo immobile all’asfalto.
Butto la cicca e mi alzo, queste panchine di ferro sono una tortura. Milioni spesi in appalti statali per la manutenzione del parco, e ti ritrovi seduto su una sedia dell’inquisizione riciclata.
Uno da un calcio allo zaino dello sfigato. Un altro sputa a un palmo dalle sue scarpe logore e ingrigite. Neanche buoni a tirare un catarro come si deve. Dove andremo a finire.
Mi avvicino.
«Dai, basta.» Tiro fuori una cicca, me la porto alle labbra. Evito il buco che ho tra i denti e mordo il filtro. «Andate via.»
Il capobanda si volta. Ha i Rayban da moscone della merda che gli coprono mezza faccia, ma mi gioco un fiasco di Zacapa che è inespressivo come un insetto. «Cazzo vuoi?»
«Ragazzi, andate al bar a bere due birre, è meglio per tutti.»
Fa un passo avanti, mi squadra da testa a piedi.
Non troverai nulla di interessante, credimi.
Sputa per terra. Gira la testa verso lo sfigato, mormora qualcosa e si allontana. Gli altri lo seguono tra ghigni e risatine.
Bravi ragazzi, andate a affogare i pensieri marci nell’alcol.
Do un lungo tiro alla cicca.
Lo sfigato alza al testa. Mi guarda, la abbassa subito. Il mio aspetto lo spaventa quanto i bulli. «Grazie…» Gli trema la voce, ma ha anche una punta di fermezza.
Non avrei dovuto farlo. Avrei dovuto lasciare che imparasse subito qual è il suo posto. Zitto, testa bassa e subire, si vede lontano un miglio. Ma ormai ho fatto la cazzata, l’ennesima. Il fumo mi riempie i polmoni. «Impara a farti rispettare, o passerai la vita a farti mettere i piedi in testa.» Tiro fuori una cicca, gliela passo.
«Non fumo…»
Ottimista, sto ragazzino.
Ma perché lo faccio?
 
Struscio il tubo a terra, la ghisa sul cemento ha un suono evocativo come un orchestra di violini.
Soffio il fumo in una nuvola. Ci mette parecchio questa roba a fare effetto. Anni, dicono.
Il tossico si rannicchia nell’angolo della cantina. «Ti prego! Pagherò, lo giuro!»
Chissà. Forse, se non avessi il naso mutilato, sarei finito come lui. «Anche la settimana scorsa hai detto così.» Poveretto. Se il capo gli lasciasse un po’ più di tempo, credo che pagherebbe davvero.
«Ho già pagato quasi tutto! E… tieni! Ho questi!» Butta davanti a sé una manciata di soldi. Rivolta le tasche, escono anche degli spiccioli. Cento euro, più o meno. Una ben misera barriera da frapporre tra la mia spranga e le sue ossa.
«Senti.» Cerco di essere più autoritario possibile. È assurdo, ma se stai calmo, fai agitare la gente ancora di più. «Se stai fermo ti rompo un femore. Se ti agiti, io sbaglio mira, e posso spaccarti l’anca o la rotula, che è peggio. La bamba costa, lo sapevi.»
Il poveretto piagnucola raggomitolato nell’angolo. Però sta fermo.
Alzo la spranga, ruoto le spalle, centro in pieno la coscia. L’osso si spezza di netto sotto il colpo, lui grida, ma neanche tanto forte.
Poveretti quelli che vanno in mano ai novellini. Ci mettono cinque o sei colpi, almeno. Abbondano sempre, per non sbagliare.
Ma perché lo faccio?
L’ultimo tiro alla cicca. La butto, e ne accendo un’altra.
 
Il marciapiede è stretto, mi faccio da parte. Una signora anziana mi passa di fianco scavalcando la pozzanghera. Mormora un ‘grazie’, abbassa lo sguardo, si allontana.
Continuo a tirare la cicca, arrivo al portico.
Suono il campanello quattro volte, il portone si apre con uno scatto. Attraverso il corridoio, arrivo davanti alla porta di mogano e busso.
«Avanti.»
Entro. La puzza di sigaro bruciato mi risale al cervello. Che senso ha intossicarsi con quella merda, se nemmeno ti avvelena il corpo come si deve?
«Buongiorno, capo.» Prendo la sedia alla scrivania e mi siedo di fronte a lui.
La faccia grassoccia si contorce in una smorfia di disapprovazione. «Toni. Ma perché continui a vestirti come uno straccione? Eppure ti pago bene. O sbaglio?»
«La paga è ottima.» La gente ammazzerebbe per uno stipendio come il mio. E chi ne ha l’occasione, spesso lo fa.
«E allora perché non usi un po’ di soldi per… darti un po’ di decoro?»
«Ho altri progetti.»
«Gira voce che sperperi tutto in beneficenza e cazzate simili.» Il capo mi mostra i palmi. «Ma non è affar mio. Fai come credi.» Tira fuori un sigaro. «Dicevo. Quella famiglia dell’emporio, ricordi?»
«Trentamila, da rendere in tre anni.»
«Esatto.» Si accende il petardo al catrame. «Sono fuori, e anche tanto. È che ci sono dei bambini in mezzo, e quindi pensavo_»
«Va bene. Vado io.»
Un sorriso di stupore gli compare sul viso da bulldog rincoglionito. «No, è che dicevo… accordati con Gianni e col Maffo…»
«Vado da solo. Domani.» Mi alzo, accendo la cicca. «Mettete i soldi nella mia cassetta a fine settimana, come sempre.»
Saluto, esco.
Figuriamoci se lascio un padre di famiglia e dei bambini nelle mani di due macellai impasticcati.
Che mondo di merda.
Do un tiro alla cicca. Ma quanto ci mette questa roba ad ammazzarti?