Imperfezioni

Per i dettagli uso il pennello più fino, lo passo nelle pieghe del vestito, per definire le ombre. Può sembrare uno scrupolo inutile, ma sono questi particolari a fare la differenza. Avessi un pennello ancora più fino disegnerei al mio modellino ogni ruga, ogni pelo, ogni poro del viso.
È bello.
Ma deve essere perfetto.
 
La notte mi agito inquieto, sogno un grande pennello che mi schiaffeggia le guance donando loro colore e realtà. Ma il demiurgo che mi plasma è turbato e insoddisfatto, la sua mano nervosa lascia sbavature oscene.
Non sarò mai perfetto.
 
Mi chino sul banco, teso nello sforzo di chi ambisce alla più assoluta precisione. Qualcuno entra nella stanza, rumore, luce, io sussulto e sbaglio il ritocco.
Bestia!
Che vuole da me? La caccio dal mio eremo, Lei protesta. Chiedo solo di essere lasciato in pace fino al termine della mia opera.
Mi rivolgo di nuovo alla mia creatura, ora il difetto è evidente.
Ci penserò io, amico mio, rimedierò a ogni errore.
Te lo devo.
 
Il modellino costruisce a sua volta un modellino. È chino su un banco da lavoro, alla ricerca della perfezione nel suo artefatto, per riscattare l’imperfezione di sé. Lo so perché l’ho costruito io così.
Sarebbe stato più facile farlo, che so, in piedi, rigido e statuario, le braccia conserte. Ma nella realtà chi è che mantiene una posa del genere? Un buono a nulla, fermo con le mani in mano, di quelli che papà disprezzava così tanto.
Quante me ne diceva papà, gran lavoratore, quando mi vedeva con le mani in mano.
Scusami, per non essere mai stato all’altezza.
 
Il modellino mi sbatte in faccia tutti i miei limiti. È brutto perché io non sono stato capace a fare di meglio. Lo odio e lui mi odia. E io mi odio.
Devo impegnarmi di più, così, magari, potrò smettere di odiarlo. Di odiarmi.
 
La notte mi agito inquieto, sogno un artista che mi plasma a sua immagine. Ma il creatore ha il volto di mio padre, l’espressione rabbiosa per aver generato un figlio così deludente.
E poi le urla.
E poi le botte.
 
Il pennello mi scivola nel momento più inopportuno, traccia una riga indegna tra i lineamenti del viso del modellino. Mani maldestre le mie, c’è poco da fare.
Non resisto più, mi scaglio con rabbia sulla mia indegna creazione, spacco e urlo e lancio e piango.
Ora capisco cosa provava papà quando lo deludevo. Aveva ragione a cercare di correggermi.
Il modellino va in pezzi, decine, centinaia di pezzi. Almeno così le sue imperfezioni saranno nascoste.
È questa la soluzione? Cessare di esistere per non essere più così inadatto?
 
Lei mi trova così, rannicchiato per terra, sconvolto da questo dilemma.
Mi abbraccia.
«Non sono buono a far nulla», dico.
«Non è vero», dice Lei.
«Lui mi avrebbe rimproverato», dico.
«Lui non c’è più. E non può più farti alcun male», dice Lei.
Piango e Lei mi abbraccia più forte.