
Alfonso Catenacci è il primo che scatta, sotto i fanali alogeni dei lampioni, tra due ali di auto a delimitare la pista, poi seguono gli altri, lui è sull’aquila della sua Guzzi 1000. Romba in terza, quarta e quinta, nell’aria gravida di una notte di luglio che sembra da partorire un temporale, odore di gas e umido appiccicato al bomber sotto il Dainese.
Sono già cinquecento metri, primo intermedio alla Civiltà Italiana, c’è una sterzata brutta a gomito da prendere in pieno e lui lo fa, come sedersi a un tavolino in via Veneto e bersi il caffè delle sette. All’uscita della prima curva, in testa, sta arrivando Er Mejo.
Er Mejo che tu lo sai, che te lo aspetti. Lui che, due anni prima, Agnese gliel’ha falciata un BMW scuro. Otto anni, Agnese e Er Mejo il cuore se lo voleva strappare. Lui che ora tiene tanti cavalli sotto il culo, la carena bassa, respirando i suoi ottani, vibra il casco, vibra la Guzzi e se vince, perché vince, la metà delle scommesse va alla Magliana. Finora sono due anni che mette la visiera un secondo prima di Pezza e Andrade, mentre derapa a sinistra piegandosi quasi all’asfalto. E all’uscita della seconda curva sta arrivando Er Mejo.
Pezza, in una corsa che va male, un modo trova sempre di mettercelo, il suo nome e quindi la pezza. Catenacci lo rispetta, ma non lo teme. Andrade lo senti e sa già di sberleffo, perché dell’ex libero della Roma ha la stessa velocità e pensi di vedere una sua azione alla moviola e invece siamo in tempo reale. Andrade che arriva sempre dietro, terzo di tre. Il secondo rettilineo lo inghiotte il volume di Highway Star, dall’autoradio di Veronica, che segue Alfonso da una vita e una volta sono andati anche a Veroli. Lei sa il profumo del verde di un prato con lui accanto, la sfiora, la abbraccia e la ama. Anche lei Agnese, amore mio, e una coltellata in pieno stomaco fa meno male.
E mentre un giorno lei gli stava sopra, nel bosco di Veroli, si è fatta promettere che lui l’avrebbe smessa con le corse. Ma ora è là, le luci dell’Eur alle due del mattino, prima che i caramba arrivino a lampeggiare blu e li freghino tutti. Ma intanto, in fondo al primo rettilineo, sta arrivando Er Mejo.
Lui che non tiene paura, a due-e-venti col manubrio che pare un motopicco, la forcella sembra schizzar via con pneumatici e tutto. Invece la tiene, la moto, con tanti saluti all’ansia, drogato dall’adrenalina per un nuovo giro da mandar giù in apnea. E ancora all’uscita della terza curva e poi della quarta sta arrivando Er Mejo.
Andrade però stavolta sembra averne di più, i pistoni della sua Aprilia li spinge sopra giri, mette dietro Pezza all’imbocco del rettilineo di fine corsa. E Alfonso per la prima volta in due anni, guarda dietro nel retrovisore. Vede con la coda dell’occhio sinistro il faro giallo dell’Aprilia farsi un punto, poi un disco e poi una luna e lui che doveva guardare davanti trova una buca con l’anteriore a duecento metri dal traguardo.
La Guzzi sbanda, si sdraia, prosegue prima strisciando le cromature in uno scintillio da fabbro ferraio, poi s’impunta come l’asta di Bubka, salta, si gira e prosegue da sola due, tre, cinque volte, prima di schiantarsi vicino a un palo della luce.
A duecento dal traguardo sta arrivando Er Mejo, sbalzato dalla Guzzi, quantità di moto e inerzia lo fanno volare per venti metri, lui non ha tempo per salutare, per guardare dov’è Veronica, per dirle che non è giusto, che quella doveva, doveva esser l’ultima, perché di scommesse non si vive, di scommesse si può morire.
Ma mentre il casco si sfascia sull’asfalto lui vede Agnese, riflessa nell’ultima lacrima di un soffio di vita.